Miguel de Unamuno nel 1925 |
Un eroe romanzesco che si
fa persona storica nella volontà di chi lo interpreta, e diventa
protagonista di un nuovo libro, al di là - e talora anche a spese -
del suo stesso autore; il nuovo autore che ne addita l'immagine
esemplare interrogandone le finte azioni come se fossero veridiche,
ardendo e macerandosi con lui come farebbe un sacerdote con
l'oracolo, o piuttosto un discepolo dinanzi al verbo del mestro: così
agli inizi del secolo Miguel de Unamuno, il maggior pensatore
spagnolo contemporaneo, concepì la sua lettura del Don Chisciotte
di Cervantes, insinuando una filosofia del mondo nella forma
didascalica di un commento al romanzo capitolo per capitolo, un po'
come l'Imitazione di Cristo coi versetti del Vangelo. Si
tratta di un disegno felicemente anomalo, insieme puntiglioso e
declamatorio, in cui il cavaliere errante assurge a eroe d'una
perpetua ansia di immortalità; Sancio è il suo erede naturale e
pragmatico; Cervantes il cantore, o il semplice scriba che ne
tramanda le imprese con onesto zelo ma non senza a volte travisarle;
Unamuno, infine, colui che è nato per capirlo e indicarne l'esempio
in un'epoca di gretto materialismo e di illusoria razionalità. Ce
n'è abbastanza perchè questo libro, che l'editore Rizzoli ripropone
nella serie del "Ramo d'oro" (Miguel de Unamuno, Vita di
Don Chisciotte e di Sancio, a cura di Carlo Bo, traduzione di
Antonio Gasparetti, pagg. 382, lire 20.000) susciti ancora la
curiosità, e persino un certo turbamento, nei lettori d'oggi.
Principale animatore di
quel rinnovamento culturale che scuote la Spagna negli ultimi anni
dell'Ottocento (in particolare dopo la perdita di Cuba, nel 1898)
Unamuno si segnalò fin dagli esordi per l'attenzione che rivolse ai
molteplici aspetti della traduzione ispanica e a quella che egli
stesso chiamò la sua "malattia storica"; dando prove di
quest'impegno anche al di là delle sue competenze ufficiali (dal
1891 insegnava letteratura greca all'università di Salamanca), in
opere di critica letteraria, pedagogia, linguistica, storia politica,
narrativa e poesia, e in veste di professore, di polemista militante,
di romanziere, e per qualche tempo anche di socialista con romantiche
aspirazioni umanitarie.
La scelta di Cervantes
come oggetto di studio rientra a pieno titolo in questo moralismo
senza residui. Ci troviamo dinanzi a una sfida intellettuale
complessa, che ci disarma per il suo candore prima ancora di
saggiarne lo spessore critico e l' esatta collocazione storica.
Apriamo il libro, e sentiamo subito che è qualcosa che ha poco a che
vedere col capolavoro secentesco come opera di narrazione, e molto,
invece, con la ricerca di un valore etico globale - quell'ansia di
immortalità, fulcro e sostanza del pensiero unamuniano - che
trascende non solo la letteratura come categoria estetica ma la
letterarietà della singola opera in quanto espressione di un
individuo creatore.
Non ci si fermi all'
apparente ovvietà dei riferimenti culturali. Il commento al Don
Chisciotte appare nel 1905, quando è già in atto quella
peculiare forma di esistenzialismo cristiano propria del "secondo"
Unamuno, da cui trapelano con evidenza riflessi delle letture di
Kierkegaard e Schopenauer e tracce ancora palpitanti della crisi
spagnola del Novantotto e del suo fervore pessimistico. E tuttavia la
forza del commento non sta nella coerenza delle idee che vi si
elaborano, e meno ancora nell'obiettività dell' esegesi. Ciò che
colpì i lettori di quegli anni, in epoca di revisione critica dei
valori borghesi e del pensiero positivo, fu la solennità del monito
ideologico che il maestro basco lanciava alla Spagna attraverso il
mitico cavaliere dell'ideale: quella rilettura di Cervantes
contre-lui-même, in una chiave spiritualistica e
consolatoria, che era, in fondo, l'estremo punto d'arrivo del
chisciottismo romantico. Oggi la possibilità di ricezione dell'opera
si pone in termini diversi. Il suo idealismo esasperato può
sembrarci anche patetico, gli schemi culturali di cui si nutre
possono apparire ricoperti di una patina tardo-ottocentesca; ma ciò
a cui non possiamo sottrarci (millanteremmo solo un' ipocrita
distanza) è il fascino del paradosso che governa il libro: l'ipotesi
estrema di una "finta interpretazione", che si fa verità -
e così legittima se stessa - nel fuoco della passione pedagogica. Ci
piace la scommessa, forse l'ironia, della menzogna letteraria
perpetrata da Unamuno: quel ribaltamento di ruoli fra personaggio e
autore - quasi un archetipo di fantasie borgesiane (ma quanto più
sofferto e candidamente idealizzato!) - che ci viene imposto come un
dato filologico mentre è l'esibizione del più puro arbitrio. E ci
seduce la rotondità dello stile: quell'enfasi totale, ininterrotta,
che pur di cogliere il suo fine ideale ignora discrezione, sussiego
di dottrina ed economia di ponderate analisi, e conosce invece il
furore iconoclasta, la morbidezza persuasiva, la febbre esclamativa e
iperbolica di una predicazione intorno all'assoluto.
