Clara Gallini è stata
una delle prime antropologhe italiane. In un mestiere prevalentemente
per maschi ha affrontato gli aspetti più desueti, originali e ostici
della professione.
È nata a Crema. Ha 83
anni. Vive a Roma dove vado a trovarla. Incontro una donna dal corpo
stanco e provato. Possiede un'intelligenza che sconfina nell'ironia.
Ama l'insolito: si è occupata di miracoli e dunque di Lourdes. Di
immacolate, di veggenti e sonnambule. Bellissimo il suo libro
recentemente ristampato e dedicato a un caso di sonnambulismo
femminile (La sonnambula meravigliosa ed. L'Asino d'oro). È
un'etnologa del mistero, dell'impalpabile, dei viaggi senza un vero
ritorno. Clara si inabissa nei suoi saperi evanescenti con l'eleganza
della lontra. È stata assistente di Ernesto De Martino, il più
grande antropologo italiano. Ne dirige l'archivio. "De Martino
mi ha insegnato quasi tutto. Provenivo dagli studi classici. Mi ero
laureata alla Statale di Milano con un lavoro sul Labirinto di
Arianna".
Il mito ha a che
vedere con l'antropologia?
"C'è qualche punto
di contatto. All'inizio sognavo di fare l'archeologa. Poi fu
fondamentale la "Collana viola" che Pavese aveva creato per
l'Einaudi. Su alcuni di quei libri - allora visti dalla cultura
marxista e comunista come il fumo negli occhi - feci il mio
apprendistato intellettuale".
Cosa leggeva?
"Jung, Kerényi,
Otto, Eliade. Ero infarcita di studi sulla storia delle religioni. A
Milano avevo incrociato Uberto Pestalozza, studioso del mito della
Grande Madre. Facevo l'assistente volontaria. Un giorno arrivò De
Martino in facoltà. Presentava Morte e pianto rituale del mondo
antico. Avevo letto Il mondo magico, senza capirci
granché. Finita la presentazione mi si avvicinò, pensai che volesse
qualche informazione".
E invece?
"Mi disse che aveva
sentito parlar bene di me. Mi offrì il posto di assistente alla
cattedra che aveva appena vinto all'università di Cagliari. "Non
sarà pagata, ma so che la sua è una famiglia benestante che potrà
mantenerla", disse".
I suoi cosa facevano?
"Mio padre era
direttore di banca. Con mia madre vivevano a Crema. Ma il punto non
era quello dei soldi. Semmai di come avrebbero accolto la notizia di
un mio trasferimento in Sardegna".
Temeva che non
l'avrebbero condiviso?
"Mi osteggiarono,
dicendo che era per il mio bene. E poi, commentò mio padre, chi era
questo De Martino che voleva strapparmi al loro amore asfissiante?
C'era una zia in casa che, soffrendo la notte di insonnia, dormiva
tutto il giorno chiusa nella sua camera. Pretendeva che noi parenti
girassimo scalzi per non fare rumore. Era un mondo surreale. Chiuso
nelle sue nevrosi, quello che stavo per abbandonare".
Come pensava di
mantenersi?
"Avevo appena vinto
il concorso come insegnante per i licei. Perciò chiesi che mi fosse
assegnata una scuola di Cagliari. Era il 1959. Feci il viaggio in
nave in una cabina di terza classe, con altre quattro donne. Le
ricordo vestite con dei costumi bellissimi. Tornavano alla loro
terra. Per me si annunciava la scoperta di un mondo straordinario".
Quanto tempo è
rimasta?
"Per 18 anni. I
primi con De Martino che fu un uomo di grande energia intellettuale".
Si dice che fosse
anche un grande seduttore.
"Una voce che
circolava. Ma ero troppo timida e introversa per accorgermene. In
ogni caso, pochi anni dopo, si ammalò gravemente e si trasferì a
Roma per essere curato. Lo sostituii nelle lezioni e quando potei
andai a trovarlo. Fui turbata nel vederlo a letto, trasformato dalla
malattia. Non era piacevole. Affrontava - lui che si era
interessato così profondamente ai temi della morte e del pianto -
la sua fine con grande serenità. Percepii l'affetto degli amici.
Notai spesso la presenza di Angelo Brelich".
Il grande storico
delle religioni.
"Proprio lui. Lo
avevo conosciuto nel mio breve periodo romano. All'università di
Roma si era formata una scuola molto importante di studi di storia
della religione, guidata da Raffaele Pettazzoni che sarebbe morto
proprio l'anno in cui io mi trasferii in Sardegna. Ebbene, oggi quel
mondo di studi e analisi sul sacro, sul mito, sulle origini cosmiche
è del tutto ignorato. Ma ha avuto un'importanza fondamentale anche
per le ricerche antropologiche".
