3.5.16

Collezionismo mon amour. La passione si fa impresa (Vito De Biasi)

«C’è chi è paranoico, chi claustrofobico, noi eravamo collezionisti». Lo scrive Pierre Bergé nelle Lettere a Yves Saint Laurent (Archinto, 2012), dedicate al socio in affari e compagno di una vita, con il quale aveva messo insieme una incredibile collezione d’arte andata all’asta da Christie’s nel 2009, un anno dopo la morte dello stilista: «Quando guardo il catalogo dei settecentotrentatré lotti che saranno messi in vendita, mi dico che è l’opera di un pazzo. Di due pazzi». Una follia, il collezionismo, Amour fou, che non a caso è il titolo del documentario sulla collezione Bergé-Saint Laurent sul punto di smembrarsi nella vendita, vissuta come il vero commiato tra i due amanti. Il racconto del collezionista come un posseduto è il punto di partenza preferito di molte biografie illustri, come quella di un documentario più recente, Peggy Guggenheim: Art Addict, dove la regista Lisa Immordino-Vreeland recupera la voce della mitica mecenate e amica di artisti, una delle prime sostenitrici del surrealismo, del dadaismo, fino all’espressionismo astratto, il primo segnale, insieme alla pop art, dello spostamento del baricentro dell’arte contemporanea dall'Europa agli Stati Uniti.
Peggy Guggenheim è una testimone dell’amore totalizzante per l’arte che non è follia pura, ma intelligenza di un sentire che sa farsi anche impresa.
Fu gallerista a Londra, poi a New York, dove mise in salvo la sua collezione alla vigilia dell’occupazione nazista di Parigi, facendo proprio da cursore in quel trasloco culturale dalla vecchia Europa all'America. Qualcosa si era già mosso, a dire il vero, con la fondazione del Museum of Modern Art (MoMA) nel 1929 per opera della signora Rockefeller, e con quella del Whitney Museum nel 1931, per iniziativa dell’artista e collezionista Gertrude Vanderbilt Whitney. E sempre a New York nel 1937 era nata la Fondazione Guggenheim di Solomon, zio-rivale della più avventurosa Peggy, che invece avrebbe lasciato il museo a suo nome a Venezia, tuttora sede della sua collezione e meta immancabile del turismo.
Ancora a Venezia, del resto, il merito di una forte presenza di arte contemporanea, che vada oltre le manifestazioni della Biennale, va oggi a uno dei collezionisti più potenti del mondo, l’imprenditore François Pinault, che in Laguna ha acquistato e inaugurato due sedi, Palazzo Grassi nel 2006 e Punta della Dogana nel 2009. Senza le imprese dei collezionisti, insomma, non esisterebbe il mercato dell’arte, e non si rinnoverebbe una proposta culturale che sappia andare oltre la conservazione dell’antico.
L’immagine romantica del collezionista ossessivo che recupera e assembla pezzi di passato è lontana, oggi è un imprenditore in piena regola che punta i suoi soldi in scommesse sul futuro. Che cos’altro è il mecenatismo infatti, quel sostegno ad artisti magari poco conosciuti, se non la fiducia in un domani immaginario, ancora da costruire con intuito e denaro? «La mia è una collezione di ricerca che indaga le ultime generazioni», spiega la piemontese Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, «la committenza e la produzione di opere sono linee importanti che caratterizzano la nostra attività».
Commissionare opere agli artisti è però un’attività per pochi, di solito i collezionisti preferiscono acquistare direttamente nelle gallerie. Un segmento del sistema dove, come in altri, l’Italia si danneggia da sola: l’acquisto di opere d’arte dalle gallerie prevede infatti un imponibile del 22 per cento, l’aliquota più alta d'Europa, mentre l’Iva per l’acquisto diretto da un artista è del 10 per cento. E così, quasi ostacolati da uno Stato che non comprende l'importanza del sostegno all’arte contemporanea, ai collezionisti conviene comprare all’estero, e il mercato italiano è uno dei meno attraenti per gli acquirenti stranieri. Questa staticità e inavvicinabilità del nostro mercato penalizza anche i collezionisti di domani, coloro che stanno cominciando oggi e che trovano difficoltà nel far crescere la loro impresa. Nel panorama globale, infine, il piccolo collezionista fatica a inserirsi, visto il volume d’affari delle aste e