Non si tratta di una
fantasia isolata, ma di un libro aperto, e apertamente provocatorio.
E il discorso si allarga, è inevitabile, all' intera opera di
Unamuno e al problema del suo significato attuale. C' è, in questo
scrittore insieme fideista e scettico, una segreta vocazione eroica e
sovversiva che torna ad inquietarci. Il fascino del suo pensiero non
consiste nell'attendibilità delle costruzioni logiche, ma nella
qualità del rischio che di volta in volta è disposto ad affrontare
per difendere un' idea (o piuttosto per rappresentarla in immagini, o
predicarla) anche a costo di sofferte ambiguità e di palesi
contraddizioni. Lefficacia della sua parola è nella sfida morale,
non nella persuasione ragionata; la metafora, spesso, nei suoi libri,
sopravanza il pensiero o lo sostituisce. E si badi: nel disordine
apparente, e nell' arco di più di mezzo secolo di contributi, c'è
una sostanziale unità di intenti.
Il breviario
chisciottesco non è che il punto d'avvio di una maturità complessa
e in apparenza mutevole, eppure rivolta costantemente al medesimo
oggetto: è un primo esempio vistoso di quel "desiderio vitale",
di quel tenace amore per l'uomo e per la sua drammatica avventura
terrena che alimenterà, in seguito, riflessioni più propriamente
filosofiche, ma sempre aliene da ogni tentativo di approccio
sistematico, come Il sentimento tragico della vita (1913) e
Agonia del cristianesimo (1925).
Non è un caso che in
Unamuno il trattato teorico abbia ceduto volentieri il passo alla
divagazione saggistica, e quest'ultima alla poesia, e talora al
romanzo e all'invenzione teatrale. Per lui lo svolgimento del
pensiero (diremmo meglio il suo "credo" esistenziale) si
esprime con uguale ardore nelle diverse forme letterarie; che va
assumendo per lo più d'istinto, equamente distribuito e anzi
dissipato e liberamente articolato in ciascuna di esse. Si pensi:
l'esempio più toccante del suo antistoricismo - il concetto di
"infrastoria" - è affidato a una metafora di grande
intensità poetica (la descrizione delle profondità marine), e lo
troviamo in un saggio giovanile intorno al "casticismo".
Un romanzo bislacco
letterariamente, ma costruito con rabbiosa volontà metalinguistica
(Niebla, 1914), approfondisce la dialettica fra personaggio e
autore già insinuata nel commento al Don Chisciotte,
anticipando in certo modo Pirandello, e offrendo alla cultura
letteraria contemporanea un precoce esempio di ribaltamento (e di
demolizione concettuale) della struttura romanzesca. E che dire della
produzione in versi (una poesia ideologica, s' intende, dai modi
tradizionali e riposati, eppure atipica, giustamente rivalutata
oggi), in cui vi sono prove di religiosità e momenti di tensione
metafisica non meno elaborati e ricchi di quelli che ci consegnano le
prose d'argomento speculativo o critico?
Va detto che questo
irriducibile "poeta delle idee" è anche uno degli ultimi
esempi di totale amalgama fra lo scrittore e l' uomo che ci abbia
offerto la cultura europea. La simpatia che gli accordiamo oggi va
rivolta alle sue creazioni letterarie, perciò, quanto alle forme del
suo impegno civile, che ha conosciuto incertezze nel senso
strettamente politico, forse, ma è stato sempre tempestivo e franco
nelle posizioni assunte. Unamuno fu anche l'intellettuale ribelle che
venne confinato alle Canarie nel ' 23 (e poi andò esule in Francia)
per la sua opposizione alla dittatura di Primo de Rivera. E fu il
maestro di vita che nel ' 36, rettore all' Università di Salamanca,
inaugurò l'anno accademico con una prolusione contro gli orrori
della guerra civile, che era appena agli inizi; l'uomo integro e
intero, che alla violenza dei franchisti presenti nell'aula - alcuni
insorsero contro di lui gridando "viva la morte!" - seppe
reagire con fermissime parole di condanna.
Quel discorso gli costò
la sospensione dalla carica universitaria poche settimane prima della
morte (sopravvenuta il 31 dicembre dello stesso anno); ma fu il
suggello simbolico di tutta la sua vita, e divenne una lezione di
libertà per coloro che di lì a poco, non soltanto in Spagna, si
sarebbero impegnati nella lotta antifascista. Ecco, dunque, un
modello di partecipazione intellettuale che ci fa riflettere al di là
delle testimonianze letterarie che ha lasciato, e si presta a
singolari recuperi, oggi, proprio in ragione delle sue ambivalenze.
In anni come i nostri, di diffuso opportunismo e di lucide, astute
programmazioni culturali, non sarà inutile considerare attentamente
una figura come questa: una voce che è rimasta attiva essendo sempre
spiazzata e quasi anacronistica rispetto alle novità ufficiali e
alle attualità consacrate; una capacità di intervento che ha saputo
essere incisiva rimanendo frammentaria e labile, disposta sempre a
rivedere se stessa pur di non irrigidirsi, e ad affrontare smentite e
posizioni estreme pur di conservarsi autentica.
"la Repubblica" 4 settembre
1984
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