Carlo Ferdinando Russo |
Non sarà certo facile
elaborare il lutto per la chiusura di «Belfagor», che ha interrotto
le sue pubblicazioni alla fine del 2012. E’ stata una delle
pochissime riviste culturali davvero decisive dell’Italia
contemporanea. Fondato nel 1946 da Luigi Russo, italianista tra i più
influenti del secolo scorso, il periodico bimestrale di «varia
umanità» era giunto al suo sessantasettesimo anno di vita in ottima
salute, senza mai smarrire quello spirito eretico e dissacrante che
aveva dettato la scelta del nome «Belfagor», mutuato da un diavolo
di machiavelliana memoria. Merito, soprattutto, di Carlo Ferdinando
Russo, il raffinato filologo classico, figlio di Luigi, che fu magna
pars della redazione di «Belfagor» fin dal primo numero per poi
assumerne la direzione a partire dal 1961 (anno della scomparsa del
padre, che aveva diretto la rivista fino ad allora in tandem con
Adolfo Omodeo). Ma quali furono i tratti distintivi di «Belfagor»?
Giovanni Giudici, in un articolo uscito sul «Corriere della Sera»
nel 1976, in occasione del trentennale della nascita della rivista,
ne fornì questo calzante identikit: «Rivista letteraria? Rivista
accademica? Rivista politica? Tutto questo e, insieme, niente di
tutto questo nel senso esclusivo: si potrebbe dire una rivista
‘laica’, basata appunto sull’esclusione di ogni chiesasticità,
non tanto ideologica quanto piuttosto specialistica, resa viva e
vitale soprattutto dalla sua continua attenzione al diverso e al
molteplice, ma non perciò in balia dell’improvvisazione
dilettantistica; diciamo: una rivista interdisciplinare, il cui
rigore è stato costantemente garantito dalla presenza di specialisti
delle singole discipline». In effetti «Belfagor», oltre che per la
interdisciplinarità, si è sempre distinto per la capacità di
coniugare rigore e militanza, erudizione filologica e pungente
saggismo. Scorrendo i nomi dei collaboratori si potrebbe compilare un
vero e proprio albo d’oro: da Gianfranco Contini a Norberto Bobbio,
da Cesare Musatti a Sebastiano Timpanaro, da Walter Binni a Giulio
Ferroni (si vedano i dettagliati Indici 1946-2010 dei fascicoli
belfagoriani pubblicati pochi mesi fa per cura di Antonio Resta
presso Olschki, editore complice e congeniale della rivista fin dal
1961). «Belfagor» era inoltre caratterizzato da un notevole
pluralismo, coerentemente con quanto scritto da Luigi Russo nel
Proemio al primo fascicolo della rivista: «abbiamo invitato […] a
collaborare tutti gli studiosi di buona volontà, dai liberali ai
comunisti: non chiediamo a nessuno la tessera del suo partito,
chiediamo soltanto serietà di lavoro e spregiudicatezza di
orientamento critico».
Le tradizionali rubriche
erano: «Saggi e Studi», «Ritratti critici di contemporanei»,
«Varietà», «Noterelle e Schermaglie», «Recensioni», «Libri
ricevuti». A queste si aggiunsero in seguito: «Documenti» (dal
1977), che fece conoscere pagine inedite di autori come Gramsci,
Lukács, Marcuse, Moravia, De Martino (nell’ultimo fascicolo c’è
un interessantissimo carteggio inedito di Croce); «Minima
personalia», rubrica di autoritratti intellettuali inaugurata da
Cesare Segre nel 1984; e le sapide e irriverenti noterelle politiche
di Mario Isnenghi (collaboratore di lungo corso e, dal 2007,
condirettore di «Belfagor»), puntualmente pubblicate a partire dal
fatidico 1994, che saranno presto raccolte in volume dall’editore
Donzelli. Altri volumi di rubriche belfagoriane sarebbero senz’altro
auspicabili: penso anzitutto ai fondamentali «Ritratti critici di
contemporanei» (l’ultimo, a firma di Matteo Giancotti, è dedicato
a un grande poeta da riscoprire: Diego Valeri).
C’è chi ha indicato
quale testimonianza del prestigio di «Belfagor» il fatto che sia
stato collocato dall’ANVUR (Agenzia nazionale per la valutazione
del sistema universitario e della ricerca) nella fascia più alta
delle riviste accademico-scientifiche. Ma mentre le riviste
accademiche suscitano solitamente l’interesse di un ristretto
drappello di specialisti e vengono acquistate quasi esclusivamente
dalle biblioteche universitarie rimanendo perlopiù confinate su
polverosi scaffali, a «Belfagor» erano abbonati anche moltissimi
privati sia in Italia che all’estero (un segnale, questo,
altrettanto, se non più significativo della certificazione di
eccellenza dell’ANVUR). Donde il bilancio sempre in attivo della
rivista, il cui abbonamento annuale costava cinquantasei euro: una
cifra assai vantaggiosa se si tiene conto che in un anno uscivano 6
fascicoli per circa 800 pagine complessive; in ogni caso, niente in
confronto ai prezzi esorbitanti degli abbonamenti a certe riviste
accademiche che possono arrivare a costare oltre 1000 euro (proprio
uno dei nuovi collaboratori di «Belfagor», Claudio Giunta, pubblicò
nel febbraio 2010 su «La Rivista dei Libri» un condivisibile
intervento in proposito, Quanto (ci) costa l’editoria accademica?,
per poi tornare sull’argomento in un articolo apparso sul
domenicale del «Sole 24 ore» il 15 aprile di quest’anno).
«Belfagor», dunque, non chiude certamente i battenti per ragioni
economiche (una volta tanto la crisi non c’entra…), ma perché
Russo figlio, superata la soglia dei novant’anni, intende, del
tutto legittimamente, dedicarsi ad altro. Decisione pienamente
comprensibile, che non compensa però l’amarezza per la fine di
questa straordinaria avventura culturale.
In una recente intervista
a proposito della fine della rivista, Russo ha dichiarato che
«L’esperienza di “Belfagor” non è ripetibile». Difficile
dagli torto, anzi: con la chiusura del periodico giunge forse al
termine la lunga stagione delle grandi riviste letterarie. Sarebbe
pressoché impossibile indicare una rivista attualmente in attività
che possa in qualche modo ereditare le istanze critiche che guidarono
«Belfagor». Il suo spirito battagliero potrebbe forse ritrovarsi
nell’ambito dei blog letterari, che però, salvo rare eccezioni,
non accompagnano alla vis polemica il rigore e la competenza
necessari. Come che sia, i 400 fascicoli di «Belfagor» usciti dal
1946 ad oggi rimangono una ricchissima miniera di spunti e
ricognizioni utili non solo per ricostruire le più importanti
vicende culturali contemporanee ma anche (e anzitutto) per illuminare
il nostro presente. Che avrebbe più che mai bisogno del pungolo di
quell’implacabile diavolo machiavelliano.
da «il manifesto» - ora
in Le parole e le cose, 27 gennaio 2013
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