“La Stampa” ha
pubblicato di recente ampi stralci di un inedito di Umberto Eco che
qui riprendo. L'intellettuale scomparso qualche mese fa – pur non
negando la necessità di qualche ammodernamento – considera la
cultura classico-umanistica e la scuola che più delle altre la
promuove fondamentale non solo per approfondire gli studi umanistici
ma anche per quelli scientifici, per la difesa del pianeta e per non
perdere le guerre. (S.L.L.)
Umberto Eco, funzionario RAI negli anni 50 |
Il liceo classico, così
come l’ho seguito io, era nato dalla riforma Gentile e Gentile era
un idealista che aveva poca fiducia nelle scienze e riteneva che una
classe dirigente dovesse avere una cultura eminentemente umanistica.
Perciò il liceo classico ha meno ore di materie scientifiche del
liceo scientifico, riservato da Gentile a una classe non dirigente ma
esecutiva. E il classico era talmente importante che con una maturità
classica si poteva anche iscriversi a ingegneria, mentre con una
maturità scientifica era impedito l’accesso a facoltà nobili come
quella di filosofia, e per un lungo periodo a giurisprudenza, per non
parlare della filologia greca. Non essendo dedicato a professionisti
della pratica, il classico non aveva insegnamenti di lingue, salvo
nei due anni di ginnasio. Infine, bizzarria apparentemente
inspiegabile, il classico dedicava pochissimo tempo alla storia
dell’arte, forse perché né Croce né Gentile, le due autorità
nel campo dell’estetica, avevano dimestichezza con le arti visive.
[...] E non parlo dell’attenzione, all’inizio nulla e comunque
scarsa, dedicata alla musica e alla cultura musicale in genere.
Qualcosa che non va
Come si guadagnerebbero
spazio e tempo per le scienze, le lingue e, se volete, l’arte, che
oggi si può studiare su splendide riproduzioni disponibili on line?
Riducendo per esempio alcune ore di latino. I maturandi dei miei
tempi uscivano dal classico senza essere capaci, in genere, di
leggere Orazio a prima vista, e talora neppure un’epigrafe su un
monumento antico, per non dire una enciclica. C’è dunque qualcosa
che non va nel modo in cui il latino viene insegnato. Per esempio si
fanno esercizi certo indispensabili sui grandi autori della latinità,
ma non si prova mai a dialogare in un latino elementare, come
facevano i dotti europei sino a pochissimo tempo fa.
Il maturando classico non
deve necessariamente diventare latinista (a questo ci pensa
l’università), ma deve essere in grado di capire che cosa è stata
la civiltà romana, identificare le etimologie, capire le radici
latine (e greche) di molti termini scientifici; e questo lo si può
ottenere evitando esercizi faticosi sui classici e magari abituandosi
a leggere il latino ecclesiastico e medievale, molto più facile e
familiare. E, introducendo insegnamenti di almeno una lingua
straniera, si potrebbe mostrare - faccio due esempi - come e perché
la lingua inglese ha, accanto ai termini anglosassoni, tanti termini
di origine latina, o le differenze tra la sintassi del latino e la
sintassi tedesca. [...]
Una volta riconosciute le
mende dell’educazione classica (anche se uno studio delle varie
riforme successive potrebbe ritenerle in parte attenuate),
permettetemi ora di dimostrare come essa sia fondamentale non solo
per chi all’università vorrà occuparsi di filologia greca o di
filosofia, ma anche per chi si dedichi a studi scientifici.
Il generale
latinista
Vorrei citare due
episodi. Nel 1843 il generale inglese Sir Charles Napier fu mandato
in India per reprimere una rivolta nella regione del Sind. Quando
ebbe vinto, inviò al quartier generale di Londra un dispaccio che
diceva «Peccavi ». Al quartier generale furono pronti a tradurlo
come «I have sinned» – frase che pronunciata suonava come «I
have Sind». Questo significa che gli ufficiali dell’esercito che
aveva sconfitto Napoleone e aveva conquistato un immenso impero,
evidentemente competenti in artiglieria, strategia e altre
tecnicalità, avevano però una profonda cultura umanistica - ed è
lecito chiederci se questa cultura non li avesse resi capaci, in
parte, dei loro successi militari.
Altro esempio.
