La Storia della camorra di Francesco Barbagallo non è solo un
fondamentale libro scritto da uno dei più autorevoli storici italiani, ma
un’occasione per riflettere su temi e questioni al di là della materia
studiata. C’era bisogno di un’opera di questo tipo, intanto per definire meglio
alcune problematiche storiche.
Non a caso Barbagallo va di netto
sulla questione delle origini, che ha sempre suscitato fascinazione in misura proporzionale
all’evocazione di miti e leggende collocate magari indietro nei secoli, in un
tempo non definito. La camorra come attività distinta dalla criminalità comune
si diffuse «presumibilmente nel secondo quarto dell’Ottocento». Ricondurre il
momento della genesi ai tormentati anni a cavallo tra vecchio regime borbonico
e nuovo Stato italiano, significa, da un lato, cogliere nel disordine e
nell’assenza di certezze di quegli anni quel «vuoto» che favorì l’affermazione
della nuova realtà criminale e, dall’altro, collocare questo fenomeno sulla
stessa linea di altri simili fenomeni, a partire dalla mafia siciliana.
Così come sono definiti gli
inizi, altrettanto efficacemente è rappresentata quella fase che porta
Barbagallo a parlare di fine della «camorra storica» nei primi decenni del
Novecento, a partire dal famoso processo Cuocolo. In questo passaggio si
manifesta una forte differenziazione tra camorra e mafia siciliana: se
nell’isola la storia della mafia dopo la repressione del fascismo procede sostanzialmente
senza significative rotture al punto da riemergere dall’«inabissamento» alla
prima occasione (lo sbarco degli alleati), per la camorra si deve «parlare di
una netta soluzione di continuità». Questa distinzione, ci spiega lo storico,
dipende dal fatto che «la camorra ottocentesca resta comunque un fenomeno
marginale e subalterno rispetto ai poteri dominanti», mentre la mafia si
definisce in quel momento in cui acquisisce un’autonomia criminale e sociale e,
per dirla con Franchetti, l’esercizio della violenza si «democratizza» e
diviene un elemento costitutivo del sistema di potere.
Questo dato, la fine della
camorra «storica», contro i rassegnati fatalismi, ci indica una concreta
possibilità: non è ineluttabile una crescita criminale delle organizzazioni
mafiose. Ci sono momenti in cui la loro esistenza dipende dalla volontà di
contrastarle: alle «classi abbienti», diceva sempre Franchetti a proposito
della Sicilia, «basterebbe agire d’accordo per tre giorni» per eliminare il
fenomeno. Questo riferimento alla Sicilia descritta nel 1876 ha molto a che
fare con il nostro discorrere sulla camorra di oggi. Perché c’è un altro momento,
acutamente analizzato da Barbagallo, su cui è necessario soffermarsi e riguarda
i modi in cui un fenomeno morto riappare per stagliarsi nei tempi della
modernità criminale; e questo passaggio storico chiama direttamente in causa le
classi dirigenti campane.
Una criminalità tollerata tra gli
anni Sessanta e Settanta (contrabbando di sigarette), ad un certo punto diventa
«maggiorenne» e lo diventa, in primo luogo attraverso il ruolo decisivo svolto
dai mafiosi siciliani che riconvertono l’efficiente rete del contrabbando in
quella assai più redditizia dei traffici di stupefacenti. Ma il salto di
qualità decisivo si compie, per le responsabilità di una classe politica e
imprenditoriale, negli anni della ricostruzione post-sismica, quando la camorra
diventa un elemento, come in Sicilia, costitutivo della vita a tutti i livelli:
imprenditoriali e politici in primis. E così si arriva ai nostri giorni.
Questa Storia, dicevamo, sollecita riflessioni più ampie. Una delle cose più
interessanti del libro è la costante connessione tra analisi del fenomeno criminale
e analisi delle dinamiche del Mezzogiorno, perché la questione meridionale, per
quanto rimossa, si identifica in larga parte con la questione criminale: le
mafie costituiscono il più serio ostacolo alle possibilità di crescita delle imprese
e alla circolazione di capitali; in un mercato dal quale viene cancellata la
libertà d’impresa è difficilissimo attirare investimenti e, soprattutto, far crescere
le imprese locali.
Ma, e forse è la cosa che più ci
ha intrigato, questa Storia è un duro
atto di denuncia politica. Non si leggono qui le solite parole d’indignazione
ma di lucida analisi di un percorso che ha visto la politica divenire «un
potere secondario», rinunciando ad esercitare in prima persona un’attività
contro un fenomeno che non è solo criminale e il cui contrasto non può essere
delegato a poliziotti e magistrati.
Corriere del Mezzogiorno Giovedì 29 Aprile 2010
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