della compravendita, cresciuto in maniera vertiginosa fino al brusco arresto del 2008. La crisi economica non ha comunque intaccato più di tanto le fasce alte di un settore che sempre più spesso ha fatto dell’arte una voce della propria attività finanziaria, come testimoniano le recenti rivelazioni dei Panama Papers, che mostrano come le maggiori raccolte del mondo siano nascoste all’interno dei freeports di Ginevra o di Singapore. Una branca del mercato del lusso, insomma. E così il flusso di comunicazione tra artisti, gallerie, fiere, aste, collezionisti e istituzioni trova molti ostacoli sulla sua strada, creando un sistema dell’arte che è il calco del sistema economico che ci stiamo dando: da una parte una cerchia di privilegio irraggiungibile, dall’altra una realtà che fatica a farsi conoscere, e a resistere.
Ma le difficoltà continuano, o addirittura si accentuano, quando i collezionisti decidono di condividere con il pubblico le loro opere. «La volontà di donare la propria raccolta a un museo italiano si tramuta spesso in un percorso a ostacoli», commenta Adriana Polveroni, docente di Museologia del Contemporaneo all’Accademia di Brera e autrice di Il piacere dell’arte, un saggio esaustivo sul collezionismo in Italia uscito con Johan & Levi nel 2012. «Basti pensare alla vicenda complessa della collezione di Giuseppe Panza», continua l’autrice, «che dopo diversi tentativi di vendita e donazione ai nostri musei si è divisa in gran parte tra il Museum of Contemporary Art di Los Angeles e la Fondazione Guggenheim a New York». Una grande occasione persa, vista l’importanza e la ricchezza di una delle poche collezioni italiane di rilievo internazionale, visibile oggi in una minima parte a Villa Panza, a Varese.
Il percorso a ostacoli di cui parla Polveroni era causato fino a poco fa da uno scarso interesse per l’arte contemporanea da parte dello Stato italiano. Soltanto nel 2014 si è istituito infatti l’Art Bonus, reso permanente dalla Legge di Stabilità del 2016, che prevede il 65 per cento di agevolazioni fiscali per le erogazioni liberali a sostegno della cultura, tra cui le donazioni di opere d’arte ai Musei.
Nel frattempo, chi ha voluto condividere con il pubblico la sua collezione ha fatto da sé, come succede spesso in Italia. Ecco perché soprattutto dall’inizio degli anni ’90 c'è stato un fiorire di fondazioni dedicate all’arte, soprattutto contemporanea. È il caso della Fondazione Prada, nata nel 1993 dall’intenzione di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli di condividere i frutti del loro mecenatismo, che oggi si è espansa in una nuovissima sede milanese e una veneziana. Ed è il caso anche di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, che ha dato vita alla Fondazione omonima nel 1995 a Torino: «Quando ho cominciato esistevano soltanto due Musei dedicati al contemporaneo: il Castello di Rivoli e il Centro Pecci di Prato», racconta, «le Fondazioni rappresentano ciò che oggi definiamo privato culturale, che si è assunto un ruolo propositivo, di sperimentazione e di apertura verso i contesti internazionali». Un ruolo che evidentemente lo Stato italiano non ha mai ricoperto, se si pensa alla scarsità di musei di arte contemporanea in Italia, come il MAXXI di Roma, riaperto soltanto nel 2010.
«Lo stesso Castello di Rivoli nasce dalla passione del collezionista Marco Rivetti», precisa Adriana Polveroni, «lo Stato è sempre stato avvertito come una entità lontana, indifferente non tanto alle esigenze dei collezionisti quanto al patrimonio, al significato di un’intera collezione».
Se si pensa che è proprio l’azione dei collezionisti a vivacizzare il mercato, e forse un giorno a nutrire le collezioni contemporanee dei musei, si intuisce subito quanto ritardo culturale abbia causato questa mancanza di dialogo e sostegno. Nella povertà di una proposta attenta al presente, infatti, le fondazioni suppliscono spesso alle mancanze delle istituzioni: la nuova sede della Fondazione Prada a Milano, inaugurata lo scorso anno, è stata già indicata come il museo di arte contemporanea che la città non ha mai avuto.


Pagina 99 we, 16 aprile 2016

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