Ha qualche ricordo di
Brelich?
"Era un uomo freddo
e distante. Pensavo che nascondesse le sue emozioni dietro l'eterna
sigaretta che gli spuntava tra le labbra. Il che appariva in
contrasto con quello che si diceva a proposito di una branda che
aveva fatto sistemare nella sua stanza all'università".
E cosa si diceva?
"Che lì portasse le
sue studentesse".
Avverto una certa
ironia.
"Ma no, era un
pettegolezzo, come ne circolano tanti in ambienti per lo più chiusi.
Posso invece dirle di un certo dissidio che ci fu tra noi in
occasione della pubblicazione del mio libro Protesta e
integrazione nella Roma antica".
Come reagì Brelich?
"Non bene. Mi spedì
una lettera in cui manifestava il suo totale disaccordo metodologico.
Quel libro pubblicato nel 1970 circolava nel movimento studentesco e,
sorprendentemente, ebbe successo in America Latina. Studiavo i
movimenti di protesta nella Roma repubblicana e le ideologie che
c'erano dietro. Il fatto cioè che non si poteva immaginare una
rivolta senza che ci fosse un Dio che la legittimasse".
E quanto
all'integrazione?
"Facevo l'esempio di
Augusto che riuscì a individuare gli elementi della protesta per poi
assimilarli a una ideologia del potere. Del resto, è un classico:
ogni rivoluzione finisce con l'essere integrata in un nuovo ordine.
Anche simbolico. Brelich, i cui studi erano molto accademici, non
comprese la lettura che avevo dato di certi fenomeni".
Perché dice
accademici?
"Perché tali erano
i suoi lavori. Se li rileggessi oggi coglierei la grande raffinatezza
che c'era dietro. Ma a parte il fatto che venivamo da scuole diverse
- Brelich era di origine ungherese e si formò con Kerényi -
c'era stato il '68, si era in ballo e bisognava ballare. Devo invece
molto a Pettazzoni che mi insegnò due cose: il metodo della
comparazione e la libertà ad aprirmi mentalmente a mondi diversi dal
mio. Fu uno degli stimoli che mi portò a riconsiderare radicalmente
l'idea del primitivo".
Allude a quel mondo
arcaico sul quale non c'è mai stato grande accordo tra le scuole di
antropologia?
"Dice bene. Ci siamo
scannati. Per quanto mi riguarda ho sempre sostenuto che il primitivo
in sé non esiste. Ciò che elaboriamo attorno a questo concetto
appartiene alle nostre immagini, alle nostre idee. È, in un certo
senso, una nostra invenzione".
In che senso?
"Ha mai visto degli
uomini primitivi? Esistono, invece, uomini moderni che vivono in
società moderne che noi chiamiamo primitive. Ma non lo sono".
In fondo quel
primitivo era ciò che Levi-Strauss cercò nelle foreste del Brasile
fra le tribù indios.
"È un'obiezione che
mi ha dato da pensare".
Come l'ha risolta?
"Dopo essermi
interessata al consumo del sacro, mi occupai sia del fenomeno
"Lourdes" sia di un caso, diciamo di microstoria, in cui
raccontavo le strabilianti vicende di una donna affetta da
sonnambulismo e il dilagare nell'Italia ottocentesca del magnetismo
animale".
Si riferisce al suo
libro “La sonnambula meravigliosa”?
"Affrontavo lì un
caso vero di una donna che nel corso degli anni aveva sofferto di
varie malattie tra cui interruzioni del ciclo del mestruo,
convulsioni, morte apparente".
Sonnambula in che
senso?
"Non in quello che
di solito si pensa cioè della persona affetta da disturbi che
cammina nel sonno. Il sonnambulismo divenne di moda nel Settecento.
Si scrissero trattati e libri di divulgazione. Perfino negli
almanacchi popolari ci si occupò di questo fenomeno che finì con
l'abbracciare diverse esperienze: dalle pratiche mediche a quelle
teatrali. Ciò che a me interessava era cogliere nelle persone, fatte
oggetto di sonnambulismo o di magnetismo animale, lo scatenamento
dell'immaginario. Le donne colpite diventavano visionarie, veggenti,
in certi casi, perfino guaritrici".
E questo in seguito
l'ha condotta a occuparsi di Lourdes?
"Fu il passo
conseguente. Cos'era Lourdes se non un immenso ricettacolo di
emotività fuori controllo, di tragici inganni, di tensioni
insopportabilmente potenti in grado di fornire all'immaginario un
vasto campionario di miracoli? Lourdes sembrava un fenomeno
antichissimo. Invece le prime apparizioni sono del 1858, come narrava
benissimo Émile Zola in un libro che commentai direttamente".
