Il soldato Giuseppe Burini (prestatori Bellaveglia e Moschetti) |
Perugia in cammino - Storie che fanno la storia è il titolo della mostra
fotografica e documentaria curata da Alberto Mori, con la collaborazione di
Luigi Petruzzellis, in svolgimento al Palazzo
della Penna di Via Podiani, a Perugia, fino al 6 aprile. Non perdetela: è ricca,
varia e interessante, vale la pena di una visita. Se siete insegnanti poi,
portatevi le scolaresche d’ogni ordine e grado, magari profittando della possibilità
offerta di visite guidate: solleciterete curiosità e interessi da cui partire
per costruire processi di apprendimento e conoscenza critica.
L’esposizione è frutto di una
operazione cominciata nel 2011 con la mostra La memoria nei cassetti. Perugia 1944/1970, che raccoglieva
immagini della città prestate da privati cittadini e organizzate intorno ad
alcuni percorsi tematici. Dal successo dell’iniziativa è nata la richiesta
rivolta dal Comune a singoli, associazioni ed enti, per una sistematica
raccolta di foto e di altri documenti relativi alla storia cittadina dall’Unità
d’Italia ad oggi, da rendere disponibili alla fruizione della comunità. Con il
sostegno della Regione è in corso la digitalizzazione e la collocazione in un
portale web dedicato.
Il progetto – con una punta di
ironia, immagino – è stato chiamato Archivio
della memoria condivisa, con espressione equivoca, il più delle volte usata
per propugnare una lettura “pacificata” della storia nazionale, un embrassons nous di sostanziale riabilitazione
dei fascisti, giudicati italiani che sbagliavano (come tanti altri, del resto),
per lo più con buone intenzioni. La “memoria condivisa” di questo progetto,
invece, ci soddisfa e piace, visto che non contiene nulla di ideologico e
lascia aperta la via a una ricerca spregiudicata, alla pluralità dei punti di
vista.
La mostra è collocata su due
piani del Palazzo della Penna. La apre una sorta di vetrina, una sala che
esibisce in pannello fotografie assai diverse per epoca e tematica, da
un’antica foto della Conca a un’immagine recente da Umbria Jazz. Vi spicca la
fotocopia ingrandita dell’appello di un sindaco ottocentesco che chiede aiuto
alle associazioni di proprietari e imprenditori per il finanziamento degli
studi universitari cittadini: la penuria di risorse aveva obbligato al taglio
di parecchi insegnamenti.
Il percorso è prevalente
cronologico. Da basso si va dalla sezione di fine Ottocento fino alla seconda
guerra mondiale, al primo piano dal dopoguerra si arriva ai nostri giorni. Ma
ci sono digressioni, spazi tematici di approfondimento; in primo luogo quello
delle sale dedicate alle attività economiche della città (con qualche uscita “fuori le mura”), corredate
da materiali selezionati dall’Associazione Vermiglioli di Numismatica e Filatelia.
I documenti prestati (cartoline, lettere commerciali, fatture, volantini
pubblicitari) sono generalmente meritevoli d’attenzione, ma, nonostante la
cernita, la roba resta comunque tanta e la cosa potrebbe scoraggiare o
affievolire l’attenzione.
Le sale del percorso
“generalista” sono caratterizzate da una varietà che, al primo impatto, crea un
qualche disorientamento: un corteo nuziale vicino a un deposito di bombe, un
gruppo di operai di fronte a Fausto Coppi in volata e così via; e tuttavia già
una prima riflessione rende evidente la trama di connessioni che legano i
pannelli delle immagini. I curatori hanno
opportunamente evitato le grandi “cornici di testo”, i commenti scritti che
spesso si presentano come gabbie, lasciando all’intelligenza del visitatore il
compito di costruire relazioni tra le immagini.
Altre scelte sono poi da
apprezzare: intanto, rispetto alla precedente mostra, lo spazio minore concesso
all’ufficialità: meno inaugurazioni e cerimonie pubbliche, meno incontri congressuali
o raduni giubilari, meno comizi e iniziative di propaganda politica. Non deve
perciò stupire che nel ventennio fascista, pure adeguatamente rappresentato, si
vedano così poche camicie nere. Insomma il “personale” sembra prevalere sul
“politico”; ma non bisogna pensare che si segua l’andazzo. Come si sa, in
questa restaurazione, riaffiora, in parallelo col leaderismo, la tendenza a
vedere nella storia (non solo politica) una storia dei capi (non solo politici)
che qui assolutamente non c’è. E c’è invece una sana reazione alla
“microstoria” intesa come “privatizzazione della storia”. Non bisogna lasciarsi
ingannare dal sottotitolo: l’idea dei curatori non è che la Storia sia una somma
di “storie”; per loro “le storie fanno la storia”, ma nel senso che con più
concretezza la documentano e ne precisano i contorni. L’esempio migliore è
rappresentato da una delle digressioni, dedicata al soldato Burini, morto
prigioniero degli austriaci durante la prima guerra mondiale, storia costruita
con documenti ufficiali, lettere private, foto: tristissima, giacché – lui
morto, nel 1917 – i suoi cari continuano a ricevere a sua firma lettere, che
malamente ne imitano la grafia, con la richiesta incalzante di pacchi viveri.
Ma sul materiale esposto, scarno, sono tante le considerazioni possibili. Per
esempio a una buona pagella di licenza elementare corrisponde un’espressione sgrammaticata,
cosa che sollecita domande e approfondimenti sul sistema scolastico. Un altro
esempio: in una lettera leggiamo l’invito di Burini ai suoi parenti perché
vadano a Perugia e sollecitino presso il “Signorino” una raccomandazione che
gli faccia ottenere l’esonero o, quanto meno, una “licenza per lavori
agricoli”. Che ci dice tutto ciò sui rapporti sociali nella città, sul sentire
popolare in merito alla guerra? Anche da questa vicenda, insomma, viene fuori nettamente
come non vi sia separazione tra grande “Storia” e piccole “storie”, ma piuttosto
intreccio. Leggendo, poi, la secca comunicazione dell’iscrizione del Burini
nell’elenco dei caduti di guerra m’è venuta in mente una canzoncina di De
Gregori, quella che fa “La storia siamo noi padri e figli / siamo noi bella
ciao che partiamo”. Me la sono portata dietro commosso fino alle ultime sale
dove ne ho trovato conferma osservando gli strumenti di lavoro di Aldo Poeta,
orafo e antifascista, e le care immagini di Pietro Ingrao e del nostro Enrico
Mantovani, giovanissimo e sorridente, come
sempre alle prese con le bambine.
Scendendo le scale al senso di
consolazione che ricavavo dalla visione è subentrata una domanda inquietante:
“Perugia in cammino, ma verso dove?”. Mi sono ricordato di alcune immagini
della prima sala, che mostrando scorci della città, documentavano quanto sia
mutata. Ho pensato a un centro molto più cementificato e assai più vuoto di
persone e di speranze, ho pensato al degrado degli ultimi decenni che può
leggersi anche in questa mostra, ed alle scelte spesso sbagliate degli amministratori
locali. Forse c’è una specie di schizofrenia in amministrazioni comunali e
regionali che promuovono occasioni di conoscenza come questa (bella) mostra e
ne ignorano le implicazioni per le loro scelte di governo. O forse sono troppo
evangelici: la mano destra non sa quel che fa la sinistra…
micropolis, febbraio 2014
Nessun commento:
Posta un commento