Tutti i paesi più grandi
hanno un padiglione, così come le grandi aziende alimentari
(Coca-Cola e McDonald’s, ma anche Algida), certi gruppi industriali
(la confindustria cinese, Enel, Etihad), e le regioni italiane.
Questi sono tutti edifici
più o meno spettacolari, progettati apposta per attirare
l’attenzione e rispecchiare certe caratteristiche del proprietario:
quello di Coca-Cola ha una facciata coperta d’acqua rinfrescante;
quello dell’Oman sembra un palazzo da Mille e una notte. I paesi
meno ricchi sono raggruppati in cluster, gruppi di edifici più
piccoli e tutti uguali associati a un tema e a volte a uno sponsor.
Per esempio, molti paesi
produttori di caffè (Etiopia, Yemen, Burundi) sono raggruppati nel
cluster della Illy. Altri paesi, come le Maldive e il Belize, sono
nel cluster delle isole, che per qualche ragione include anche la
Corea del Nord. Sul sito non è segnalata, però.
Expò 2015 - Padiglione cinese |
Nel padiglione ceco si
può bere birra a marchio ceco prodotta da una multinazionale
tedesca.
Expò 2015 -Padiglione della Repubblica ceca |
All’Expo, la
fiera del cibo, la presenza dominante non è il cibo ma il linguaggio
A volte, camminando lungo
il Decumano, la strada che taglia l’intera esposizione, ti prende
un senso di straniamento.
Al centro della via ci
sono dei diorama a grandezza naturale che mostrano enormi ceste colme
di frutta, o maiali al truogolo, o banchi di pesce. A parte il gusto
passatista del legno e dei vimini non mostrano niente che chi sia
stato in un supermercato non conosca già. Il cibo più visibile alla
fiera del cibo è fatto di vetroresina colorata.
Lungo la strada si
tengono delle parate e degli eventi. Oltre a quella nel video di
prima, mi sono imbattuto in uno spettacolo di equilibristi a tema
patatine fritte, di fronte al padiglione del Belgio; in due steward
travestiti da saliere giganti, di fronte a quello dei Paesi Bassi; e
in un circolo di bonghisti.
Expò 2015 - Suonatori di bongo |
Andando avanti sulla
strada lo spettacolo più frequente non sono i chioschi di street
food che mi aspettavo (quelli sono sul retro), ma degli acquari pieni
di tapis-roulant e macchine da palestra. Lo sponsor, Tecnogym,
promette di donare in cibo ogni caloria smaltita pubblicamente dai
visitatori. Organizzano anche una lezione di spinning all’aperto,
dove decine di persone sudano come idrovore senza docce né cambio.
All’Expo, la fiera del
cibo, la presenza dominante non è il cibo ma il linguaggio.
Non è il linguaggio
educativo, dei cartelloni che spiegano una tecnica di coltivazione, o
le particolarità di una varietà alimentare. Questi sono rari,
perché noiosi, e sostituiti, dai paesi che se lo possono permettere,
da allestimenti che mirano piuttosto a sbalordire e a mostrare
visivamente.
Il Vaticano esplora la
fame nel mondo videoproiettando cibi sul piano di un tavolo vuoto. In
Russia c’è una sala con le foto di centinaia di tipi di grano.
L’Oman non insegna l’apicoltura ma è pieno di sculture di api,
bulbose e sovradimensionate. Gli Stati Uniti usano sette video per
far vedere le tradizioni culinarie locali, ma le immagini non
spiegano per esempio come mai, tra le molte etnie mostrate in tavola
a festeggiare il Ringraziamento, manchino i nativi d’America. Nei
filmati bevono tutti Pepsi-Cola.
Domina il linguaggio del
racconto, dello storytelling, e cioè il linguaggio della pubblicità.
Lo si riconosce dalla struttura semplice e suadente, dall’insistenza
su concetti morali e dal fatto che sia pieno di ordini.