Spostiamoci da Londra a Ivrea negli anni Cinquanta e Sessanta. Quando
Adriano Olivetti, proprio mentre passava dalla produzione di macchine
da scrivere a quella dei computer, assumeva ovviamente ingegneri e i
primi geni dell’informatica. Questi ingegneri, dopo aver costruito
il primo computer, l’Elea (e il nome, credo, era stato inventato da
un poeta, Franco Fortini), avevano perso, racconta la leggenda, non
so se settimane o mesi per far sì che l’Elea suonasse le note del
Ponte sul fiume Kwai: segno che avevano una certa fantasia
umanistica. Ma Olivetti faceva di più: assumeva anche brillanti
laureati in materie umanistiche (che magari avevano fatto una tesi su
Senofonte, ma da centodieci e lode), li mandava sei mesi a lavorare
in fabbrica perché capissero che cos’era un’industria, e poi li
immetteva in qualche attività aziendale.
Hitler bocciato in
storia
Specie pensando alla
nascente informatica Olivetti aveva capito che sono indispensabili
gli ingegneri per concepire l’hardware, ma che per inventare il
software occorreva una mente educata sulle avventure della
creatività, esercitatasi su letteratura e filosofia.
Appena ho avuto in mano
un personal computer (credo fosse l’M20, con il sistema operativo
Picos, e solo dopo col Dos) mi sono divertito a programmare in basic,
che ho imparato in pochi giorni, un sistema per produrre tutti i
sillogismi classici (Barbara, Celarent, Darii, Ferio ecc.). E questo
l’ho potuto fare perché, trovandomi davanti a istruzioni come
«if... then», mi ricordavo della logica stoica («se... allora») e
avevo studiato il sillogismo aristotelico. [...]
Ma non penso solo
all’informatica. Come si può pensare alla difesa del pianeta senza
avere alle spalle nozioni sulla storia della Terra, sulla vicenda di
tante inondazioni storiche, sulla morte dei dinosauri, per non dire
nozioni di etica? Quando Hitler ha deciso di invadere la Russia aveva
presenti i risultati della storiografia sull’invasione napoleonica?
Certamente no, altrimenti avrebbe saputo che, per quanto la guerra
fosse lampo, prima di arrivare a Mosca avrebbe dovuto fare i conti
con l’inverno. E quando Bush ha deciso di invadere l’Afghanistan
aveva letto la letteratura storica sul Grande Gioco e sul modo in cui
nell’Ottocento sia i russi che gli inglesi non avevano e non
avrebbero mai potuto conquistare quel paese a causa della sua
orografia e delle sue divisioni tribali?
Avere un’educazione
classica significa anche saper fare i conti con la storia e con la
memoria. La tecnologia sa vivere solo nel presente e dimentica sempre
più la dimensione storica. Quello che ci racconta Tucidide sulla
vicenda degli Ateniesi e dei Meli serve ancora a capire molte vicende
della politica contemporanea.
D’altra parte i grandi
scienziati - penso a Einstein o a Heisenberg - avevano una solida
cultura filosofica alle spalle, e per sapere se si ha o no a che fare
con un Dio che gioca a dadi, bisogna non solo conoscere la fisica ma
anche, persino, la teologia, o almeno i grandi dibattiti che hanno
affannato la cultura occidentale per più di duemila anni. E vorrei
ricordare lo scomparso ex rettore di Bologna, Pier Ugo Calzolari, che
per qualche anno avevamo invitato a tenere corsi di informatica per
la laurea in scienze della comunicazione, e rendeva i suoi concetti
accessibili con esempi tratti dalla poesia, collegando mirabilmente
Dante alla flow chart.
Riformare ma
conservare
Certamente un genio della
fisica può farsi una cultura umanistica da solo, leggendo molti
libri, ma questa sarebbe una soluzione aristocratica. Chi può dare
le informazioni giuste non al grande genio ma al modesto manovale
della fisica? Come accade oggi negli Stati Uniti e sta accadendo
sempre più nel mondo, ne nascono sacche di iperspecializzazione,
dove l’esperto di malattie rare non sa più curare un raffreddore e
ha dimenticato la visione globale del corpo umano che ci aveva
insegnato Vesalio. Pertanto una buona educazione classica è
fondamentale per rendere inventivo e fecondo anche l’universo della
ricerca scientifica e tecnologica.
Riformiamo dunque, ma
conserviamo il liceo classico perché consente di immaginare quello
che non è stato ancora immaginato; e questo distingue il grande
architetto dal più modesto dei geometri. Al quale peraltro una
riflessione su Euclide potrebbe rendere la sua attività più
appassionante e creativa.
Penso a un liceo
umanistico-scientifico dove bisognerà sì insegnare il teorema di
Pitagora, ma anche le idee di Pitagora sulla teoria delle sfere e il
suo terrore dell’infinito.
"La Stampa", 6 maggio 2016
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