William S. Burroughs, a sinistra, e Jack Kerouac nel 1953 |
Tutto deve ancora
accadere – nella vita e negli ambigui riflessi delle opere –
quando William Burroughs e Jack Kerouac, nella primavera del 1945,
portano a termine e tentano senza successo di pubblicare un romanzo
intitolato E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche
(trad. di Andrew Tanzi, Adelphi). Basta ricordare che Kerouac
pubblicherà Sulla strada nel 1957, e il più anziano
Burroughs Pasto nudo nel 1959. Tanto per rievocare al completo
la Trinità Beat, si può aggiungere che Urlo di Allen
Ginsberg è del 1956. Eppure, c’è ben poco in questo esperimento a
quattro mani di imputabile al candore dell’apprendista stregone, e
la NewYork che emerge dalle sue pagine è quanto di più lontano si
potrebbe immaginare da una qualunque età dell’innocenza. Tutto al
contrario, è alla severa musa dell’Esperienza che i due autori,
alternandosi nella stesura dei capitoli, rendono omaggio. E al primo
morso, la mela risulta già irrimediabilmente bacata.
Son tutti veri i fatti
tragici che vengono raccontati, risalenti all’estate del 1944. Il
torbido fatto di cronaca nera che Kerouac e Burroughs decisero di
trasformare in romanzo aveva occupato per qualche settimana le pagine
dei giornali, e le poche deformazioni inserite (il nome
dell’assassino e della vittima, l’arma e il luogo del delitto...)
ben difficilmente avrebbero fatto velo – nel caso di una
pubblicazione – al riconoscimento dei fatti e delle circostanze
evocati.
Lucien Carr, rampollo di
una famiglia benestante del Sud, e David Eames Kammerer si erano
conosciuti nel 1936 quando ancora abitavano a St.Louis, nel Missouri.
Lucien, l’amato, aveva appena undici anni, mentre Kammerer ne aveva
già venticinque. Come scrive, nella bella postfazione al romanzo,
James Grauerholz, amico e collaboratore di Burroughs, «otto anni,
cinque stati, quattro scuole private e due college più tardi, il
rapporto si era fatto troppo intenso e le emozioni erano ormai troppo
febbrili». Kammerer aveva assunto il ruolo dell’eterno innamorato,
paziente e premuroso nonostante tutte le umiliazioni possibili. Carr,
d’altra parte, intende scrollarsi di dosso quella passione che lo
opprime. La notte del 14 agosto del 1944, i due passeggiano nel
Riverside Park, completamente deserto. Lucien vorrebbe imbarcarsi su
una nave mercantile, alla volta dell’Europa. All’ennesima scenata
di gelosia di Kammerer, estrae il coltellino da boy scout e
colpisce due volte l’amico al petto. Poi, credendolo morto, gli
riempie le tasche di sassi e lo fa rotolare nelle acque dell’Hudson.
Non bisogna pensare a
Burroughs e Kerouac come a due scrittori che, in cerca di un soggetto
abbastanza «forte» da ispirarli e tenere desta l’attenzione dei
lettori, frughino nei giornali alla ricerca della storia adatta. Nei
fatti che raccontano, semmai, ci sono dentro fino al collo. Entrambi
conoscevano bene sia Lucien che David. Prima di costituirsi, Lucien
si era rivolto a Burroughs per un consiglio, e aveva passato l’ultimo
giorno di libertà assieme a Kerouac, ubriacandosi e visitando il
MoMa, dove aveva ammirato a lungo il ritratto di Cocteau dipinto da
Modigliani. Questa intimità costò ai futuri scrittori un arresto e
un rilascio su cauzione. Erano, insomma, ancora prima che narratori
più o meno realistici, «testimoni informati sui fatti». Passata la
bufera, inizieranno a scrivere trasformando quella che era stata
un’imbarazzante posizione giuridica in un punto di vista letterario
vero e proprio.
Il risultato ottenuto è
efficacissimo, a partire dallo sdoppiamento della voce narrante.
Ognuno dei due scrittori immagina un suo alter ego. Burroughs è Will
Dennison, allampanato barista tossico impegnato in sordidi lavori per
conto di un’agenzia di investigazioni private. Tra i due
protagonisti della vicenda, le sue simpatie vanno alla futura
vittima, che nel romanzo si chiama Ramsay Allen – «un omone
imponente, brizzolato, sulla quarantina, alto e un po’ flaccido»,
perdutamente innamorato del suo assassino, che viene chiamato Phillip
Tourian, «un diciassettenne mezzo turco e mezzo americano».
