A 92 anni, dichiarare che
nomi e fatti sono evaporati dalla memoria o che poco si segue di
quanto accade nel mondo può essere una dolorosa ammissione di
fragilità. Oppure, a volte, un modo accorto di aggirare domande
importune. Nel caso di Arturo Schwarz, si sarebbe tentati di pensare
che i suoi «sono vecchio, non ricordo, non so», che punteggiano la
conversazione, siano più che altro un utile schermo – tanto sono
pronte le risposte, e chiara e ferma la voce al telefono – se non
fosse che nella sua vita Schwarz ha fatto e ancora fa un numero così
straordinario di cose, che se qualcuna gli sfuggisse, non ci sarebbe
di che stupirsene.
Procedendo in ordine
sparso: attivista politico (fu nel ’44 tra i fondatori della Quarta
Internazionale in Egitto, in seguito arrestato e detenuto due anni) e
poi – approdato in Italia alla fine degli anni Quaranta –
libraio, mercante d’arte, poeta, editore (per esempio dei versi di
una sconosciuta quindicenne di nome Alda Merini, oltre che di
Ungaretti o di Franco Fortini), studioso della cabbala e del pensiero
alchemico, saggista (il suo libro più recente, Il surrealismo
ieri e oggi, è uscito per Skira poco più di un anno fa).
Ancora: eccellente scacchista e «tuffatore sopraffino»,
informazione questa che si deve a una bella conversazione con Lea
Vergine uscita su “Vogue” nel 1984 e poi raccolta in un volume
appropriatamente intitolato Gli ultimi eccentrici (Rizzoli
1990).
Infine, ma questo Schwarz
proprio non se lo vuol sentire dire, anche se – fra le molte
etichette – è quella che ricorre più di frequente, grande
collezionista: Duchamp, Man Ray, Max Ernst, Jackson Pollock sono solo
alcuni degli artisti che hanno fatto parte della sua raccolta. Ma
«no, io non sono un collezionista. Un collezionista è uno che le
cose le accumula e le tiene per sé, e questo è un comportamento che
non capisco, anzi che ignoro totalmente. Io sono contro la proprietà
privata, la nozione stessa di proprietà mi è estranea. A suo tempo
ho comprato cose che mi piacevano, e poi le ho vendute o le ho
donate, ho tenuto solo qualcosa per mio godimento personale, ma
niente di davvero prezioso. Il resto, le opere importanti, le ho
regalate ai musei, come l’Israel Museum di Gerusalemme o la
Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, perché mi sembrava
giusto che più gente le potesse vedere».
Forse, osserva, «nei
tempi eroici qualche collezionista vero c’era, mentre oggi mi pare
prevalga un collezionismo speculativo». Subito, però, aggiunge di
non esserne sicuro, «sono fuori dal circuito da troppo tempo». E
dei Panama Papers, che indicano con prove sempre più numerose come
il mercato dell’arte sia oggi uno dei maggiori terreni di evasione
fiscale e di riciclaggio di denaro sporco, Schwarz afferma categorico
di non sapere niente. Come non conosce, o sceglie di non conoscere,
la pratica sempre più frequente, presso i collezionisti
“speculativi”, di depositare le opere d’arte presso freeports,
porti franchi, il più grande dei quali, a Ginevra, contiene pezzi
per vari miliardi di dollari (impossibile quantificare precisamente,
le stime si basano sulle vendite globali nel settore, che nel solo
2014 sono state di 51,2 miliardi di euro, secondo il rapporto della
European Fine Art Foundation).
Altri tempi, in effetti,
i suoi: «Nel 1949 sono stato espulso dall’Egitto per motivi
politici. Sono sbarcato a Genova e ho scelto Milano perché mi
sembrava la città più viva dal punto di vista intellettuale. Non
conoscevo praticamente nessuno e non avevo mezzi, ma trovare un
lavoro è stato semplice. Essendo cresciuto nell’Egitto di quel
tempo, parlavo correntemente francese e inglese, ho risposto a un
annuncio del “Corriere della Sera” e ho cominciato subito a
lavorare in una ditta di import-export come corrispondente
commerciale. Per lo più scrivevo le lettere che mi davano da
tradurre». Due anni dopo Schwarz, ormai inserito negli ambienti
della cultura milanese («non era difficile, anche se certi luoghi di
ritrovo, come il famoso bar Jamaica, io non li ho mai frequentati, io
non bevo, non sono persona da bar»), ha aperto una libreria. «Non
ci volevano grandi capitali: gli editori, anche quelli più grandi,
davano i libri in conto deposito. Bastava solo un po’ di
intelligenza».
E di intelligenza questo
giovane libraio neanche trentenne – un ragazzo, secondo i parametri
di oggi – doveva averne, alla lettera, da vendere, se alla libreria
si è presto affiancata la casa editrice e nel giro di un tempo
relativamente breve Schwarz ha cominciato a occuparsi anche di arte
contemporanea, sua grande passione il surrealismo. «Il passaggio dai
libri alle opere d’arte è stato graduale. Non ho mai pensato che
avrei fatto il mercante d’arte, saltavano fuori delle occasioni, si
trattava solo di coglierle». Nulla di premeditato, insomma, ma
l’ambiente milanese di quegli anni era fertile e fra le gallerie
più importanti, oltre alla sua, Schwarz ricorda bene il Milione e
l’Ariete di Beatrice Monti, che ha lanciato tra gli altri Alberto
Burri e Enrico Castellani.
E della Galleria
Internazionale, fondata ancora a Milano alla fine degli anni
Cinquanta dalla famiglia Nahmad, proveniente da Aleppo e poi da
Beirut, Schwarz sa qualcosa? In questi giorni se n’è parlato
proprio per via dei Panama Papers, perché ai Nahmad, che in seguito
hanno preso residenza a Monaco, aprendo gallerie a Londra e a New
York, farebbe capo l’International Art Center (sede legale appunto
a Panama), implicato in varie controversie, prima fra tutte quella
riguardante un Modigliani, Uomo seduto con un bastone,
rivendicato da un francese, Philippe Maestracci, al cui nonno l’opera
sarebbe stata sottratta dai nazisti (nei giorni scorsi i giudici
svizzeri hanno ordinato una perquisizione del freeport di
Ginevra proprio per cercare il quadro conteso).
«La Galleria
Internazionale, sì, ricordo che esisteva», dice oggi Schwarz, «ma
non le saprei dire niente di più». Eppure nelle ricostruzioni di
questi giorni si è detto che i Nahmad hanno avuto una presenza
importante nella Milano di quegli anni, che abbiano anche contribuito
a lanciare in campo internazionale artisti come Lucio Fontana. La
risposta di Schwarz arriva veloce: «Sono balle, nel mercato
dell’arte i Nahmad erano gli ultimi venuti, avevano soltanto i
soldi e hanno usufruito di questi loro beni». Pausa. «Comunque, non
ne so niente, mi sono sempre tenuto alla larga dai pettegolezzi. E
quanto a me, ho sempre scelto di lavorare solo con giovani
sconosciuti e in molti casi li ho fatti conoscere. Ma non mi chieda i
nomi, sono troppo vecchio, non me li ricordo più».
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