Certe volte, quando passo
da via XX Settembre 40, provo ancora, anche se sono passati più di
trent'anni, un certo imbarazzo. Mi veniva di dire "vergogna",
ma vergogna forse è troppo. Nel seminterrato di quel palazzo
liberty, nell'inverno del 66, nacque il primo cabaret palermitano, "I
Travaglini", ed io ne fui, senza alcun vanto, il responsabile.
Quel piccolo covo umido avrebbe attratto molti giovani, nel tempo
alcune decine, verso un lavoro del tutto illusorio nella vuota
periferia che era Palermo, distogliendoli da sani mestieri. Questa
sorta di "maniera" palermitana di far ridere, di inventare
nuovi comici, nacque lì.
Il primo in assoluto fu
Li Bassi, a cui affidai il "tipo" del Giuseppe Schiera.
Erano autentiche filastrocche antifasciste del poeta randagio, morto
nel ' 43, che io stesso avevo raccolte con l'aiuto del fotografo
Nicola Scafidi e del giornalista Gianni Daniele, ed altre, che
imitavano la "voce" di Schiera, "imbrogliata" da
me. I Travaglini ebbero un immediato successo, proprio per il numero
che faceva Li Bassi e questo successo provocò molti squilibri, non
ancora risolti, anzi aggravatisi nel tempo.
Io avevo una vaga idea
del cabaret tedesco degli anni Trenta. Avevo letto qualcosa della
formazione di Bertolt Brecht nelle cantine di Monaco di Baviera e
della "Taverna dei dodici boia", il più famoso di questi
locali. Ma era una conoscenza letteraria. Il primo cabaret vero lo
vidi in quegli anni a Roma, il Bagaglino, e solo perché ci recitava
Pino Caruso. Era una satira politica da destra: la parodia di "Bella
ciao" era "Bella miao". Caruso, che la pensava in
tutt'altro modo, per vivere doveva abbozzare. Anche se irritato da
certe battute fasciste, la formula mi divertiva. E pensai che si
poteva fare anche qui, da sinistra.
Limitandomi all'
essenziale, la compagnia fu formata da alcuni bravissimi attori che
venivano dal teatro Garibaldi di Angelo Musco junior, ormai chiuso
per difficoltà economiche. Questi attori "furono" Luisa Di
Giovanni, Enzo Fontana e Piergiorgio Siino (solo un anno dopo sarebbe
venuto Burruano). Le musiche ce le scriveva e le eseguiva Ignazio
Garsia. Era, questa, una base professionale di tutto rispetto.
Ma le risate erano solo
con Li Bassi, che non aveva mai fatto prima di allora l'attore. Come
ambiente di teatro, aveva frequentato il botteghino del teatro
Biondo, dove faceva dei turni in sostituzione del botteghinista
titolare. In casa di amici comuni, mi accorsi che raccontava con una
dolcezza surreale e con rara efficacia le avventure di un tipo
strambo del suo rione, di nome Sulinu, uno che parlava con i cavalli
delle carrozzelle da nolo. Mi venne in testa che poteva essere lui il
Giuseppe Schiera. Nelle prove, prima del debutto, Giorgio era timido,
preoccupato della professionalità, dizione, eccetera. Per vincere la
timidezza, prima delle prove andava in una bettola della stessa via
XX Settembre e si beveva un quarto di litro di marsala all'uovo. Dopo
il debutto, fu costretto a munirsi di un carnet, un quadernetto dove
si segnava gli inviti del dopoteatro da parte delle famiglie più in
vista della città, nobili e borghesi. Già allora io ebbi qualche
dubbio sulla funzione del nostro cabaret comunista.
Adesso, come nei romanzi
d'appendice, bisogna fare un passo indietro: dieci anni prima.
Appunto nella seconda metà degli anni Cinquanta il cosiddetto
"teatro della signora De Blasi", ossia il Piccolo Teatro,
il primo con questo nome, situato in via Emerico Amari, a pochi passi
da piazza Politeama, inserì nel suo cartellone "ingessato"
il testo di due giovani, anzi giovanissimi intellettuali palermitani,
Roberto Ciuni e Vittorio Fagone, due che avrebbero poi fatto molta
strada. Il testo, che riecheggiava gli "arrabbiati"
inglesi, era Non gridare, Giuseppe!. Prima di loro a Palermo
nessuno aveva osato tanto. La singolarità di quel Piccolo Teatro era
la sua posizione aerea. Era alloggiato all'altezza di un normale
secondo piano, accanto alla cupola del cine-teatro Nazionale, di cui
all'origine era stato il salone delle feste. In questo teatro mosse i
suoi primi passi non solo Pino Caruso, ma perfino Enrico Maria
Salerno. Uno dei direttori fu nientemeno Vincenzo Tieri, padre di
Aroldo. Che facessero il testo di due giovani concittadini era un
segno "rivoluzionario" dei tempi. Non so perfettamente come
andò, ma quando la signora De Blasi, per stanchezza o per motivi di
salute, si ritirò dall'impresa, il Piccolo Teatro chiuse. La sala fu
rilevata dopo qualche anno (e siamo all'inizio degli anni Sessanta)
dal Cut, Centro universitario teatrale, il teatro dell' Università,
che da quella amministrazione dipendeva. In questo teatro operarono
Paolo Ursi, Antonio Marsala, Gabriello Montemagno e, tra tantissimi
altri, anche il sottoscritto. Fu il primo teatro a Palermo, e uno dei
primi in Italia, a fare i testi di Ionesco e di Beckett. Su
suggerimento dell' allora ventenne scenografo Pidgy Maravigna, il
teatro fu ribattezzato "dei 172", perché contava quel
numero di poltroncine. Nel 62 Roberto Ciuni, diventato intanto firma
di punta del giornale "L'Ora", scrisse una nota
entusiastica in prima pagina, intitolata Quelli dei 172. In
questo teatro Michele Perriera avrebbe in quegli anni incominciato la
sua importantissima esperienza come autore e regista.
E adesso ancora una pausa
e un salto di tempo. La notte del 16 marzo 1964, un lunedì, bruciò
il Bellini, sede del primo vero teatro stabile di Palermo, diretto da
Franco Parenti, alla sua prima stagione, una stagione di grande
qualità (ricordo il Don Giovanni riscritto da Bertolt Brecht
e diretto da Benno Besson). Quel lunedì vi recitavano dei giovani
alle prime armi, i "Draghi", che avevano piazzato
malaccortamente un padellone con una lampada da duemila, tipo
pescivendoli della Vucciria, vicino al sipario. La colpa non fu dei
ragazzi, accertato, ma di chi gli aprì il teatro senza adeguato
servizio di vigilanza. Da quell'incendio nacque la parte più
cospicua del teatro palermitano. Il perché è presto detto. Superato
lo shock per l'incendio (ma non le conseguenze che durano tuttora),
Nino Drago, presidente e regista e prim'attore dei "Draghi",
si gettò con inaspettata furia sul repertorio siciliano di scuola
catanese (Martoglio e martogliani) e allevò una generazione di
comici, da Gigi Burruano a Giacomo Civiletti, che sono stati e sono
il riferimento di tanti altri comici panormiti.
Come si saldano le parti
di questo racconto? Si saldano attraverso i miei personali ricordi,
avendo io fatto parte "dei 172", dei "Draghi" del
"dopo incendio" e avendo poi aperto i "Travaglini".
“la Repubblica”, 19
maggio 2010 da Teatro popolare a Palermo (a cura di A.
Guardione), Città di Palermo, 1998
Nessun commento:
Posta un commento