L’escalation di
attentati ha costretto i governi ad aumentare le spese per la
sicurezza.
A guadagnarci sono le
multinazionali del settore,
ma anche una miriade
di medie imprese high tech.
Che puntano
soprattutto sui maxi eventi.
Come i prossimi
Europei.
Il 17 marzo gli abitanti
di Nimes, tranquilla cittadina nel sud della Francia, si sono visti
piombare nelle strade un esercito di poliziotti, militari, vigili del
fuoco, corpi speciali con addosso tute anti-batteriologiche e tutto
il necessario per far fronte a un attacco chimico. Era la prima di
una serie di esercitazioni antiterrorismo che il governo francese ha
pianificato in vista dei prossimi Europei di calcio, obiettivo di
possibili attentati jihadisti, come rivelato da Mohamed Abrini.
Euro2016 sarà il primo grande evento continentale dopo le stragi di
Parigi e Bruxelles, che hanno spinto gli Stati europei ad aumentare
le spese per la sicurezza, e le aziende del settore ad affilare le
armi per far fronte alle mutate esigenze del mercato. Accaparrandosi
lauti profitti.
A giugno, a Parigi,
arriveranno oltre 7 milioni di spettatori, a cui bisognerà garantire
protezione dentro e fuori dagli stadi che ospiteranno le partite e
nelle cosiddette fan zone distribuite in dieci città della Francia.
Uefa ed Eliseo si spartiscono oneri e responsabilità. «Il budget di
nostra competenza per la sicurezza privata è già stato incrementato
fino a 34 milioni di euro», spiega a “pagina99” la Uefa, che
sorveglierà i siti ufficiali: gli stadi, i luoghi dove
soggiorneranno e si alleneranno le 24 squadre coinvolte, il media
broadcasting center. «Abbiamo ingaggiato circa 10 mila agenti
privati, ognuna delle 51 partite in calendario sarà vigilata da 900
uomini», precisa l’organizzazione. Il resto è nelle mani del
governo francese che, dopo le stragi del 13 novembre, ha decretato lo
stato di emergenza, stanziando per il 2016 815 milioni di euro in più
per la sicurezza, con l’ok della Commissione Ue. «Il patto per la
sicurezza viene prima del patto di stabilità», ha dichiarato il
presidente François Hollande.
Bfm Business calcola che
dopo Charlie Hebdo, nel gennaio 2015, Parigi ha aumentato la spesa
per la lotta al terrorismo da circa 1,2 a 1,8 miliardi di euro
l’anno, e lo stesso è accaduto in molti altri Paesi europei.
Ma la tendenza a maggiori
investimenti ha radici più lontane. Dall’11 settembre 2001
Olimpiadi, Mondiali, Esposizioni universali sono diventati obiettivi
altamente sensibili: un aggravio per le casse pubbliche, un grosso
business per l’industria globale della security. «Gli eventi di
portata mondiale come le Olimpiadi sono un affare rischioso e spesso
alla fine dell’arcobaleno c’è un pentolone pieno d’oro»,
spiega in un’intervista ad Al Jazeera America Stu Smith, esperto di
sicurezza, che ha partecipato all’organizzazione dei Giochi
invernali di Salt Lake City: «I prezzi che gli organizzatori sono
costretti a pagare alle aziende per garantire la sicurezza sono quasi
sempre gonfiati».
Per avere un’idea
dell’incremento esponenziale dei costi, basta guardare a quanto è
accaduto con i Giochi. «Dopo l’11 settembre», scrive in Olympic
Risk (Palgrave Macmillan, 2012) Will Jennings, ricercatore
associato al Centre for Analysis of Risk and Regulation della
London School of Economics, «dai 180 milioni di dollari di
Sidney 2000 si passa ai 400 milioni dei Giochi invernali di Salt Lake
City (2002), per arrivare a 1,5 miliardi di Atene (2004) e ai circa 7
miliardi di Pechino 2008». Una spesa, quest’ultima, gonfiata dal
gigantesco apparato di videosorveglianza voluto dal governo cinese e
messo a punto dalla Tsinghua Tongfang Company: 430 mila videocamere
tutt’ora in funzione. Anche le ultime Olimpiadi, quelle di Londra,
non si sono sottratte al trend. Dopo gli attentati alla metropolitana
del 7 luglio 2005 la spesa per la sicurezza dei Giochi, stimata in
282 milioni di sterline, è lievitata a 1,1 miliardi, in buona parte
utilizzati per pagare gli oltre 40 mila uomini impiegati, il più
grande dispiegamento di forze militari sul suolo inglese dalla fine
della Seconda guerra mondiale.
