Cesare Pavese al mare |
Vorrei immodestamente
aggiungere un sintetico codice alla sintetica frase lasciata da
Cesare Pavese al momento di scomparire («Non fate troppi
pettegolezzi»): non fate troppe commemorazioni. A un secolo dalla
nascita, a cinquantotto anni dalla morte, la vitalità della figura,
dell'opera di Pavese sono intatte, e penso che lo dimostreranno le
iniziative del Grinzane Cavour, tutt'altro che commemorative nella
loro operatività.
Pavese aveva ventotto
anni nel 1936, con la dolorosa esperienza del confino, quando
apparvero le poesie di Lavorare stanca. Un autore sconosciuto,
situato nella periferia piemontese, di colpo appariva in scena con un
libro che proponeva un tematica imperiosamente anche se misuratamente
nuova, e soprattutto un linguaggio nuovo nel contesto letterario
italiano. Non se ne avvidero in molti, al momento. Già con Lavorare
stanca metteva a frutto, senza lasciarsene condizionare,
liberamente, le sue frequentazioni letterarie, emerse nella sua tesi
di laurea su un poeta americano vigorosamente sperimentale, Walt
Whitman. Il canonico, timoroso professor Federico Olivero si era
rifiutato di discuterla, affidando l'incarico al collega, prestigioso
francesista e comparatista, Ferdinando Neri. Ma Pavese aveva saputo
mettere a frutto la sua esperienza universitaria, facendo tesoro
dell'insegnamento di alcuni maestri, come Santorre Debenedetti, il
grande filologo romanzo - zio di Cesare Segre - di cui frequentai io
stesso le lezioni e che Pavese un giorno, ricordandolo con me, definì
«un gentiluomo del Settecento». Nel segno, ma non nella passiva
dipendenza, dei modelli americani Pavese esordì in narrativa, con
Paesi tuoi. Siamo nel 1941, anni feroci della guerra, che
arriva fino a Torino con i bombardamenti aerei, e il romanzo di
Pavese rompe con una tradizione narrativa a suo modo cifrata,
autoreferenziale, per misurarsi con un realismo intriso del senso del
luogo e della condizione umana.
La originale misura
narrativa di Pavese lieviterà in modo decisivo subito a ridosso
della guerra, periodo vissuto da lui dolorosamente, non senza un
introiettato rimpianto per una sorta di mancata militanza, a
differenza di vecchi amici. Feria d'agosto, del 1946, rivela
pienamente la statura del narratore, tra quotidianità, mito, senso
del luogo, rivelato e insieme trasceso. Nel 1950, La luna e i falò
arricchira' sin dal titolo - i titoli di Pavese sono di per se'
memorabili - questa dimensione. Sempre alla fine del decennio, ecco
due capolavori assoluti come Prima che il gallo canti e La
bella estate.
Dobbiamo rammentare, a
questo punto, due esperienze cruciali. Una è quella dell'attività
editoriale (l'espressione risulta inadeguata) presso la casa editrice
Einaudi; l'altra il tormentato impegno politico. Promuove iniziative,
suggerisce titoli da pubblicare, avvia collane di assoluta novità,
come nel campo scientifico, per così dire abitato con profonda
curiosità e viva competenza. Del resto, emerge la personalità del
saggista, rigoroso non meno che creativo, come in I dialoghi con
Leucò. L'adesione, ma direi meglio la vicinanza, con il Partito
Comunista ignora ogni dogmatismo partecipatorio. Non era davvero uomo
di partito. Una volta, durante l'intervallo di un incontro culturale
presso la sezione «Gramsci» di Torino del Partito Comunista, mi
confessò che lo frequentava il meno possibile. «Temo», mi disse
sorridendo, «che mi chiedano di andare ad attaccare i manifesti».
Del resto, sussisteva in lui un senso che definirei di trascendenza,
rispetto a un mero concetto di realtà diretta; di qui la vicinanza a
«Cultura e realtà».
Va da se' la
frequentazione con la cultura americana. Ecco, naturalmente, la
centralità del Pavese traduttore degli americani, anch'essa
strettamente radicata nella creatività, pur se in una agguerrita
dimensione filologica. Al vertice si colloca, naturalmente, Moby
Dick di Herman Melville, in cui Pavese si rispecchia, direi si
ripercorre. Non voglio indugiare in un elenco, ma vorrei
sottolineare, su un altro versante, The Hamlet, Il Borgo,
di William Faulkner, romanzo che davvero ci consegna una sorta di
Langa americana, padroneggiata dal langarolo Pavese. Ricordo le
telefonate in cui mi parlava delle sue scoperte e con discrezione ne
disapprovava qualcuna mia. La raccolta impareggiabile di saggi sulla
letteratura americana, apparsa postuma nel 1951 (La letteratura
americana e altri saggi) approfondisce l'illuminante immagine
pavesiana dell'America come palcoscenico ove si recita la commedia di
tutti. Pavese si convinse poi che la grande stagione americana fosse
ormai all'epilogo, e qui devo dire che si trattava in larga misura di
un rispecchiamento esistenziale, quello che incontriamo nelle pagine
diaristiche di Il mestiere di vivere o nelle poesie di Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi. I tardivi riconoscimenti, come il
premio Strega, impallidivano. Ma attenzione: la scelta di morire non
fu né romantica, né melodrammatica, né disperata. Si trattò
autenticamente di un congedo. Per questo parliamo di lui, con lui, e
non lo celebriamo.
“La Stampa”, 31
agosto 2008
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