Lo scorso anno il 3 marzo
Giorgio Fontana raccontò il suo Kafka al Goethe Institut di Torino
per un ciclo di conferenze dal titolo Affinità elettive -
Scrittori italiani raccontano scrittori tedeschi. Il
domenicale de “Il Sole 24 ore” pubblicò come anticipazione una
parte del suo intervento introduttivo, che qui “posto”. (S.L.L.)
Cos’hanno in comune i
protagonisti dei romanzi di Kafka — Karl Rossmann di America,
l’agrimensore K. del Castello, il suo omonimo Josef del
Processo? Tutti e tre combattono contro un potere sordo e
assoluto. Lo fanno con modi diversi: la resilienza del sedicenne Karl
è lontana dalle manovre ostinate di K. contro i funzionari del
villaggio; ma la sostanza non cambia. Di fronte alla Legge, i
personaggi di Kafka vengono sì sempre divorati: eppure allo stesso
tempo vi si ribellano. Ed è un peccato che la dimensione libertaria
e “resistente” dello scrittore boemo sia spesso lasciata in
secondo piano, preferendo guardare ai modi in cui la macchina
burocratica schiaccia i singoli.
Un’interessante
eccezione è il saggio di Michael Lòwy Kafka sognatore ribelle,
dove viene sottolineata l’importanza di tale sensibilità, vicina
per diversi aspetti al pensiero anarchico. Certo, farne un punto di
leva per capire tutto il mondo di Kafka è sbagliato — esso
respinge le letture univoche, proprio per il suo carattere
deliziosamente sfuggente — ma merita attenzione, non fosse che per
una sua estrema attualità. A tal proposito, vorrei soffermarmi su
due dettagli del Processo.
Il primo è il dialogo
fra Josef K. e il pittore Titorelli, che offre al protagonista due
vie d’uscita provvisorie alla sua condizione di indagato:
l’assoluzione apparente o il differimento. Nessuna delle due
strategie promette il riconoscimento dell’innocenza, sono solo modi
per dilazionare il processo — ma insieme, modi di cedere comunque
all’autorità del tribunale. Ed è proprio per questo che Josef K.
non sceglierà tali comunissime strade di comodo. Egli pretende
l’assoluzione vera che merita, e di cui Titorelli dice che non v’è
notizia se non in tempi passati, o nelle leggende. Pretende tutto ciò
che la Legge non può dargli, perché si è ormai svelata per ciò
che è: nuda autorità.
Una conferma viene dalla
celebre parabola raccontatagli dal prete nel nono capitolo del
romanzo. È la storia del contadino di fronte alla porta della Legge:
per tutta la vita interroga il guardiano che le difende senza mai
osare varcarla, per poi sentirsi dire, in punto di morte, che la
porta era riservata a lui soltanto — e ora sarà chiusa. Questa
gemma di ispirazione chassidica è, fra le tante cose, una tragica
dimostrazione di come la Legge non tolleri esitazione o dubbio: per
le sue porte occorre passare senza porsi domande. «Non si deve
credere che tutto è vero, bensì che tutto è necessario», ricorda
il prete a Josef K., il quale risponde: «Malinconica opinione, così
si fa della menzogna una norma universale». Che l’ordine sia
giusto o buono o vero, non conta nulla: esiste in quanto tale, pura e
brutale necessità, non molto diversa dal comando di un capo — o di
un padre autoritario.
Ed è l’incapacità di
accettarlo a produrre la condanna. Josef K. non si arrende:
testimonia la propria innocenza con l’affanno testardo e pieno di
rabbia di tutti gli innocenti perseguitati, nel quale echeggiano le
vittime delle future ideologie. Perderà, come ogni altro ribelle
dell’universo kafkiano: come il figlio Georg Bendemann del
Verdetto, condannato dal padre; come Gregor Samsa divenuto insetto e
odiato dalla famiglia; come il suo omonimo del Castello,
probabilmente, incapace di sovvertire l’ordine del villaggio.
Morirà «come un cane», assassinato da due emissari del tribunale.
Ma in questa orribile fine dovremmo avere il coraggio di vedere anche
una luce.
Il potere l’ha
distrutto, ma non ne ha annientato le ragioni.
Nessun commento:
Posta un commento