Numeri che impallidiscono
se confrontati con le Olimpiadi di Rio de Janeiro in programma ad
agosto. Il Brasile metterà in campo 85 mila addetti alla sicurezza.
Il costo previsto per il solo personale è di 65 milioni di dollari,
mentre la spesa complessiva per la sicurezza è stimata in 255
milioni, con ogni probabilità destinati ad aumentare. Per i mondiali
del 2014 Brasilia aveva sborsato circa 900 milioni, usati per
acquistare, tra le altre cose, 30 PackBot, bracci meccanici hi-tech
prodotti dall’americana iRobot in grado di disinnescare materiale
esplosivo; droni Hermes 450 e Hermes 900 forniti dall’israeliana
Elbit; metal detector e scanner a raggi x della cinese Nuchtech;
sistemi di riconoscimento facciale integrati in speciali occhiali in
grado di catturare 400 immagini al secondo da inviare a un cervellone
capace di memorizzare 13 milioni di volti. Perché cambiano i budget,
ma cambiano anche le modalità di gestione del rischio e le
tecnologie necessarie a ridurlo.
Il business della
sicurezza oggi non ruota più intorno alle classiche tre G – guns,
guards and gates (armi, guardie e vigilanza ai varchi, ndr) –
«ma è legato a una varietà di strumenti e a una sempre maggiore
integrazione con le tecnologie dell’informazione e della
comunicazione», sostiene Dave Tyson, presidente di Asis
International, la principale associazione internazionale di addetti
alla sicurezza ed ex capo della security ai Giochi invernali di
Vancouver (2010). «Dall’11 settembre in poi il mercato è
cambiato», conferma a “pagina99” Manuel Di Casoli, ex
carabiniere prestato al mondo della security, prima per grandi
imprese multinazionali poi per l’Expo milanese, di cui è stato
responsabile della Sicurezza. «Molte tecnologie prima riservate solo
al settore militare sono state rilasciate in ambito civile».
Oggi è possibile
reperire facilmente dispositivi sofisticati come il sistema di
analisi muscolare VibraImage, prodotto dalla russa Elsys Corporation
e impiegato per la prima volta ai Giochi invernali di Sochi del 2014.
Un mercato diffuso nel quale accanto a una manciata di
multinazionali, tra cui General Electric, Ibm, Finmeccanica,
Honeywell, Cisco, Hp, Siemens, Panasonic, LG, operano numerose
piccole aziende. I grandi gruppi globali non sono in grado di fornire
tutto il necessario, e ogni volta gli organizzatori devono rivolgersi
a una pluralità di interlocutori. «Ci sono una miriade di imprese
che realizzano tecnologie avanzate e specifiche, la maggior parte
americane, israeliane, inglesi», dice Di Casoli. Secondo Carol
Evans, responsabile dei programmi di ricerca della fondazione no
profit Battelle, più che dalle competenze, l’aggiudicazione degli
appalti dipende però dal Paese organizzatore. Nelle nazioni
tecnologicamente più avanzate, ha spiegato l’esperto ad Al
Jazeera, si tende a favorire soprattutto i player nazionali. È
stato così ad esempio per il Giappone e il Regno Unito. Dove invece
manca ancora il know how, a essere favoriti sono i colossi
stranieri. Gran parte dei miliardi di dollari usati per le Olimpiadi
di Pechino sono andati per esempio a multinazionali americane e
giapponesi, mentre una fetta consistente dei 51 miliardi spesi a
Sochi se la sono aggiudicata, oltre che aziende russe, società
israeliane e austriache.
