Il vocabolario delle
ristorazione è in rapido cambiamento, viene da chiedersi se a questa
trasformazione linguistica corrisponda una trasformazione
dell’offerta nelle tavole. Lo stesso termine “ristorante”
diventa sempre più nebuloso, addirittura così viene denominata
anche una marca di pizza. Cosa ci azzecca non è ben chiaro, anzi
confonde pure le idee del consumatore. Sempre più sono alla ribalta
tutte le insegne che finiscono in “eria” che vanno a definire
chiaramente il prodotto protagonista: così vediamo emergere termini
come: bruschetteria, hamburgheria, tartineria, tramezzeria (chissà
cosa avrebbe pensato Gabriele D’Annunzio, creatore della parola
“tramezzino”), caffetteria, bracioleria, piadineria,
prosciutteria, polpetteria, panineria (paninoteca), accanto al
precursore, sempre sulla breccia: “pizzeria”. Che si voglia o no,
queste insegne hanno preso il posto di trattoria, osteria, hostaria
(chissà perché con l’acca) che, nel tempo, in verità hanno perso
una loro precisa conformazione di ciò che offrono come menu e non
dimeno in termine di prezzi, al punto che non è chiaro se il costo
di un pasto in una trattoria è minore di quello in un’osteria.
Mentre i nuovi locali in “eria” sono espliciti: il nome
immediatamente riporta a un prodotto: bruschetta, hamburger,
tramezzino, pizza, piadina, panino.
Dietro al nuovo
linguaggio, oggi in uso, si nascondono dei cambiamenti nel mondo del
mangiar bere molto significativi, che offrono uno spaccato della
società dei consumi fuori casa. Siamo in presenza di un nuovo modo
di alimentarsi, o meglio di nutrirsi: la possibilità di disporre in
qualsiasi ora di un’offerta che possa esaudire la voglia di cibo,
in tempi brevi e con modalità semplici, così come da sempre succede
in paesi quali Stati Uniti e Gran Bretagna dove è nato il fast
food.
Queste nuove realtà
commerciali stanno invadendo le strade delle metropoli, soprattutto
al nord d’Italia, con un ritmo impressionante perché non
necessitano di grandi professionalità, non richiedono grossi
investimenti e sono “appetite” dai private equity perché
permettono una rapida diffusione in più luoghi (franchising). Il
loro successo è altresì garantito dalle richieste dei consumatori,
soprattutto da coloro che, nella pausa meridiana, cercano un pasto
leggero, a basso costo e che sia di breve durata (in piedi o senza
servizio al tavolo).
Accanto allo sviluppo dei
locali in “eria” crescono quei locali (dietro al banco),
originariamente luoghi di vendita di prodotti alimentari o di pane o
di carni o di verdure o di vino che offrono dei piatti caldi, frutto
dei loro prodotti in vendita, serviti “brevi menu”, dunque senza
camerieri e tavoli apparecchiati con tovaglie e bicchieri di
cristallo. Insomma una vera “riforma” del ristoro che mostra,
dall’altro lato, una emergente difficoltà della ristorazione
“tradizionale” (trattorie, osterie, ristoranti), di cui l’unica
eccezione pare essere un locale tradizionale, ma che guarda caso,
finisce in “eria”, ovvero la pizzeria.
Questa evoluzione
soprattutto colpisce una fascia, che possiamo definire grigia, i
locali che non hanno una precisa caratterizzazione di offerta (piatti
tra il nuovo e il tradizionale, in cui si cerca di scimmiottare gli
chef), prezzo non in linea con la qualità della cucina e del
servizio. Insomma un posizionamento completamente non corretto, di
cui la trasmissione Cucine da incubo (condotta dallo chef
Antonio Cannavacciuolo) ha offerto, al di là del vero o del falso
dei casehistory, uno spaccato molto significativo.
Il nuovo che avanza è
dovuto, in parte, anche a diversi chef o meglio ai locali stellati (o
presunti tali), posizionati su fascia alta di prezzo, che segnano il
passo a causa di cambiamento delle abitudini della clientela, non più
disposta a menu degustazioni, a lunghe attese, a piatti non
leggibili, a ricarichi alti sul vino, a conti che toccano troppo il
portafoglio in tempo di crisi. Sine qua non
“Il Sole 24 Ore Domenica”, 1° marzo 2015
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