Antony Barnes Atkinson, detto Tony |
«C’è un motivo per
cui a un certo punto ho deciso di lasciar stare la matematica e di
concentrarmi sull’economia: l’aver scoperto che i Paesi ricchi
hanno ancora un enorme problema di povertà». Parola di Anthony
Atkinson, economista inglese di Cambridge, “nonno” degli studi
sulla diseguaglianza, fondatore, con Alvaredo, Piketty (autore del
best seller Il capitale del XXI secolo), Saez e Zucman del
World Wealth and Income Database. Basta parlare delle cause e
dei numeri della diseguaglianza, pensiamo a cosa si può fare per
risolvere il problema, scrive Atkinson, uscendo dai ranghi del suo
consueto rigore accademico per pubblicare un pamphlet “politico”
(Disuguaglianza. Che cosa si può fare?,
Raffaello Cortina Editore, 2016)
Segue un decalogo di
proposte, che non sono un menu à la carte ma un progetto
complessivo: funzionano se si adottano tutte insieme. L’aspetto
fiscale, che una volta era prevalente nei discorsi sulla
redistribuzione, ne è solo una parte e prevede un ritorno a
un’imposizione sui redditi fortemente progressiva (fino al 65%) e
alle tasse di successione, con aliquote crescenti al crescere del
patrimonio. Nell’insieme, queste riforme garantirebbero una
struttura fiscale più progressiva, abbandonata da quasi tutti i
Paesi sul finire del Novecento. Ma non basta, dice l’economista
inglese, secondo il quale si deve intervenire anche dal lato dei
bassi redditi e patrimoni: con un reddito garantito a tutti, che lui
chiama “di partecipazione” (legato alla propria capacità e
disponibilità di essere parte attiva della società), e con
un’eredità minima di partenza per tutti, in modo da riequilibrare
le differenze alla nascita. Altre proposte intervengono direttamente
nella struttura e nel funzionamento dell’economia: un fondo
“sovrano” riservato ai piccoli risparmiatori, per consentire loro
di investire i proprio patrimoni con relativa tranquillità, e allo
stesso tempo dare agli Stati una leva per indirizzare gli
investimenti in nuove tecnologie, penalizzando quelle che più
distruggono lavoro. La tecnologia, dice Atkinson, non è esogena ma
può essa stessa essere indirizzata e usata dagli uomini: se le
decisioni in merito sono lasciate solo alle aziende e ai loro grandi
azionisti, non andranno necessariamente a beneficio di tutta la
società. Il menu di Atkinson si completa con la previsione di
maggiore concorrenza sul mercato privato, e un revival della mano
pubblica, anche con l’intervento dei governi, quando serve, come
«datori di lavoro di ultima istanza».
pagina 99, 30 aprile 2016
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