9.5.16

L'equivoco (S.L.L.)

Siracusa, L'Orecchio di Dionisio
A quei tempi, quando ancora accadeva che la prima notte di nozze coincidesse con la prima esperienza sessuale della sposina, Antonio Lupo cercava l'amico Ciccio Caputo, originario di Cesarò, all'albergo Orecchio di Siracusa, ove costui s'era posato per qualche giorno con la moglie. In quel 1964 aveva voluto farle un bel regalo: le rappresentazioni classiche al teatro greco. Quell'anno c'era, tra l'altro, l'"Ippolito", con Arnoldo Foà e Carla Miserocchi.
L'albergo era abbastanza grande, una cinquantina di camere su tre piani; ma la gestione era familiare, fin troppo familiare. Fatto sta che lasciavano accedere i visitatori ai piani e costoro bussavano alle camere, direttamente e senza preavvisi.
Lupo non conosceva Alba Silvetta, la giovane maestra che Caputo aveva sposato qualche anno prima. Egli viveva da lungo tempo a Siracusa e non aveva né radici né parenti a Cesarò, ove era cresciuto perché il padre comandava la locale stazione dei Carabinieri. Con Caputo era rimasto in contatto (una cartolina a Natale, una letterina ogni anno), ma al matrimonio non era potuto andare.
Fu pertanto felice il buon Antonio della cartolina postale che lo avvisava dell'imminente arrivo a Siracusa dell'amico di infanzia e di adolescenza e, qualche dì più avanti, della telefonata dall'albergo, che gli confermava la sua presenza in città. Ma, giunto lì, sbagliò camera, chissà perché ricordava 34 anziché 43.
Quando bussò, gli aprì la porta della camera una giovane donna in vestaglia rosa: la credette l'Alba di cui Caputo gli aveva scritto. Aspettando, però, che fosse l'amico a presentargli di persona la consorte si limitò a domandare : "C'è Caputo?". La donna rispose: "E a te che cosa importa?".
Le parole in verità non erano esattamente queste, ma più volgari e aggressive, di quelle che le figlie di buona famiglia non avrebbero pronunciato mai e per nessuna ragione. Il tono era piuttosto forte, il volume un po' alto. A placarla sopraggiunse dall'interno un uomo, già pronto per uscire, ma non era Caputo: era il consorte della signora, sposino della sposina. Quella appena trascorsa era stata per loro la prima notte di nozze.
Si chiarì l'equivoco e l'uomo, a scusarsi delle intemperanze della consorte e a rabbonire l'esterrefatto Lupo, volle con lui andare a prendere un caffé, al bar Orecchio appena fuori dall'albergo omonimo. Lì Lupo apprese che l'uomo aveva un arnese di dimensioni tali da atterrire la sposina alla sua vista, ma che alla fine la nave era andata in porto. Era dunque un equivoco quello che aveva mandato in bestia la signora, che peraltro poi s'era anche lei scusata e forse aveva tra sé riso del "qui pro quo", visto che la collera era tosto svanita e la donna - tutto sommato - era più soddisfatta che dolorante. Chi della cosa rise a piena gola, quando venne loro raccontata, furono l'amico Caputo Francesco e sua moglie Alba Caputo nata Silvetta. Così si diceva a quel tempo, giacché non c'era ancora il nuovo diritto di famiglia e la moglie prendeva il cognome del marito.


Postilla
Caputo è in siciliano participio passato dell'arcaico verbo capére, presente anche in toscano, verbo prevalentemente intransitivo con il valore di "poter entrare", di "poter essere contenuto", raramente transitivo con quello di "poter contenere". Come transitivo si ritrova nello scioglilingua "Coppo poco cupo poco pepe cape" (Un involto di carta poco profondo può contenere poco pepe). E' vivissimo, poi, l'astratto "capienza" . Il verbo si conserva in non poche parlate della Sicilia e del meridione d'Italia. Per cui "C'è caputo?" in Sicilia può anche significare: "è riuscito a entrare tutto dentro?".

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