E’ ripresa su “micropolis” la rubrica
Parole, affidata questa volta a
Jacopo Manna. Nel numero di febbraio la “voce” trattata è francescanesimo. Mi pare che corrisponda ottimamente all’intento di “rettificare i nomi” per recuperare un giusto rapporto tra le parole e le
cose, reagendo a vecchie e nuove mistificazioni. Rimando per un primo
approfondimento su alcuni temi suggeriti da Manna a un post di stamane, su
questo stesso blog (http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2014/03/legenda-maior-san-francesco-edulcorato.html).
(S.L.L.)
Il palazzo della Regione Umbria
ospita una mostra dal titolo Francesco nel cuore delle regioni, dedicata alle
“impronte francescane d’Italia”. Fuori dall’edificio un cartello dà
indicazioni: “E’ dal 1939 - grazie al papa Pio XII che lo proclamò tale - che
S. Francesco è il patrono d’Italia. Francesco
ha anche insegnato ad un’intera
nazione a scrivere e a poetare, e ci ha donato il presepe, un’eredità culturale
e profondamente popolare tra le più amate. Francesco ci chiama ancora oggi a
costruire, una pietra dopo l’altra, la nostra Italia”.
Senza entrare nel merito della
mostra e trascurando il fatto che Francesco non insegnò alla nazione né a
scrivere né a poetare (il valore letterario del Cantico delle creature è stato
ignorato fino all’Ottocento), il cartello riassume in poche righe una serie di
convinzioni, divenute da molto tempo senso comune, su cui sarebbe ora di fare
chiarezza. Accade a volte che di certi personaggi si divulghi una versione che
a forza di smussature, fraintendimenti e rimozioni finisce per rendere
l’originale irriconoscibile o addirittura rovesciarne il segno.
Francesco d’Assisi, figura
scandalosa nella sua inconfondibile mescolanza di estremismo e mitezza, scelse
di farsi ultimo tra gli ultimi: e ciò non per punire se stesso o per disprezzo
dell’esistenza, bensì come gesto di imitazione amorevole nei confronti di Gesù
Cristo, che si era abbassato dall’onnipotenza divina fino alla morte infamante
sulla croce solo per gratuito amore dell’umanità. Un’imitazione tale da
arrivare al più totale svuotamento di sé, da cui conseguiva un senso di
vicinanza immediata a tutti gli esseri umani, in base al principio che solo chi
non ha nulla da perdere non ha più nulla da temere e nessuno di cui diffidare.
Da qui il culto per la povertà, trasformata nei discorsi del santo in una dama
che lui e i compagni, simili ai cavalieri della Tavola rotonda, onoravano e
difendevano.
Ma fu proprio questa povertà
onorevole ed estrema a venire rifiutata e respinta, già forse a partire dagli
ultimi anni di vita del santo, ormai isolato dalla maggioranza dei suoi seguaci
che sembravano non capirlo più: immensamente cresciuti di numero erano divenuti
un’organizzazione potente, per la quale Francesco dovette addirittura scrivere
un regolamento. Mentre glorificano il loro fondatore, i frati minori fanno
sparire il tema della povertà: in quegli affreschi della Basilica Superiore
che, come ha ben spiegato Cacciari nel suo Doppio
ritratto, danno della vita e delle scelte di Francesco d’Assisi una
versione addolcita, censurando i conflitti interni all’ordine ed annullando
proprio la rinuncia assoluta ad ogni possesso, la novità più sconvolgente del
messaggio originario.
La nomina a Patrono d’Italia
(così come i cospicui finanziamenti governativi alle celebrazioni francescane
del 1926) è una delle tappe con cui il Vaticano e Mussolini, “l’uomo della
Provvidenza”, risolvono il conflitto tra Stato e Chiesa, che in questo modo
legittima il fascismo. Anche sorvolando sulla dubbia legittimità teologica di
attribuire alla patria (entità storica) un protettore celeste, non si può non
notare che a questo ruolo è stato chiamato proprio il meno regolare, il meno
conciliante, il meno ufficializzabile di tutti i santi. Che ciò avvenisse
durante il fascismo, quando come segno di identità non si poteva offrire alla
nazione altro che miti e mistificazioni, è quasi ovvio.
Ma perché dobbiamo ereditare
passivamente un rituale che mortifica la grandezza e l’originalità di Francesco
d’Assisi?
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