Disegno di Daniela Tini |
Alla “crisi della
sinistra” è riuscito il miracolo di aver colonizzato l’intera
gamma dei generi della comunicazione contemporanea: dalla canzone più
o meno di autore alla satira televisiva, dal giornalismo alle memorie
di protagonisti sul viale di un tramonto prossimo o recente. In
questo scenario, all’appello sembra sottrarsi soltanto la
filosofia. Non tanto i filosofi, che qualche volta capita di
incrociare negli stanchi rituali della politica virtuale, quanto la
filosofia o, comunque, una riflessione che cerchi di confrontarsi con
il tema all’altezza della sua complessità e profondità
anche storica.
Fra le poche eccezioni si
segnala il libro di Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la
democrazia (Mondadori, Milano 2013) in cui, senza indulgere in
tecnicismi filosofici, l’analisi delle ragioni e delle vicende che
hanno condotto alla crisi attuale si intreccia con un serio tentativo
di ripensare i fini e i confini della “sinistra-sinistra”
all’altezza dei dilemmi e delle sfide del presente.
Punto di partenza è la
disincantata presa d’atto che si è consumata una sconfitta e che
la sinistra ormai latita in un mondo politico e sociale divenuto
inospitale. La sinistra vive oggi una vita stentata e dispersa sia
dal punto di vista “culturale”, sia da quello “organizzativo”:
“Nessuna parte politica che abbia peso significativo, oggi in
Italia, si dichiara senz’altro di sinistra”. La crisi della
sinistra si legge prima e meglio nella marginalità in cui è stata
sospinta nel senso comune che nella riduzione del consenso
elettorale. Quello della sinistra è un mondo in frantumi perché la
sinistra ha perso la capacità di farsi mondo, di costruire
istituzioni e società, di pensare e progettare un equilibrio
contingente fra parti e tutto più avanzato di quello esistente.
L’altra premessa del
ragionamento di Galli è che si scrive sinistra, ma si legge da
sempre sinistre: “Sinistra è il nome di una parte, di un
settore della società e di uno schieramento ideale; ed è anche il
nome di una direzione, di un orientamento che questa Parte, con
l’azione politica, vuol dare al Tutto, all’ordine politico. (…)
Come questa Parte venga individuata, in quale relazione stia con il
Tutto, come e a quali fini lo voglia trasformare, e con quali
strumenti politico-istituzionali” dipende dalla tradizione
filosofica della modernità all’interno della quale ci si colloca.
Insomma, si è di sinistra in modo diverso in funzione, si direbbe in
un altro lessico, dell’immagine del mondo all’interno della quale
si pensa il rapporto individuo-società e, su questa base, si declina
il ruolo del potere politico (della violenza legittima) e il modo in
cui è possibile/desiderabile trasformarne il funzionamento.
Nella ricostruzione di
Galli queste tradizioni sono essenzialmente tre: il pensiero
razionalistico liberal-democratico, il pensiero dialettico e in
particolare il marxismo, il pensiero negativo “inaugurato da
Nietzsche e rappresentato tra gli altri da Heidegger, Derrida,
Foucault”. Ciascuna di queste tradizioni “è portatrice di
un’idea di libertà che si rivolge contro avversari diversi (la
tradizione, lo sfruttamento, la metafisica occidentale); ma al tempo
stesso è soggetta a rischi diversi:
rispettivamente,
all’economicizzazione dell’esistenza, alla dittatura burocratica
della Verità, all’irrazionalismo”.