Per l’Italia, l’ultimo
banco di prova è stato l’Expo. L’evento ha impiegato 160 mila
lavoratori a cui veniva concesso l’accredito solo dopo un’accurata
procedura di background check, e ha ospitato in sei mesi oltre
20 milioni di visitatori. «Dopo gli attentati di Charlie Hebdo
abbiamo dovuto ripianificare tutto», racconta Di Casoli. I controlli
su uomini e mezzi venivano effettuati a cerchi concentrici: dalle
frontiere di Shengen fino agli accessi al sito espositivo. «Abbiamo
scannerizzato più di 43 mila automezzi grazie a delle macchine in
grado di fare uno scanning radiogeno del veicolo e distinguere
le masse metalliche da quelle organiche», spiega il manager. Si
tratta di dispositivi che possono penetrare fino a 40 centimetri di
acciaio e individuare armi e ordigni. Le società produttrici di
questo genere di apparecchi, solitamente usati alle dogane e ai
valichi di frontiera, sono poche: le americane Rapiscan, Vacis, L-3,
Ase (American Science Engineering), Leidos, l’inglese Smiths
Detection.
Alla Fiera c’erano poi
108 varchi costruiti sul modello di quelli aeroportuali –
l’equivalente degli scali romani e milanesi – dotati di metal
detector, macchine radiogene per l’ispezione dei bagagli a mano e
per il controllo di densità dei liquidi. L’intera superficie era
sorvegliata con telecamere e videocamere termiche, che consentono di
individuare la presenza di masse umane non visibili a occhio nudo. I
controlli di tipo biometrico invece sono stati effettuati solo sul
personale che aveva accesso a specifiche aree come quelle in cui
erano state installate le centrali elettriche. Il tutto coordinato da
due centri di comando situati in via Drago. «Le comunicazioni
sensibili e riservate da e per la centrale transitavano su una linea
protetta», rivela Di Casoli. Il centro di comando e controllo è
stato gestito con la piattaforma tecnologica City-OS di Finmeccanica
che, attraverso modelli di simulazione, riesce a prevedere e gestire
le situazioni di crisi selezionando in tempo reale le informazioni
raccolte da varie fonti (sensori, satelliti, reti etc). Un progetto
che ha portato nelle casse del gruppo 28,3 milioni di euro.
Secondo l’ultimo
rapporto della società di consulenza MarketsandMarkets, nel 2015 il
mercato mondiale della sicurezza fisica (il complesso di misure
necessarie a impedire a eventuali aggressori l’accesso a luoghi e
informazioni sensibili, ndr) ha raggiunto i 64,5 miliardi di dollari
e crescerà al ritmo del 14% l’anno fino a raggiungere i 105,2
miliardi nel 2020. «Il solo fattore in grado di arrestare questa
crescita è l’eventualità che i fornitori non riescano a stare
dietro alla domanda crescente», scrivono gli analisti di Memoori
Business Intelligence in un report analogo. Così anche le compagnie
di venture capital hanno iniziato a investire nel settore. «Nella
sicurezza stiamo assistendo a un flusso di capitali proveniente da
società di private equity senza precedenti», rivela in un report di
Security InfoWatch Merlin Guilbeau, direttore della Electronic
Security Association, «un segnale che questa industria continuerà a
espandersi». L’ultimo esempio risale allo scorso autunno: Nice
Systems, società israeliana specializzata in software per la
sicurezza che si è aggiudicata appalti per i Giochi di Sochi e per i
mondiali in Brasile, è stata acquistata da Battery Ventures per
circa 100 milioni di dollari. Il fatto che la scelta del fondo
d’investimento sia caduta su una software house non è casuale. Dal
punto di vista dell’efficacia, spiega Di Casoli, conta più il
software che l’hardware: «La tecnologia è più o meno la stessa,
cambiano invece gli algoritmi che sono capaci, oppure no, di
effettuare determinate operazioni». Ma, avverte l’esperto, il
fattore umano resta il più importante: «La sicurezza non si fa solo
con le macchine. Abbiamo un’enorme quantità di informazioni e
dati, ma non ancora la necessaria capacità di analisi. A fare la
differenza è sempre l’uomo».
“pagina 99”, 16
aprile 2016
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