27.5.16

Kafka contro il potere (Giorgio Fontana)

Lo scorso anno il 3 marzo Giorgio Fontana raccontò il suo Kafka al Goethe Institut di Torino per un ciclo di conferenze dal titolo Affinità elettive - Scrittori italiani raccontano scrittori tedeschi. Il domenicale de “Il Sole 24 ore” pubblicò come anticipazione una parte del suo intervento introduttivo, che qui “posto”. (S.L.L.)

Cos’hanno in comune i protagonisti dei romanzi di Kafka — Karl Rossmann di America, l’agrimensore K. del Castello, il suo omonimo Josef del Processo? Tutti e tre combattono contro un potere sordo e assoluto. Lo fanno con modi diversi: la resilienza del sedicenne Karl è lontana dalle manovre ostinate di K. contro i funzionari del villaggio; ma la sostanza non cambia. Di fronte alla Legge, i personaggi di Kafka vengono sì sempre divorati: eppure allo stesso tempo vi si ribellano. Ed è un peccato che la dimensione libertaria e “resistente” dello scrittore boemo sia spesso lasciata in secondo piano, preferendo guardare ai modi in cui la macchina burocratica schiaccia i singoli.
Un’interessante eccezione è il saggio di Michael Lòwy Kafka sognatore ribelle, dove viene sottolineata l’importanza di tale sensibilità, vicina per diversi aspetti al pensiero anarchico. Certo, farne un punto di leva per capire tutto il mondo di Kafka è sbagliato — esso respinge le letture univoche, proprio per il suo carattere deliziosamente sfuggente — ma merita attenzione, non fosse che per una sua estrema attualità. A tal proposito, vorrei soffermarmi su due dettagli del Processo.
Il primo è il dialogo fra Josef K. e il pittore Titorelli, che offre al protagonista due vie d’uscita provvisorie alla sua condizione di indagato: l’assoluzione apparente o il differimento. Nessuna delle due strategie promette il riconoscimento dell’innocenza, sono solo modi per dilazionare il processo — ma insieme, modi di cedere comunque all’autorità del tribunale. Ed è proprio per questo che Josef K. non sceglierà tali comunissime strade di comodo. Egli pretende l’assoluzione vera che merita, e di cui Titorelli dice che non v’è notizia se non in tempi passati, o nelle leggende. Pretende tutto ciò che la Legge non può dargli, perché si è ormai svelata per ciò che è: nuda autorità.
Una conferma viene dalla celebre parabola raccontatagli dal prete nel nono capitolo del romanzo. È la storia del contadino di fronte alla porta della Legge: per tutta la vita interroga il guardiano che le difende senza mai osare varcarla, per poi sentirsi dire, in punto di morte, che la porta era riservata a lui soltanto — e ora sarà chiusa. Questa gemma di ispirazione chassidica è, fra le tante cose, una tragica dimostrazione di come la Legge non tolleri esitazione o dubbio: per le sue porte occorre passare senza porsi domande. «Non si deve credere che tutto è vero, bensì che tutto è necessario», ricorda il prete a Josef K., il quale risponde: «Malinconica opinione, così si fa della menzogna una norma universale». Che l’ordine sia giusto o buono o vero, non conta nulla: esiste in quanto tale, pura e brutale necessità, non molto diversa dal comando di un capo — o di un padre autoritario.
Ed è l’incapacità di accettarlo a produrre la condanna. Josef K. non si arrende: testimonia la propria innocenza con l’affanno testardo e pieno di rabbia di tutti gli innocenti perseguitati, nel quale echeggiano le vittime delle future ideologie. Perderà, come ogni altro ribelle dell’universo kafkiano: come il figlio Georg Bendemann del Verdetto, condannato dal padre; come Gregor Samsa divenuto insetto e odiato dalla famiglia; come il suo omonimo del Castello, probabilmente, incapace di sovvertire l’ordine del villaggio. Morirà «come un cane», assassinato da due emissari del tribunale. Ma in questa orribile fine dovremmo avere il coraggio di vedere anche una luce.

Il potere l’ha distrutto, ma non ne ha annientato le ragioni.

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