E cosa concluse?
"Che sonnambulismo,
magnetismo e ipnotismo erano, come del resto Lourdes, espressioni
della modernità".
Non furono
un'eccezione dentro la modernità?
"No, appartenevano
alla modernità. È interessante osservare che mentre sonnambulismo e
magnetismo finirono con l'esaurire il loro fascino e tramontarono,
Lourdes ancora continua ad esistere e a riprodursi in esperienze
molto simili: Padre Pio, Medjugorje, tanto per fare degli esempi".
Perché secondo lei?
"Dipende molto dalla
potenza della Chiesa che può legittimare il miracolo. Farne
un'inesauribile fonte di speranza, di fede e di aggregazione
religiosa".
E lei ci crede?
"Non è questo il
punto. Per me la questione era se un fenomeno ritenuto
"antichissimo", in qualche modo primitivo, in realtà fosse
prodotto dalla modernità".
Vuole dire che la
modernità può dar vita al suo contrario?
"Perché si
sorprende? L'arcaico è qualcosa di rimosso che continua a vivere in
forme invisibili nel moderno".
Una specie di
inconscio?
"Appunto, che ogni
tanto affiora, viene alla luce senza che se ne abbia consapevolezza.
Su tutt'altro versante ho studiato il fenomeno del razzismo
inconsapevole. C'è un immaginario razzista, che non sa di esserlo e
che si comporta da razzista".
Il suo lavoro mi fa
pensare a un'antropologia del vuoto di coscienza.
"Mi piace la
definizione. Verrebbe voglia di approfondirla ma sono vecchia e
malandata. Cambia non il modo di percepire le cose, ma la forza con
cui portarle avanti".
Si acuiscono certe
difficoltà.
"Diciamo che si
passa da un regime di autosufficienza a qualcosa che lo minaccia
seriamente. A un certo punto ho sofferto di una forma idrocefalica -
hanno riscontrato del liquido nel cervello - e mi è stato
diagnosticato un tumore alla base della cervice che è risultato
benigno. Mi hanno installato una valvola in testa e un cannello
diretto allo stomaco per drenare quel liquido. La mia vita è
cambiata. Sono i progressi della medicina!".
Le consentono di
lavorare.
"Lo dicevo
ironicamente. In realtà lavoro pochissimo ormai. Dopo l'ultimo
intervento ho dimenticato l'impiego del computer. So ancora usarlo
come una macchina da scrivere. Ma non so fare più tutto il resto. È
bizzarro per una che in tarda età si è occupata di cyber, non
trova? Vorrei interrogare il mio vuoto di coscienza. Chissà cosa
risponderebbe".
Ha figli?
"Non ne ho, non li
ho mai agognati. E il fatto di essere rimasta una donna nubile ha
contribuito a questo stato di single solitaria".
Posso chiederle se è
mai stata innamorata di De Martino?
"Me lo sono chiesto
e la verità è che avevo troppo timore reverenziale perché
accadesse. Del resto, non ha mai manifestato per me un interesse in
quel senso. Però le posso dire che il primo vero innamoramento l'ho
avuto solo quando è morto. Improvvisamente mi sono sentita liberata
dalla sua presenza. Poi ci sono state solo storie casuali. Niente di
importante".
Cos'è la malattia per
chi che ha studiato le guarigioni?
"Non sto qui ad
attendere che il miracolo si compia. Quando si è malati si pensa
solo al proprio corpo e a cosa si dovrà fare per tenerlo
relativamente in esercizio. Diventano fondamentali gli appuntamenti
con l'oculista, con il neurologo, con il geriatra. I farmaci
scandiscono il mio tempo, la mia giornata".
È un po' come se
l'arcaico tornasse anche nella malattia.
"Mi fa pensare
questa affermazione. Non solo il corpo, perfino la mente finisce con
l'esserne coinvolta".
Crede nella fine del
mondo?
"Allude al libro di
De Martino, immagino. Il prossimo anno saranno cinquant'anni dalla
sua morte. La fine del mondo uscirà in un'edizione francese. Lo
curai negli anni Settanta. Quanto tempo è trascorso. I miei astri
guardano immobili e beffardi. Sì, credo che a un certo punto il
mondo finirà. Siamo una specie a rischio. I nostri convulsi anni
saranno niente. È difficile immaginare qualcosa di eclatante.
Effetti speciali. Certo. Con la magra consolazione che noi non ci
saremo".
“la Repubblica”, 3
novembre 2014
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