«C’è chi è
paranoico, chi claustrofobico, noi eravamo collezionisti». Lo scrive
Pierre Bergé nelle Lettere a Yves Saint Laurent (Archinto,
2012), dedicate al socio in affari e compagno di una vita, con il
quale aveva messo insieme una incredibile collezione d’arte andata
all’asta da Christie’s nel 2009, un anno dopo la morte dello
stilista: «Quando guardo il catalogo dei settecentotrentatré lotti
che saranno messi in vendita, mi dico che è l’opera di un pazzo.
Di due pazzi». Una follia, il collezionismo, Amour fou, che
non a caso è il titolo del documentario sulla collezione Bergé-Saint
Laurent sul punto di smembrarsi nella vendita, vissuta come il vero
commiato tra i due amanti. Il racconto del collezionista come un
posseduto è il punto di partenza preferito di molte biografie
illustri, come quella di un documentario più recente, Peggy
Guggenheim: Art Addict, dove la regista Lisa Immordino-Vreeland
recupera la voce della mitica mecenate e amica di artisti, una delle
prime sostenitrici del surrealismo, del dadaismo, fino
all’espressionismo astratto, il primo segnale, insieme alla pop
art, dello spostamento del baricentro dell’arte contemporanea
dall'Europa agli Stati Uniti.
Peggy Guggenheim è una
testimone dell’amore totalizzante per l’arte che non è follia
pura, ma intelligenza di un sentire che sa farsi anche impresa.
Fu gallerista a Londra,
poi a New York, dove mise in salvo la sua collezione alla vigilia
dell’occupazione nazista di Parigi, facendo proprio da cursore in
quel trasloco culturale dalla vecchia Europa all'America. Qualcosa si
era già mosso, a dire il vero, con la fondazione del Museum of
Modern Art (MoMA) nel 1929 per opera della signora Rockefeller, e con
quella del Whitney Museum nel 1931, per iniziativa dell’artista e
collezionista Gertrude Vanderbilt Whitney. E sempre a New York nel
1937 era nata la Fondazione Guggenheim di Solomon, zio-rivale della
più avventurosa Peggy, che invece avrebbe lasciato il museo a suo
nome a Venezia, tuttora sede della sua collezione e meta immancabile
del turismo.
Ancora a Venezia, del
resto, il merito di una forte presenza di arte contemporanea, che
vada oltre le manifestazioni della Biennale, va oggi a uno dei
collezionisti più potenti del mondo, l’imprenditore François
Pinault, che in Laguna ha acquistato e inaugurato due sedi, Palazzo
Grassi nel 2006 e Punta della Dogana nel 2009. Senza le imprese dei
collezionisti, insomma, non esisterebbe il mercato dell’arte, e non
si rinnoverebbe una proposta culturale che sappia andare oltre la
conservazione dell’antico.
L’immagine romantica
del collezionista ossessivo che recupera e assembla pezzi di passato
è lontana, oggi è un imprenditore in piena regola che punta i suoi
soldi in scommesse sul futuro. Che cos’altro è il mecenatismo
infatti, quel sostegno ad artisti magari poco conosciuti, se non la
fiducia in un domani immaginario, ancora da costruire con intuito e
denaro? «La mia è una collezione di ricerca che indaga le ultime
generazioni», spiega la piemontese Patrizia Sandretto Re Rebaudengo,
«la committenza e la produzione di opere sono linee importanti che
caratterizzano la nostra attività».
Commissionare opere agli
artisti è però un’attività per pochi, di solito i collezionisti
preferiscono acquistare direttamente nelle gallerie. Un segmento del
sistema dove, come in altri, l’Italia si danneggia da sola:
l’acquisto di opere d’arte dalle gallerie prevede infatti un
imponibile del 22 per cento, l’aliquota più alta d'Europa, mentre
l’Iva per l’acquisto diretto da un artista è del 10 per cento. E
così, quasi ostacolati da uno Stato che non comprende l'importanza
del sostegno all’arte contemporanea, ai collezionisti conviene
comprare all’estero, e il mercato italiano è uno dei meno
attraenti per gli acquirenti stranieri. Questa staticità e
inavvicinabilità del nostro mercato penalizza anche i collezionisti
di domani, coloro che stanno cominciando oggi e che trovano
difficoltà nel far crescere la loro impresa. Nel panorama globale,
infine, il piccolo collezionista fatica a inserirsi, visto il volume
d’affari delle aste e della compravendita, cresciuto in maniera
vertiginosa fino al brusco arresto del 2008. La crisi economica non
ha comunque intaccato più di tanto le fasce alte di un settore che
sempre più spesso ha fatto dell’arte una voce della propria
attività finanziaria, come testimoniano le recenti rivelazioni dei
Panama Papers, che mostrano come le maggiori raccolte del mondo siano
nascoste all’interno dei freeports di Ginevra o di Singapore. Una
branca del mercato del lusso, insomma. E così il flusso di
comunicazione tra artisti, gallerie, fiere, aste, collezionisti e
istituzioni trova molti ostacoli sulla sua strada, creando un sistema
dell’arte che è il calco del sistema economico che ci stiamo
dando: da una parte una cerchia di privilegio irraggiungibile,
dall’altra una realtà che fatica a farsi conoscere, e a resistere.