A partire da queste
premesse è però sul piano delle trasformazioni reali della società
e della politica che vanno ricostruite le ragioni della crisi della
sinistra. Galli propone di leggere il Novecento come il “secolo
delle quattro rivoluzioni”: il comunismo, il fascismo, lo stato
sociale, il neoliberismo. Si tratta dei quattro modelli di ordine
sociale che hanno segnato il secolo, che ne hanno scandito
l’andamento. Ed è in particolare l’ultima, la rivoluzione
neoliberale, efficacemente definita come una rivoluzione contro lo
stato sociale, che definisce il contesto politico nel quale la crisi
dei partiti e della cultura politica della sinistra affonda le sue
radici. Nella prospettiva di Galli si è trattato di una rivoluzione
che nasce come risposta alla crisi del capitalismo all’inizio degli
anni settanta e dalle difficoltà ormai insormontabili alla sua
valorizzazione nella cornice stato-nazionale. In questa crisi il
capitalismo e le società occidentali cambiano volto: è la
transizione dal fordismo al postfordismo dal punto di vista
dell’organizzazione della produzione, è la globalizzazione e la
finanziarizzazione dell’economia, è lo smantellamento più o meno
graduale nei vari contesti politici dello stato sociale. Una
vera e propria rivoluzione conservatrice che rimodella la società
all’insegna di più libertà, più competizione, più
disuguaglianza.
L’esito di questa
trasformazione è stato un nuovo ciclo di espansione del capitalismo
che ha condotto a un poderoso incremento della ricchezza e dei
consumi su scala globale, ma che ha ridisegnato radicalmente i
rapporti tra capitale e lavoro, tra economia e politica. La
rivoluzione neoliberale ha infatti prodotto uno “spostamento
imponente di ricchezza dai salari al profitto”, una società sempre
più disuguale e divaricata, ma, al tempo stesso, anche una crescente
subalternità della politica alla logica economica. È nella quarta
rivoluzione del Novecento che affonda la crisi della sinistra perché
lì si è consumata la sconfitta del lavoro e perché, questa è la
tesi centrale del libro, il lavoro e la rappresentanza dei suoi
interessi, dei suoi diritti, della sua dignità è qualcosa da cui
nessun discorso di sinistra può prescindere. Di più: “Non aver
posto l’accento sul lavoro con sufficiente convinzione, aver
accettato la subalternità del lavoro e le disuguaglianze sociali, è
stata una delle maggiori cause di debolezza della sinistra”.
La crisi attuale ha reso
più urgente il compito di ripensare una sinistra che sia capace
innanzitutto di essere parte, di rappresentare un mondo del lavoro
fatto ovviamente di lavoro dipendente, di piccolissimi artigiani e di
imprenditori individuali, ma anche della variegata galassia del
lavoro precario o di coloro che un lavoro non ce l’hanno più o non
l’hanno mai avuto. Una sinistra che nella propria parzialità non
rinunci, tuttavia, a pensare l’universale, a “progettare un nuovo
compromesso, molto meno squilibrato dell’attuale, oltre che meno
burocratico che nel passato, tra economia e diritti di libertà, tra
mercato e Stato, tra privato e pubblico”, nella consapevolezza che
neutralizzare gli aspetti distruttivi del capitalismo neoliberale è
una “missione civilizzatrice” che risponde a un interesse
generale: “Un obiettivo che ha la stessa rilevanza epocale del New
Deal, anche se non ne può riprodurre le terapie e le soluzioni”.
Il lavoro, dunque, come
luogo materiale e simbolico da cui ripartire anche per valorizzare i
contributi critici sul piano dei diritti, delle istituzioni, delle
forme della politica che le diverse sinistre hanno messo a punto in
questi anni. Una prospettiva chiara e impegnativa che dovrà
confrontarsi almeno con due diversi generi di difficoltà. Il primo e
più immediato è costituito dalla sordità delle forze della
sinistra reale (spesso impegnata in tatticismi di ogni genere e in
diatribe da ceto politico), a cui sembrano mancare le risorse anche
soltanto per mettere in agenda una riflessione che si muova in una
direzione così ambiziosa.
Più in prospettiva, la
possibilità di fare nuovamente del lavoro un luogo di solidarietà
anziché di competizione dipenderà in larga misura dalle possibilità
di crescita dei paesi di antica industrializzazione: dalla capacità
del capitalismo di “generare” lavoro. Una scommessa che non è
scontato vincere.
“L'Indice dei libri del
mese”, Anno XXXI, n.1, Gennaio 2014
Nessun commento:
Posta un commento