Giampaolo Pansa |
Attraverso le voci di
alcuni dei più autorevoli storici dell’Italia contemporanea,
questa raccolta di saggi (La storia negata. Il revisionismo e il
suo uso politico, Neri Pozza, Vicenza 2009) fa il punto sugli
esiti dell’opera di riscrittura della storia, che ha ormai
debordato da qualsiasi “fisiologica” logica di revisione,
arrivando al punto di negare ogni valore allo statuto
scientifico-metodologico della disciplina.
Questo esito estremo
matura negli sconvolgimenti politico-culturali dell’ultimo
ventennio; tuttavia il “revisionismo” all’italiana ha un storia
più lunga e stratificata, che Angelo Del Boca ricostruisce nella sua
puntuale e grintosa introduzione. Una visione “attenuata”,
edulcorata del fascismo, del suo capo, delle sue guerre, fece
capolino già nell’immediato dopoguerra.
Da un lato la stampa
popolare ed alcuni giornalisti di punta forgiarono l’immagine di un
regime bonario, al più colpevole di faciloneria e subalternità, ma
che niente aveva a che vedere con la ferocia nazista: sono aspetti
ripresi dai saggi di Tranfaglia e Franzinelli, che analizzano le
biografie di Mussolini ad opera di Montanelli e Monelli, i rotocalchi
e le enciclopedie illustrate degli anni ’50.
Dall’altro lato, anche
grazie all’amnistia promulgata da Togliatti, generali e gerarchi
tornati liberi diffusero versioni dei fatti fantasiose ed
assolutorie, che Del Boca esemplifica con le scandalose memorie del
generale Roatta, che affermano che sloveni e croati chiedessero
spontaneamente di entrare nei campi di prigionia italiana (dove la
mortalità era superiore a Mauthausen). Su questo mito degli
“italiani brava gente”, mai uscito dai circuiti editoriali e
mediatici, si innesta il filone vero e proprio del revisionismo, che
ha la sua origine e il suo campione in Renzo De Felice, il cui primo
volume della biografia di Mussolini appare nel 1965. È indubbia la
mole documentaria esaminata, tuttavia, man mano che l’opera
procede, si fa strada la programmatica riduzione del fascismo ad un
regime autoritario morbido, sostenuto da un consenso generalizzato,
alieno dal razzismo e da tentazioni totalitarie, radicalmente diverso
dal nazismo, l’alleanza con il quale fu il frutto di circostanze
quasi fortuite e comunque una scelta contrastante con la natura del
regime e con la stessa personalità mussoliniana. Tutte le
testimonianze documentarie e le interpretazioni che contraddicono
questa visione vengono taciute o trascurate nella monumentale opera,
in particolare per quanto attiene all’uso sistematico della
violenza e i metodi di conduzione della guerra. Tranfaglia collega
l’evoluzione “simpatetica” con il personaggio studiato da parte
di De Felice con l’ossessione di “salvare” la funzione centrale
e positiva della piccola borghesia nella storia dell’Italia del
Novecento.
Il ruolo di De Felice è
decisivo anche nel passaggio - che coincide con gli effetti della
caduta del muro e del crollo del sistema politico italiano - dal
revisionismo storiografico all’abuso politico della storia. Il
fulcro dell’operazione è la polemica contro la “vulgata
antifascista”, che avrebbe dominato la storiografia e il discorso
pubblico sulla storia sulla base di un’interpretazione ideologica
di matrice comunista, tutta tesa a cancellare deliberatamente intere
pagine, stravolgendo il significato della guerra civile. In questo
modo De Felice inventa un avversario di comodo, sostanzialmente
inesistente, mentre evita di confrontarsi con una storiografia
rinnovata, capace negli anni settanta e ottanta di fare rilevanti
passi avanti, ampiamente illustrati nel saggio di De Luna.
Sulla base dell’autorità
di De Felice si costruisce una sistematica campagna di rilettura
giornalistica della storia (guidata con particolare furia iconoclasta
dal “Corriere della Sera”), che nei suoi punti culminanti (Vespa
e Pansa) arriva a rivendicare l’assenza di riscontri documentari
come esempio di “libertà di ricerca” contro le pastoie
accademiche.
La fusione di
revisionismo storico, uso politico della storia, spregiudicata
rielaborazione giornalistica, ha come perno il nodo
fascismo-antifascismo, ma da questo nucleo il discorso si irradia
avanti e indietro sulla linea del tempo, puntando, con un’operazione
di vera e propria egemonia culturale, a rileggere in senso
“antimoderno” l’intera storia moderna e contemporanea del
paese.
In questo senso Isnenghi
mostra con la consueta finezza lo spazio sempre più ampio che hanno
le letture del Risorgimento come opera di un complotto massonico,
guidato da facinorosi “ladri di cavalli” (Garibaldi) estranei
alla coscienza nazionale.
Allo stesso clima
appartiene - come testimonia il saggio di Lucia Ceci - il rilancio
dell’identità cattolica come unica vera e positiva fondazione
nazionale (quella laica e liberale essendo frutto del complotto di
cui sopra), senza trascurare la sempre più diffusa attribuzione di
veridicità ai dogmi della chiesa e ai miracoli.
Per quanto riguarda la
storia del colonialismo italiano e delle guerre del fascismo
(Labanca, Rochat), occorre parlare non di revisionismo ma di lunga
trascuratezza da parte degli storici, che hanno quasi sempre lasciato
campo libero ad una storia coloniale scritta dai colonialisti e alle
ricostruzioni degli uffici storici degli stati maggiori.
Anche la ricerca sul
ruolo italiano nella Shoah - sottolinea Enzo Collotti - ha molto
risentito della riduzione del fascismo a dittatura “umana”,
imparagonabile al nazismo, così da trascurare le leggi razziali e il
ruolo della Rsi nelle deportazioni degli Ebrei.
Per venire al secondo
dopoguerra, i saggi di Agosti, De Luna e d’Orsi mostrano come
l’attacco all’antifascismo e alla Resistenza prosegua nella
negazione del ruolo democratico e nazionale dei comunisti, nella
svalutazione della costituzione repubblicana e nella complessiva
delegittimazione dell’intera stagione della “prima repubblica”.
Il punto culminante
consiste nella negazione dei risultati della ricerca storica rigorosa
(ridotta a “storia ufficiale”), a cui si sostituisce una versione
di comodo, senza necessità di riscontri documentari, avallata dal
presunto coraggio e indipendenza dei suoi autori, capaci di colmare i
“buchi neri” della vulgata ufficiale: d’Orsi chiama questa
versione “rovescismo”, mentre Isnenghi ha recentemente coniato il
termine fantoria, incrocio di fantasia, memoria e storia.
Per certi aspetti questo
modello riprende figure e moduli già in voga negli anni cinquanta,
ma con una differenza sostanziale. Oggi, all’offensiva culturale di
una destra desiderosa di cancellare ogni residuo dell’egemonia
culturale dell’avversario (se mai questa è esistita), corrisponde
la rinuncia da parte della cultura democratica a tenere il campo
della battaglia delle idee. Perfino il settore della ricerca storica,
che un tempo i partiti della sinistra presidiavano con proprie
specifiche istituzioni, è in qualche modo abbandonato a se stesso:
ad uno storicismo un po’ rituale e fatalistico si vanno sostituendo
la cupio dissolvi e un nichilismo senza principi. E’ in questo
vuoto che la “storia negata” è stata in grado di diventare senso
comune diffuso, che inquina alla radice i fondamenti del dibattito
politico-culturale e i capisaldi della democrazia repubblicana.
“micropolis”, marzo
2010
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