Ma le difficoltà
continuano, o addirittura si accentuano, quando i collezionisti
decidono di condividere con il pubblico le loro opere. «La volontà
di donare la propria raccolta a un museo italiano si tramuta spesso
in un percorso a ostacoli», commenta Adriana Polveroni, docente di
Museologia del Contemporaneo all’Accademia di Brera e autrice di Il
piacere dell’arte, un saggio esaustivo sul collezionismo in
Italia uscito con Johan & Levi nel 2012. «Basti pensare alla
vicenda complessa della collezione di Giuseppe Panza», continua
l’autrice, «che dopo diversi tentativi di vendita e donazione ai
nostri musei si è divisa in gran parte tra il Museum of Contemporary
Art di Los Angeles e la Fondazione Guggenheim a New York». Una
grande occasione persa, vista l’importanza e la ricchezza di una
delle poche collezioni italiane di rilievo internazionale, visibile
oggi in una minima parte a Villa Panza, a Varese.
Il percorso a ostacoli di
cui parla Polveroni era causato fino a poco fa da uno scarso
interesse per l’arte contemporanea da parte dello Stato italiano.
Soltanto nel 2014 si è istituito infatti l’Art Bonus, reso
permanente dalla Legge di Stabilità del 2016, che prevede il 65 per
cento di agevolazioni fiscali per le erogazioni liberali a sostegno
della cultura, tra cui le donazioni di opere d’arte ai Musei.
Nel frattempo, chi ha
voluto condividere con il pubblico la sua collezione ha fatto da sé,
come succede spesso in Italia. Ecco perché soprattutto dall’inizio
degli anni ’90 c'è stato un fiorire di fondazioni dedicate
all’arte, soprattutto contemporanea. È il caso della Fondazione
Prada, nata nel 1993 dall’intenzione di Miuccia Prada e Patrizio
Bertelli di condividere i frutti del loro mecenatismo, che oggi si è
espansa in una nuovissima sede milanese e una veneziana. Ed è il
caso anche di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, che ha dato vita alla
Fondazione omonima nel 1995 a Torino: «Quando ho cominciato
esistevano soltanto due Musei dedicati al contemporaneo: il Castello
di Rivoli e il Centro Pecci di Prato», racconta, «le Fondazioni
rappresentano ciò che oggi definiamo privato culturale, che si è
assunto un ruolo propositivo, di sperimentazione e di apertura verso
i contesti internazionali». Un ruolo che evidentemente lo Stato
italiano non ha mai ricoperto, se si pensa alla scarsità di musei di
arte contemporanea in Italia, come il MAXXI di Roma, riaperto
soltanto nel 2010.
«Lo stesso Castello di
Rivoli nasce dalla passione del collezionista Marco Rivetti»,
precisa Adriana Polveroni, «lo Stato è sempre stato avvertito come
una entità lontana, indifferente non tanto alle esigenze dei
collezionisti quanto al patrimonio, al significato di un’intera
collezione».
Se si pensa che è
proprio l’azione dei collezionisti a vivacizzare il mercato, e
forse un giorno a nutrire le collezioni contemporanee dei musei, si
intuisce subito quanto ritardo culturale abbia causato questa
mancanza di dialogo e sostegno. Nella povertà di una proposta
attenta al presente, infatti, le fondazioni suppliscono spesso alle
mancanze delle istituzioni: la nuova sede della Fondazione Prada a
Milano, inaugurata lo scorso anno, è stata già indicata come il
museo di arte contemporanea che la città non ha mai avuto.
Pagina 99 we, 16 aprile 2016
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