François Clouet, Ritratto di Caterina de' Medici |
La figura di Caterina de'
Medici, moglie di Enrico II e regina di Francia, non ha mai goduto
buona stampa. Intere generazioni di storici e anche di romanzieri (se
si fa eccezione per Balzac) si sono accanite nel dipingerla con i
colori più foschi, riprendendo sovente tali e quali le accuse più
infamanti che furono messe in giro, mentre Caterina era in vita, dai
suoi avversari.
Da qualche anno a questa
parte, invece, sembra che si faccia a gara per ribaltare il giudizio
su un personaggio tanto discusso; al punto che proprio in Francia,
dove era stata oggetto di esecrazione, Caterina viene oggi presentata
come una sorta di eroina nazionale, che persegue, in una fase
decisiva per il destino del regno dei gigli, l'unità politica e
religiosa del paese. A render giustizia alla piccola mercante
fiorentina, definita in passato un'usurpatrice avida solo di potere,
ha cominciato nel 1980 Ivan Cloulas, con un libro (tradotto in Italia
da Sansoni) teso a dimostrare, pur non tacendo sui misfatti
perpetrati da Caterina, quanto essenziale fosse stata la sua opera di
governo per salvare dal tracollo la monarchia francese. E ora compare
una nuova biografia, non meno consistente per spessore e per
ricchezza di documentazione (Caterina de' Medici. Un'italiana sul
trono di Francia, Mondadori, pagg. 732, lire 32.000), con cui
Jean Orieux, storico e romanziere, autore di altre fortunate
biografie, pone per così dire il suggello a questa singolare opera
di riabilitazione: tant'è che il volume è rimasto per oltre trenta
settimane in testa alla classifica francese dei best-seller e ha
anche vinto un premio dell'Académie Francaise.
E' difficile stabilire
come e perché sia andato affermandosi tutto d'un tratto un così
grande interesse per la regina nera (chiamata in tal modo per
i suoi mesti abiti vedovili) che, pur essendo madre di tre sovrani
(Francesco II, Carlo IX ed Enrico III) e reggente nel mezzo di eventi
quanto mai drammatici, era stata relegata per lungo tempo in un
angolo buio della storia francese, quasi si volesse esorcizzarne la
memoria. Può darsi che alla sua resurrezione abbia contribuito il
nuovo gusto per il romanzo storico, tanto fu tormentata, tumultuosa,
densa di colpi di scena, la lunga parabola terrena di Caterina.
Rimasta orfana in fasce
(col padre agonizzante nella camera accanto, mentre nasceva; la madre
sarebbe morta di febbre puerperale di lì a pochi giorni) e scampata
poi per miracolo, nel tumultuoso epilogo della Repubblica fiorentina
nel 1527, alla vendetta dei capi della fazione più estremista, che
l'avrebbero voluta fare a pezzi o gettare in un postribolo, la donna
che dal 1560 si trovò a reggere per quasi trent'anni in un paese
straniero e in una Corte a lei ostile il timone del più prestigioso
regno d'Europa, ebbe la disgrazia, dopo esser stata tenuta in
disparte dal marito, innamorato della bella Diana di Poitiers, di
vedersi ripudiata dal figlio che più aveva amato. E, prima di
chiudere gli occhi, ormai settantenne ma ancora temibile, venne
pubblicamente additata dai suoi sudditi come la causa dei peggiori
mali che li affliggevano.
Comunque sia,
l'attenzione che così improvvisamente si è risvegliata intorno alla
vicenda di Caterina de' Medici ha portato quantomeno a una
valutazione più equilibrata del ruolo che ella giocò sulla scena
politica, al di là dei ritratti di maniera che ci sono stati offerti
fin qui. Non che nel libro di Orieux manchi una certa carica di
simpatia e più di un'indulgenza nei riguardi del personaggio. Ma le
attenuanti o le giustificazioni che l'autore fornisce a proposito dei
comportamenti più controversi di Caterina (a cominciare dalle trame
da lei ordite nella famosa notte di San Bartolomeo del 1572, sfociate
prima nel massacro dei principali esponenti calvinisti convenuti nel
Palazzo reale, e poi nella carneficina degli ugonotti nella capitale
e nelle province) non sono tali da inficiare il giudizio d'insieme,
ampiamente positivo, che emerge da una minuziosa ricostruzione dei
fatti. Si può quindi convenire con Orieux che ben difficilmente la
Francia sarebbe sopravvissuta all'anarchia in cui era piombata e al
grave indebolimento della monarchia, se la discendente dei Medici,
nipote di un papa, non avesse preso in pugno le redini del paese con
una forza d'animo e una intelligenza politica pari alla più cinica
spregiudicatezza, che nessuno a quel tempo avrebbe mai immaginato di
poter attribuire a una rappresentante del gentil sesso. “Un
miracolo di natura, veramente nata per reggere e governare”, la
definì nel 1579 l' ambasciatore veneto Lippomano, che pure aveva
visto all'opera tanti maestri di intrighi in un'epoca in cui le armi
dell'artifizio e della dissimulazione non erano meno micidiali di
quelle dell'arbitrio e della violenza. In effetti, anche se non
rifuggì dall'uso spietato della forza, Caterina fu spesso
ineguagliabile nel padroneggiare gli strumenti dell' arte politica,
nel senso più machiavellico del termine, che aveva appreso durante
la sua educazione fiorentina e romana, e poi affinato per reggere
l'urto con l'indole brutale della Corte e della società francese.