Le istruzioni per le
visite, per esempio, usano l’imperativo e hanno un tono che mi pare
intimidatorio. Il padiglione olandese ordina di essere felici.
Il padiglione ceco invece
ordina “Sii calmo e silenzioso e potrai vedere di più”.
All’ingresso mostra una birreria sul ciglio di una piscina in cui a
spruzzare l’acqua è la scultura di un uccello blu elettrico con la
coda di sirena dal cui ventre protrude una ruota (non so descriverlo
meglio di così).
Dietro al padiglione
statunitense, delle statue di mucche in vetroresina hanno un
cartellino che intima ai passanti di farsi un selfie. Lo stesso
avviso si legge ai piedi del padiglione di Vanke, il grande
immobiliarista cinese, con indicazioni su quali punti della facciata
offrono sfondi più efficaci. All’interno si parla di “profitti
illimitati”.
Ogni cinque-dieci minuti,
una musichetta a volume altissimo erompe dagli altoparlanti di tutta
l’Expo, esclamando in due lingue: “Expo è magnifica, vero?”, e
invitando a manifestare il proprio accordo con un tweet o
prolungando, alle casse, la durata del proprio biglietto. Questi
annunci sono così frequenti che il sistema uditivo fa in fretta la
tara e si abitua a ignorarli. Durante la mia visita c’è stato un
piccolo incendio nel padiglione del Turkmenistan, ma l’allarme era
talmente simile agli annunci che ci sono volute varie ripetizioni
perché ci accorgessimo che dovevamo evacuarlo.
C’è un senso in cui
“storytelling” è un’espressione appropriata per tutto questo.
È il senso in cui si dice che uno “racconta storie” per dire che
sta mentendo.
Per esempio, il
padiglione della Sierra Leone annuncia fieramente che il paese
africano è un luogo di pace e prosperità.
Quello della Corea del
Nord caratterizza il paese più lapidariamente, così:
Expò 2015 - Padiglione della Corea del Nord |
Ben diversi da quel
funzionario sono i politici, i programmatori culturali e gli esperti
di marketing territoriale che hanno scelto il tema Nutrire il
pianeta per un evento che richiede la cementificazione di milioni
di metri quadri di campi. Questo non ci sembra ridicolo e assurdo
come il caso della Corea del Nord: tutt’al più triste e un po’
esagerato. Ma si sa, alla pubblicità va fatta la tara.
Quello che
colpisce, alla fiera del cibo, è la pessima qualità del cibo
Non è un caso isolato. I
progetti in base ai quali l’Expo è stata assegnata a Milano
prevedevano un parco agricolo permanente in cui ogni paese avrebbe
ricreato le sue colture tipiche, raggiunti da nuove vie d’acqua
scavate lungo gli antichi tracciati dei Navigli. In realtà le vie
d’acqua erano irrealizzabili, perché la pendenza della Lombardia
va in senso opposto. Il parco agricolo è esistito solo sui
rendering, sostituito nel mondo vero da un impianto a padiglioni,
meno costoso e più appetibile per gli sponsor. Anche in questo caso
è stata una cosa triste, ma era un po’ esagerato. Ma si sa, anche
ai rendering e ai progetti degli architetti va fatta la tara.
Quello che colpisce, alla
fiera del cibo, è la pessima qualità del cibo.
Non parlo degli chef
stellati; quelli ci sono ma costano caro, e dopo aver pagato 34 euro
di ingresso non me ne restavano 75 per mangiare allo stand di
Identità Golose (nel pomeriggio era disponibile un menù a prezzo
più basso, con le preparazioni avanzate dal pranzo, ma a quel punto
non avevo più fame).
In generale, penso che
chi può permettersi di mangiare a questa cifra preferisca farlo in
un posto che non sia strapieno di turisti, nel frastuono dei bonghi e
con annunci promozionali a tutto volume ogni cinque minuti.
