I giochi da tavola
divennero popolari nel XVII secolo. Nei territori dello Stato
Pontificio, di cui Bologna era entrata a far parte nel 1506, la
ragione di questo successo era dovuta anche al fatto che i dadi e i
giochi di carte erano diventati una fonte di introiti fiscali ed
erano sottoposti a censura da parte della legge. Un decreto emesso a
Roma nel 1588 dichiarava: «Vedendosi per antica esperienza quanto
sia pernicioso il gioco, dal quale nascono per lo più la perdita
delle facultà private et la rovina delle famiglie intiere». La
legge escludeva esplicitamente dai suoi provvedimenti i giochi da
tavola.
Alcuni di questi
passatempi inventati per sostituire le carte e i dadi consistevano in
percorsi disseminati di trabocchetti, un po’ come il gioco
dell’oca, mentre altri prevedevano penalità e ricompense in base
al risultato dei dadi: i giocatori dovevano seguire le istruzioni
riportate sulla casella del tabellone corrispondente al numero uscito
con i dadi. Alcuni numeri consentivano di guadagnare soldi, altri li
facevano perdere; alcuni numeri imponevano imbarazzanti penitenze,
come fare la pernacchia a tutti quelli presenti nella stanza, altri
autorizzavano chi vi capitava a imporre penitenze agli altri
giocatori.
Giuseppe Maria Mitelli fu
il più grande disegnatore di giochi da tavola della Bologna del
Seicento. Era nato nella città felsinea nel 1634, secondo figlio di
un pittore di successo. Con sua grande frustrazione, i suoi sforzi in
campo artistico non incontrarono lo stesso successo conosciuto dal
padre, e in mancanza di meglio si dedicò all’incisione, arte
minore e più a buon mercato, raggiungendo in questo settore una
certa notorietà. Le stampe si rivolgevano a un pubblico più ampio
di quello dei dipinti a olio e degli affreschi: anche gli ignoranti
potevano apprezzarle. Mitelli realizzava stampe satiriche, ma senza
mai discostarsi dai canoni della moralità ufficiale (il fratello,
d’altronde, era un gesuita).
Realizzò trentatré
giochi da tavola, tra cui, nel 1691, il Gioco della Cucagna.
Le caselle illustrate corrispondono ognuna a una specialità delle
diverse città italiane: tira un quindici e avrai pane di Padova;
tira un undici e avrai la gatafura genovese (la torta di
formaggio già menzionata da Scappi); tira un nove e avrai i
cantuchij pisani (i cantucci che oggi ritroviamo come dessert
nel menù tipico toscano proposto dal ristorante La Vecchia Macina,
quello del «Mulino Bianco»); tira un diciassette e vincerai un
altro prodotto tipico in circolazione ancora oggi, il «turone»
di Cremona (questo però sei autorizzato solo a succhiarlo). I premi
più squisiti sono destinati a quei giocatori che riescono a tirare
lo stesso numero con tre dadi: con un triplo due, vinci la busecha
(trippa) milanese, con un triplo quattro ti porti a casa le provature
romane, e il premio più grande di tutti, non c’è bisogno di
dirlo, lo conquisti tirando un triplo sei, la raffa maggiore. Nella
casella centrale del tabellone è raffigurato un uomo in piedi fra
due salsiccioni appesi, grandi quanto la sua testa: «W le mortadelle
di Bologna», recita la didascalia della casella, «tira tutti»
(hai vinto tutto).
Il Gioco della Cucagna
affondava le sue radici nel patriottismo cittadino bolognese e nella
diffusa concezione dell’Italia come terra di specialità
gastronomiche locali, ma esibiva lo stesso moralismo allegro di altre
incisioni del Mitelli. «Il Gioco della Cucagna, che mai si perde
e sempre si guadagna», recitava il titolo per esteso riportato
sul tabellone: ma Mitelli doveva essere ben consapevole che solo in
un gioco o in una festa cittadina la terra dell’abbondanza
dell’Italia urbana, la sua Cuccagna di piatti tipici, poteva essere
accessibile senza sforzo a chiunque.
Da Con gusto. Storia
degli italiani a tavola,
Laterza, 2009 (I ed. inglese 2007)
Nessun commento:
Posta un commento