Tanto che ancor oggi è arduo dipanare il fitto intreccio di sottili
maneggi, di arditi espedienti, di seducenti raggiri, di opportunismi
tattici, di cui Caterina s'avvalse per blandire e disarmare i suoi
nemici più tenaci, o per destreggiarsi con autorevolezza fra le
rivolte interne e le non meno insidiose ambizioni egemoniche della
Spagna di Filippo II. Fu così che, celando un temperamento energico
e aggressivo sotto la maschera di un' apparente remissività, che
sembrava d'altronde confacente alle sue fattezze (piccola, tonda, gli
occhi sporgenti, il colorito pallido), la Regina madre finì per
imporre i suoi personali orientamenti negli affari di Stato, a
dispetto non solo di tanti avversari ed emuli, ma talora dei suoi
stessi figli.
Trovatasi, dopo la
tragica scomparsa del marito nel luglio 1559 e quella prematura
dell'erede Francesco II, ad agire per conto di Carlo IX ancora
minorenne, Caterina ebbe sempre chiara, fin dall'inizio della sua
reggenza, la consapevolezza del pericolo mortale rappresentato dalla
grande feudalità che dietro le guerre di religione tra i Guisa e i
Borboni (i primi a capo del partito cattolico, i secondi alla testa
di quello calvinista) mirava a scardinare il potere della Corona.
Personalmente la Regina
non nutriva particolare ostilità nei confronti degli ugonotti e, per
il resto, era sostanzialmente indifferente alle questioni religiose:
la sua fede era, piuttosto, l'astrologia e il suo grande sacerdote
Nostradamus. Ai suoi occhi la teologia appariva, d'altra parte, come
un serio ostacolo all'opera di pacificazione del paese che intendeva
condurre e che ad un certo momento sembrò dovesse portarla a
condividere le aspirazioni di quel partito dei politiques che,
pur muovendo da presupposti diversi, auspicava sopra ogni altra cosa
la concordia nazionale e la tolleranza religiosa. In un regno a
brandelli, lacerato dalla guerra civile e dall'odio irriducibile
delle opposte fazioni, afflitto per giunta da frequenti carestie e da
gravami fiscali sempre più intollerabili, Caterina fece del suo
meglio per porre fine alle controversie religiose, per restaurare
l'autorità regia, per sventare una congiura dopo l'altra, per
allontanare dalla cerchia degli intimi di Corte i consiglieri più
infidi, per ridurre all'obbedienza i funzionari recalcitranti:
dovendo spesso fare affidamento più sulla sua buona stella e sulle
sue ambigue e segrete risorse diplomatiche che sull'efficacia delle
sue disposizioni e sulla coercizione per mano militare. Giacché su
questi due versanti Caterina era praticamente indifesa: per la legge
salica, non avrebbe potuto esercitare alcuna forma di potere; quanto
alla possibilità di contrastare gli avversari sul campo di
battaglia, questi possedevano armate ben più forti e organizzate di
quella regia, sempre a corto di danaro.
La guerra dei tre Enrichi
(Enrico III di Valois, Enrico di Guisa ed Enrico di Navarra),
scoppiata nel 1588, un anno prima che la regina si spegnesse,
dimostrò quanto fragili fossero le barriere che Caterina aveva
cercato instancabilmente di apprestare in nome della ragion di Stato.
Sicché sarebbe azzardato qualsiasi confronto con quell'altra grande
protagonista del tempo che fu Elisabetta d'Inghilterra, la quale
riuscì invece a spuntarla sia sull'uno che sull'altro fronte, quello
politico e quello religioso, non soltanto in virtù del suo
eccezionale talento di statista, ma anche in forza di quella alleanza
fra monarchia e borghesia che in Francia s'era invece incrinata
irrimediabilmente.
Ci volle in effetti tutta
la tempra e l' autorità di Enrico IV, proprio l'uomo che Caterina
aveva più detestato pur sapendo che era il solo in grado di condurre
a buon fine l'opera che ella non aveva potuto realizzare (anche
perché considerata dai suoi sudditi, nonostante tutto, un corpo
estraneo agli ideali e agli interessi francesi), perché la sovranità
della Corona venisse pienamente ripristinata nel quadro di una
rinnovata coesione interna del paese.
"la Repubblica", 29 ottobre 1987
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