Stenti alberelli e
un'aiuola spartitraffico, il minuscolo square, fingono di
riparare il palazzo seicentesco dal brusio del Quartiere latino e dai
rumori che salgono dal boulevard più esclusivo di Parigi. È
la zona degli intellettuali residenti e delle grandi case editrici
che neanche il reticolo delle birrerie e i chioschi dei giornali
riescono a rendere meno esotica. Una lapide ad altezza d'uomo ricorda
che nel medesimo palazzo, sede dell'Ambasciata del Cile, abitò fra
il 70 e il 72 il diplomatico Pablo
Neruda, prima di tornarsene definitivamente in patria: proprio
da Parigi, nel dicembre 71, era volato a Stoccolma per ritirare il
Nobel espressamente dedicandolo ai dannati della terra e al popolo
dei subalterni, gli anonimi dispersi nella cordigliera delle Ande o
affogati dentro le miniere di rame e salnitro, nei ghetti di
Valparaiso, il più beffardo dei toponimi. Nell'orazione ufficiale
aveva parlato con l'orgoglio del proprio percorso individuale ma
anche con la fierezza di chi dice al plurale, sentendosi appena una
voce nel coro, scontandone l'arduo privilegio. Tutti sapevano che
Neruda era lì come vicario
di Allende e che anzi era l'insegna di Unidad Popular: non si era
vergognato affatto di scrivere dei brutti versi (lui che era il più
raffinato ed europeo dei latinoamericani) per lanciarli dal palco di
un comizio, né aveva disdegnato i toni aspri e i contenuti grezzi,
gli stessi che scandalizzavano esteti e anime belle. Neruda
sapeva infatti che un esplicito mandato sociale, eclissatosi
in Europa tra l'affare Dreyfus e la stagione dei Fronti Popolari, era
ancora valevole e persino coatto in America Latina, il «cortile di
casa» degli Usa, il paradiso coloniale delle grandi multinazionali,
il luogo di una feudalità così cronica da sembrare ontologica. E'
al popolo dei vinti e degli sfruttati che si rivolgeva dal palco di
Stoccolma ma intendeva fustigare, al tempo stesso, e in pieno volto,
gli uomini in marsina e in divisa, gli individui rispettabili che
virtualmente preparavano la macellazione del suo popolo. Mentre
Neruda pronuncia il suo
discorso, le signore borghesi di Santiago battono le pentole vuote, i
camion dei padroncini si fermano ipotecando i carichi del rame appena
nazionalizzato, nelle caserme e nelle scuole militari fermentano
reazione e rabbia: lì ribolle il Cile che avrà presto i tratti di
un regime sanguinario e la maschera di Pinochet. Così il poeta,
senza disdegnare la necessaria enfasi: «Abbiamo ereditato la vita
lacerata dei popoli che si trascinano un castigo di secoli, dei
popoli più edenici, più puri, di quelli che costruirono con pietre
e metalli torri miracolose, gemme di abbagliante fulgore: popoli che
all'improvviso furono distrutti e ridotti al silenzio dalle epoche
terribili del colonialismo che tuttora esiste. Le nostre stelle
primordiali sono la lotta e la speranza. Ma non c'è né lotta né
speranza solitaria. In ogni uomo si sommano le epoche remote,
l'inerzia, gli errori, le passioni, le urgenze del nostro tempo, la
velocità della storia.»
Poeta laureato, di
ritorno a Parigi, Neruda
torna col pensiero al Cile delle origini e al profondo sud di Temuco,
dove bambino (era nato invece a Parral, il 12 luglio 1904) era stato
portato dal padre ferroviere. Temuco è la couche che
presiede, proteggendone l'ispirazione e tuttavia ferendola nei modi
di una spina primordiale, a una modalità mai smentita di percepire
gli elementi e la terra. E' qualcosa di tattile e insieme scabroso,
una sensualità che nella pietra, nella rena, nel più vile dei
metalli, avverte la terza dimensione (il peso, la sostanza ponderale)
e intanto percepisce su di essi l'inerzia del tempo, il ritmo
inapparente della storia al lavoro, gli sfregi e gli insulti portati
al paesaggio originario che ai suoi occhi non costituiscono affatto
un problema di ecologia (egli ignorava o meglio irrideva la parola)
quanto di economia politica. Ciò che decenni dopo Galeano
documenterà per esteso in Memoria del fuoco è già implicito
nel grande poema che suggella la giovinezza artistica di Neruda,
Residenza nella terra, uscito in due volumi tra il 25 e il 35.
Storia e natura, vale a dire spazio e tempo, vi si combinano per
continuo paradosso e cortocircuito, così come esotismo e radice
folclorica, raziocinio e declamazione. Si immagini un poeta che
disponga della forza di Lucrezio nel sentire il ritmo tellurico degli
elementi classici e poi si immagini un simile impulso arricchito e
contraddetto dalla lezione aristocratica delle avanguardie europee,
specie il surrealismo e l'espressionismo.
Carnale, sussultante ed
erotico nel tutto tondo, Neruda
giovane somiglia a un diapason capace di alternare toni e timbri dei
due maestri che gli sono opposti proprio in quanto lui ne rappresenta
il medio proporzionale: da un lato Ruben Darío, eccessivo e
polifonico, l'«elefante canoro», dall'altro, ascetico e scavato
fino alla spoliazione, il magnifico César Vallejo. Scrive in un
frammento d'amore intitolato In te la terra: «(...)/ le tue
spalle salgono come due colline/ i tuoi seni si muovono sul mio
petto,/ il mio braccio riesce appena a circondare la sottile/ linea
di luna nuova che ha la tua cintura:/ nell'amore come acqua di mare
ti sei scatenata:/ misuro appena gli occhi più ampi del cielo/ e mi
chino sulla tua bocca per baciare la terra.//». Sono versi tratti da
Todo el amor - Antologia personale, Passigli Editori 1997, uno
dei libri scampati al diluvio delle traduzioni italiane, uno dei
pochi che non facciano rimpiangere le vecchie e benemerite versioni
di Dario Puccini.
