Da “La Stampa.it”
recupero una bella recensione. Non c'è firma, ma credo che sia di
Baudino. (S.L.L.)
Sei un Fregoli! Detto
così, sembra un punto esclamativo scagliato nella polpa di un cuore
ambiguo. Fregoli sinonimo di trasformista e di voltagabbana. Ce ne
sono stati, ce ne saranno: e basteranno i politici ad autenticare
l'odiosità del concetto. Di sicuro Leopoldo Fregoli non immaginava
di trasformarsi in un sostantivo ingiurioso, così come non avrebbe
mai previsto che il suo nome avrebbe connotato un disturbo mentale,
la «sindrome di Fregoli», cioè la difficoltà di riconoscere le
persone che ci sono accanto. Frequentava altri pianeti e creava altri
stupori.
Era un uomo-fabbrica, un
abbaglio vivente, un moltiplicatore d'inganni. Era l'Uno e il
Centomila su cui Pirandello distillava i suoi rovelli metafisici. Ed
era l'artista che, dal 1890 al 1925, ha portato nel mondo l'arte del
trasformismo. Che cosa fosse quell'arte, e come lui l'abbia affinata
fino all'incredibile, lo spiegò nel libro Fregoli raccontato da
Fregoli, appena ristampato dalle Florence Art Edizioni e
preceduto da uno scritto di Arturo Brachetti, che di Fregoli è
l'erede più grande (pagg. 313, euro 35). L'autobiografia può
peccare di autoindulgenza. Ma importa qualcosa? Quel che conta e'
rimettersi sulle tracce di un artista autenticamente rivoluzionario,
predestinato all'arte come un cannocchiale alle stelle.
Era nato a Roma nel 1867.
Ragazzo del popolo, non amava studiare nè lavorare. Quando andò a
fare l'apprendista operaio in un'officina meccanica passava dinanzi a
una filodrammatica che lo attraeva infinitamente più della forgia.
Aveva sedici anni, ma ottenne di farne parte. Pensava di poter
recitare, cantare, ballare. Cantava con una voce che dal baritono
slittava al soprano. Il padre lo strapazzava, non aveva fiducia nel
talento del figlio e cercava di convincerlo ad abbandonare le
fanfaluche, soprattutto dopo che Leopoldo aveva trovato un posto
nelle ferrovie. Un giorno una signorina bionda e dall'aria perbene
chiese alla portinaia del palazzo di via Crociferi 44 dove abitassero
i Fregoli. «Al quinto piano». La signorina salì le rampe e al
capofamiglia disse: «Suo figlio è un infame... mi ha sedotta...
voglio che compia il suo dovere». Potete immaginare il poveruomo.
Quando la sua ira fu al colmo, oplà! La signorina si tolse vestito e
parrucca. Era Leopoldo, che col suo travestimento era riuscito a
ingannare il genitore. Davvero non poteva fare l'attore?
Piccole esibizioni nei
caffè-concerto: canzoni, numeri di illusionismo. Poi la guerra
d'Africa. E qui fu la svolta. Per intrattenere i soldati, a Massaua
fu costruito un teatro a cielo aperto, il Regina Margherita, e
Fregoli s'incaricò di dare spettacolo. Tutto andò per il meglio
fino a quando non scoppiarono i disordini dell'Asmara e gli attori
dovettero lasciare il varieta' e imbracciare il moschetto. Fregoli
rimase solo. Il Regina Margherita doveva chiudere. Ma ecco l'idea:
avrebbe fatto spettacolo da solo e eseguito lui tutte le parti,
quattro o cinque figure che entrassero in scena ogni volta diverse
nell'abbigliamento e nella voce. Insomma, un camaleonte e Camaleonte
fu il titolo dello spettacolo. Tornato dalla guerra, Fregoli fondo'
la Compagnia di Varieta' Internazionale di cui lui, col tempo,
divenne l'unica star («In scena Fregoli dev'essere solo!») e parti'
alla conquista dei teatri. Europa, le due Americhe, la Russia. Non
c'era piazza che lui non espugnasse, non c'erano sovrani e papi che
non s'interessassero alla sua arte. Fregoli era un dio del
trasformismo, guadagnava soldi a cappellate, viaggiava con duecento
cassoni, trecento parrucche, mezzo migliaio di abiti. Ogni sera con
le sue 60-70 trasformazioni offriva l'incredibile. Poteva essere come
tutti, ma nessuno poteva essere come lui. Era unico per il fatto che,
con l'abito, portava in scena un nuovo personaggio diversissimo dal
precedente. Il segreto era qui. L'arte di Fregoli si fondava sui
particolari e si realizzava dietro le quinte con una tranquilla ma
infallibile ingegneria di movimenti. Ed era un'arte in continua
evoluzione, culminata con l'invenzione del «Fregoligraph», un
apparecchio per le riprese cinematografiche con le quali Fregoli
interagiva, inventando il doppiaggio venticinque anni prima del
sonoro. Nascosto in quinta, sincronizzava le parole con il labiale
dei personaggi sullo schermo. A quel punto anche i futuristi,
fanatici della simultaneità, ebbero il loro idolo. Ma un giorno,
dopo «diecimila rappresentazioni» e dopo «un milione almeno di
travestimenti», Fregoli decise di ritirarsi. Si rifugiò a
Viareggio. Nel calmo ritmo della vita nuova, detto' anche l'epitaffio
per la propria tomba: «Qui Leopoldo Fregoli compi' la sua ultima
trasformazione». Previdente? No, coerente.
“La Stampa”,
30-03-2007
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