Però dove non c’erano
le stelle la qualità era molto diversa da quello che si poteva
immaginare. A parte qualche baracchino (di marchi come Grom e Coop),
quasi tutti i gelati erano in concessione ad Algida. Nei ristoranti
regionali la pizza campana era appaltata a Rossopomodoro. L’enorme
padiglione dedicato al “Vino” italiano (trattato come
intraducibile nel tentativo, immagino, di replicare la brandizzazione
del termine “pizza”) era quasi monopolizzato da una partnership
con le cantine Zonin, così come i chioschi di Eataly e persino lo
stand ufficiale del Prosecco.
Ci sono altre cose,
certo: per esempio lo splendido centro Slow Food di Herzog & De
Meuron, l’ultima struttura quasi nascosta in fondo al Decumano.
Forse è per questo che non c’era nessuno quando ci sono andato io.
Il McDonald’s accanto era pieno.
Expò 2015 - Padiglione McDonald's |
A Expo sotto lo
storytelling non c’è niente
D’altro canto, i
padiglioni più piccoli, dalle tradizioni culinarie meno note, erano
affossati dalla mancanza di denaro, dall’incuria o da un
travisamento della natura dell’evento. In molti padiglioni
africani, il grosso dello spazio era dedicato alla vendita di
maschere tribali, chincaglieria e collanine e spesso non c’era
traccia di informazioni sul cibo.
Lo stand nordcoreano
vendeva solo ginseng, e ninnoli del regime che andavano a ruba, per
un’ironia che sfuggiva alla cassiera assorta a leggere la Bibbia
con un traduttore elettronico. I ristoranti di questi padiglioni
erano spesso rovinati dalla scarsità di clienti, e proponevano dei
piattini di plastica con dentro qualche panzerotto e del riso da
scaldare al microonde. In certi casi il piatto tipico era solo il
kebab.
Le critiche all’Expo
sono generalmente critiche alle sue premesse. Si può sostenere che
sia un format superato; o che il tema del cibo sia ipocrita; o
che la sua impostazione, in Italia, serva solo a giustificare un
enorme trasferimento di risorse pubbliche ai soliti costruttori e
complessi industriali privati.
Ma anche superando le
premesse, in cambio bisognerebbe ottenere un’esperienza
gastronomica e culturale che valga 34 euro per un visitatore o un
miliardo di euro per lo stato che ospita la manifestazione. A me non
sembra che sia così.
In molti hanno paragonato
la fiera a Eataly, non a caso coinvolto senza bando di gara a fornire
tutti i ristoranti delle regioni italiane. È un paragone per certi
versi sensato: anche a Eataly è tutto esageratamente costoso. Anche
Eataly non ha una bella reputazione nei rapporti con i lavoratori.
Anche Eataly è caratterizzato da una retorica urticante e
onnipervasiva.
È un paragone troppo
generoso. Da Eataly sotto lo storytelling si trovano (anche)
cibi buoni, per quanto cari. A Expo sotto lo storytelling non
c’è niente.
Ero a Milano nel 2007,
quando la città è stata coinvolta nella celebrazione della vittoria
sull’altra candidata a ospitare Expo 2015, Smirne. È lì che è
cominciato il racconto. Un giornale ha pubblicato una foto dei
proprietari del negozio di kebab sotto casa mia, che in quanto curdi
contavano un po’ crudelmente come imprenditori turchi. Facevano
notizia perché festeggiavano da milanesi nonostante la loro
nazionalità. Li ho presi in giro la prima volta che ci sono tornato,
chiedendogli cosa ci trovavano di buono nell’Expo. Non lo sapevano,
mi ha detto ridendo Dervis. “Però è comunque una cosa buona,
no?”.
Continuo a non sapere
cosa sia, ma io a questa domanda risponderei di no. Sono passati otto
anni.
“Internazionale”, 2
agosto 2015
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