Destino di un autore che da noi, negli anni 60 e 70, entrava nel senso comune e si vendeva in edicola, se è vero, ad esempio, che senza la folgorazione di Residenze forse Guccini e i Nomadi non avrebbero mai scritto né cantato una canzone dove il culto di Neruda è ufficiale, Noi non ci saremo. Allora si trattava di un mito a tutti gli effetti, che certo ne ignorava la successiva biografia politica, compreso il plauso a Stalin, però sapeva trapiantarlo sul terreno della controcultura e della rivolta beat. Era di casa, insomma, con i libri di Kerouac, di Ginsberg, Pasolini e Garcia Marquez, come non lo sarebbe più stato, meno che mai trent'anni dopo, nonostante Il postino di Skarmeta e l'enorme successo del film, omaggio postmoderno a una figura poco somigliante che incarnava l'estremo riserbo e una nostalgica malinconia.
Destino di un autore che da noi, negli anni 60 e 70, entrava nel senso comune e si vendeva in edicola, se è vero, ad esempio, che senza la folgorazione di Residenze forse Guccini e i Nomadi non avrebbero mai scritto né cantato una canzone dove il culto di Neruda è ufficiale, Noi non ci saremo. Allora si trattava di un mito a tutti gli effetti, che certo ne ignorava la successiva biografia politica, compreso il plauso a Stalin, però sapeva trapiantarlo sul terreno della controcultura e della rivolta beat. Era di casa, insomma, con i libri di Kerouac, di Ginsberg, Pasolini e Garcia Marquez, come non lo sarebbe più stato, meno che mai trent'anni dopo, nonostante Il postino di Skarmeta e l'enorme successo del film, omaggio postmoderno a una figura poco somigliante che incarnava l'estremo riserbo e una nostalgica malinconia.
Gli anni di mezzo, della
piena maturità, equivalgono per Neruda
a un passaporto di definitivo cosmopolitismo: attivo nel consolato di
Madrid, fra il `34 e il `36, assiste al declino della Repubblica,
partecipa alla guerra civile e si lega di amicizia ai maggiori della
cosiddetta generazione del `27, Rafael Alberti e Garcia Lorca, col
quale fraternizza a partire da un comune intendimento del duende,
l'estro ditirambico, il piccolo demone che detta l'ispirazione e il
ritmo della poesia; dopo aver aderito al Partito comunista torna in
Cile e viene eletto senatore per essere deposto a forza già nel '48.
È comunque il primo esilio (Capri del Postino, dal `51 al
`52, ne è solo una tappa ulteriore) l'unica cornice pensabile per
l'altro suo capolavoro, il Canto generale ('50), poema epico
scritto a pieni polmoni, pensando alla vastità del continente e al
modello magnanimo di Whitman, dove preme all'interno una foga corale,
con accenti di laica eucaristia, capace di rinnovare e rilanciare le
parole d'ordine dell'antimperialismo e del socialismo umanitario. È
dal Canto generale che Neruda
può dirsi Neruda, il poeta
che si permette la diretta espressione di quanto viene impedito alla
stragrande maggioranza dei suoi colleghi nell'emisfero boreale, non
esclusa l'appendice imbarazzante di troppi versi d'occasione: cioè
la concomitanza del suono e del segno, l'aderenza senza residuo della
parola alla cosa, il dire «noi» al posto di «io» senza doverlo
necessariamente dissimulare, l'agire a volto scoperto una poetica
dell'antagonismo e dell'engagement; e finalmente il prendere
parola a nome di chi sta sotto e da sempre è sfigurato, ammutolito,
per selezione storica e di classe. Ne pagherà un prezzo esoso in
termini artistici ma molto alta sarà la ricompensa umana e politica.
Ovvio che i versi prodigati dal palco di Unidad Popular (nell'estrema
stagione del suo impegno, quando è stanco, onusto di gloria e
vulnerato dalla malattia) sono versi effimeri, però è ovvio
altrettanto che il libro testamentario che li riunisce, Incitamento
al nixonicidio e elogio della rivoluzione cilena (Editori
Riuniti 1973) fu un colpo micidiale per l'immagine di Kissinger e per
quella dell'Itt che agì da committente nel colpo di stato: «Così
Nixon comanda col napalm/ così distrugge razze e nazioni/ così
governa il triste zio Sam». Racconta Roberto Bolaño in Notturno
cileno che quei versi li cantavano a bocca chiusa i tremila
compagni di scorta al suo funerale, incuranti della soldataglia di
Pinochet che pure aveva profanato, distruggendone la biblioteca, la
veglia funebre per il poeta morto a Santiago il 23 settembre 1973, la
settimana dopo il golpe; ma quei versi li avrebbero cantati, per
almeno un decennio, anche i giovani italiani che sapevano a memoria
le canzoni di Violeta Parra e Victor Jara, che scandivano a voce alta
El pueblo unido, l'inno ormai esule di Unidad Popular, ai
concerti degli Inti Illimani. Molti se ne sono dimenticati, se ne
sono persino vergognati quasi si trattasse di un'acne giovanile,
ricacciando nel passato remoto il poeta che sentirono un compagno;
forse è loro che continua ad aspettare Pablo
Neruda, ma li aspetta, come ogni poeta, al futuro anteriore.
il manifesto 11 luglio
2004
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