Phillip, a sua volta, è più legato al secondo narratore, Mike Ryko,
un marinaio in attesa di imbarco di origini francesi e finlandesi,
trasparente controfigura di Kerouac.
Come si addice a ogni
buona tragedia, anche questa, nel momento in cui si alza il sipario,
sembra già stabilita da un fato ineluttabile. «Al è uno dei tipi
più ganzi e simpatici che conosco», ci avverte Burroughs-Dennison
nel primo capitolo, e «anche Phillip non è male. Ma quando sono
insieme scatta qualcosa che le farebbe girare a qualunque». Non
serve più di una manciata di giorni e di notti per arrivare alla
catastrofe.
La New York del 1944
dipinta da Burroughs e Kerouac sembra un luogo dove è sempre notte,
si è sempre ubriachi fradici o alle prese con i postumi dell’ultima
sbronza, e ci si muove senza sosta, come le marionette di un balletto
meccanico, da un bar all’altro. Il caldo contribuisce a rendere
ancora più incerti i confini tra la realtà e il delirio. Tutti
discutono di Yeats e di Rimbaud, tra i locali del Village e le camere
d’affitto di Washington Square. A un certo punto, la radio
trasmette la notizia di un incendio in un circo, o in uno zoo. Pare
che gli ippopotami si siano lessati nelle loro vasche – e questa
ulteriore scheggia di follia, non si sa se inventata o realmente
ascoltata, ma degna di figurare in un’antologia surrealista,
diventa come l’emblema di un tempo della vita, di un modo di
esistere, di un sogno metropolitano sospeso tra l’incubo e la
fantasmagoria.
Ogni cosa, nei fumi
dell’alcol confusi a quelli (ancora più inebrianti) dei desideri
senza oggetto, sembra alla portata di una spiegazione nuova e
illuminante, ma questa spiegazione non è mai pienamente
intellegibile, sfugge alla presa, si dilegua nell’ombra...
Confessato il delitto,
Lucien Carr se la sarebbe cavata con due anni di riformatorio. Uscito
di prigione, iniziò a lavorare come fattorino alla United Press
International, e nel 1956 era già direttore del notiziario serale.
Visse fino al 2005 sempre tentando, com’è comprensibile, di
mettere a tacere quella vecchia storia che aveva così bruscamente
terminato la sua gioventù. E fu così che, per rispetto del diretto
interessato, il dattiloscritto degli Ippopotami rimase inedito
fino al 2008. Ma quella vecchia storia avrebbe continuato a
ossessionare un gran numero di scrittori, primo fra tutti Kerouac,
che ci tornò sopra in La città e la metropoli, il primo
libro pubblicato nel 1950, e ancora nel tardo bilancio sulla sua
educazione avventurosa del 1967, Vanità di Duluoz. A leggerlo
oggi, E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche
risulterà ben altro che un reperto archeologico, buono a soddisfare
la curiosità degli studiosi e dei biografi. Al contrario, quello che
ci troviamo tra le mani è un esordio quasi privo di difetti. Non
privo, però, di quel cinismo che è sempre necessario a trasformare
un’esperienza in una forma.
Suona davvero profetico,
a questo proposito, l’ironico ritratto che Kerouac-Ryko dedica al
suo grande amico e complice. Burroughs-Dennison gli ricorda un
cowboy. Ma non il cowboy in sella al suo cavallo e armato del suo
Stetson color grigio perla. «Will è il tipo di cowboy», semmai,
«che indossa un gilè semplice e un cappello più modesto, sempre
seduto al tavolo del saloon, e che si dilegua pian piano con i soldi
appena il buono e il cattivo aprono il fuoco». In fin dei conti,
nulla di meglio può essere detto di uno scrittore – o nulla di
peggio, se si preferisce.
E anche il più
«sentimentale» Kerouac, mentre prende un po’ in giro il suo amico
e maestro, sa bene che il succo di ogni apprendistato sta tutto lì,
nel capire il momento in cui filarsela col bottino atteso con tanta pazienza,
mentre i «buoni» e i «cattivi» cominciano a darsele di santa
ragione.
Alias il manifesto 28
maggio 2011
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