26.5.16

Kafka non era un kafkiano (Giorgio Fontana)

Riprendo qui il testo dell’intervento di Giorgio Fontana letto al Festivaletteratura di Mantova 1912.
Franz Kafka nel 1917
“Kafkiano”. In genere, sotto questo aggettivo si raggruppa una famiglia di sensazioni che evocano un autore sinistro, cupo, angosciante, terribile, ossessionato dalla burocrazia, pesante, faticoso, pessimista, i cui personaggi sono assoggettati a un ordine oscuro e superiore. Nonostante decenni di buona critica e tentativi di liberalizzazione, il nome Kafka resta sempre e comunque legato a evocazioni del genere.
Ora, è ben vero che molte delle storie di Kafka siano permeate da sentimenti simili, e che la condanna resti un elemento cruciale. Ma non c’è niente di sottomesso nella sua prosa e nella sua figura autoriale: anzi, tutto l’opposto.
Il dramma dell’opera kafkiana è che quasi impossibile leggerla senza essere preceduti da una qualsiasi interpretazione. Ciò può valere anche per Dante o Dostoevskij, ma entrambi sono scrittori più vasti e sanguigni — la loro forza ricaccia indietro l’ermeneutica, ci concede una seconda verginità. L’arte di Kafka è invece molto più fragile. Più sottile, per nulla sanguigna. In questo senso è una preda ideale per gli esegeti.
Quindi? Quindi, come dice Kundera ne I testamenti traditi, “C’è solo un metodo per comprendere i romanzi di Kafka. Leggeri come leggiamo dei romanzi”. Cioè, cercando di non farsi anticipare dalla loro interpretazione. Riconoscendolo nella sua enorme complessità, e soprattutto smettendola di farne innanzitutto un’esegesi, ma godendo della sua lettura. (Personalmente, sogno un lettore di Kafka non kafkizzato: chissà quali meraviglie leggerebbe!)
Il mio punto è semplice: Kafka non era un kafkiano, cioè un individuo che assoggetta la propria arte a un’idea preconcetta o a una figura biografica, o un teologo mascherato o un cupo pensatore: era innanzitutto uno scrittore immenso — cioè un individuo che sapeva creare dei mondi indimenticabili con l’uso della parola. E vorrei portare due esempi a supporto di questa immagine.
Immagino tutti conosciate l’inizio della Metamorfosi: “Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta da letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi. Cosa m’è avvenuto? Pensò. Non era un sogno”.
Il grande critico Giuliano Baioni ha fatto notare che questo è l’unico strappo in una narrazione che, per il resto, procede in modo assolutamente piano — in modo naturale. L’assurdo viene messo in scena nella prima riga. Il resto segue inesorabile, come da un postulato. Questo è l’esempio più noto ed evidente dell’inserimento dell’assurdo in una situazione naturale da parte di Kafka.
Ma perché tutti quei dettagli? Perché è reale. La storia ci sta domandando di credere che stia accadendo davvero — e come diceva Lawrence, non dovremmo fidarci mai di chi racconta, solo della storia.
Di nuovo, qui si svela la grandezza di Kafka. Un surrealista avrebbe proposto la trasformazione in insetto come un dato puramente onirico. Un kafkiano ci direbbe che è una metafora dell’individuo soppresso da un potere più grande eccetera.
No, Kafka invece è brutale: toglie di mezzo la similitudine: non sei come una blatta, sei una blatta. Ci obbliga invece a considerare la metamorfosi come qualcosa di reale: non è un’allegoria, non è un simbolo — è una condizione. Sei innocente e ti ritrovi un insetto. Non ti puoi difendere, e non lo puoi fare davvero: sei un insetto vero, calato in una dimensione iperrealistica e altamente connotata dal punto di vista sociale.
Ecco il punto. È questo il segreto di dolore della Metamorfosi: ogni trasformazione non riguarda solo il soggetto cui è diretta, ma anche chi gli sta attorno. Se Gregor diventa blatta, la sua famiglia diventa la famiglia di una blatta.
La forza del racconto non sta nella banale equivalenza fra un uomo e uno scarafaggio — questo è un gioco da ragazzi. La forza terribile del racconto sta in tutto il resto: nella capacità di Kafka di descrivere quanto può diventare grande e tempestivo l’odio verso chi amavamo, quando cambia e diventa altro. Una persona gravemente malata, ad esempio. Qualcuno che pesa sulle nostre spalle, e che non può darci nulla in cambio, nemmeno linguisticamente: lui è solo, e noi siamo soli.
Se proviamo a leggere la Metamorfosi interamente dal punto di vista della famiglia di Gregor Samsa — con quel finale agghiacciante — allora lo troveremo non come un il “capolavoro del kafkismo”, ma come un racconto di famiglia, uno dei più grandi racconti di famiglia mai scritti — ancor prima di una metafora sulla distruzione di un individuo.
Ed ecco che Kafka, trascinato fuori dal cerchio asfissiante del “kafkismo”, diventa improvvisamente un parente stretto di Cechov. O di Tolstoj.
Un altro esempio che trovo illuminante (e che a mio avviso è stato molto sottovalutato, finora) è l’importanza delle descrizioni in tutti i lavori dello scrittore boemo. Ecco un brano tratto da America, forse il più romanzesco dei suoi romanzi: “Davanti alla sua stanza, e per tutta la lunghezza di questa, correva uno stretto balcone. Ma quel sesto piano, che nella città natale di Karl sarebbe stato il più alto, qui consentiva di dominare con lo sguardo una sola strada che correva diritta fra due file di case letteralmente spaccate per lungo e si perdeva lontano ove, in mezzo a una grande nebbia, si alzavano le forme mostruose di una cattedrale. E mattina e sera, e nei sogni della notte, in questa strada si svolgeva un traffico continuo che visto dall’alto rappresentava un turbine, che si riformava ininterrottamente, di figure umane contorte e veicoli d’ogni genere; da questa confusione si levava un nuovo turbine più complicato e più sconvolto, formato di rumori, polvere e odori, e tutto questo era incalzato e compenetrato da una luce potente, che di continuo era come dispersa e portata via dalla massa degli oggetti e poi in fretta nuovamente raccolta, sicché all’occhio confuso appariva addirittura corporea come se sopra alla strada venisse ogni momento spezzata con tutta la forza una lastra di vetro che ricopriva ogni cosa”.
Sembra un quadro di Paolo Uccello. O di Boccioni. Ma perché mi attardo sulle descrizioni? Perché a un “kafkiano” non interessano. Il kafkiano ritiene il mondo già giudicato, del tutto insignificante: è importante la visione, la filosofia, il pensiero che si ritiene sotteso all’opera.
Invece guardate con quanta dedizione, con quale stupore e pietà Kafka descrive le cose — neanche le persone, proprio le cose, i paesaggi, i dettagli, i gesti: i suoi personaggi ancora non sanno di essere perduti, e si attardano sul mondo come se potessero ancora salvarlo. Ha un profondissimo interesse per gli oggetti, che renderà persino personaggi animati — penso a Odradek o alle palle di celluloide “viventi” del racconto Blumenfeld, uno scapolo anzianotto. Gli oggetti esercitano su Kafka una magia straordinaria: sono ancora del tutto carichi di quell’aura che Walter Benjamin avrebbe sentenziato in progressiva scomparsa un decennio o due dopo.
E poco importa che poi trascinino i suoi personaggi nell’abisso, rendendoli sempre più simili a cose essi stessi. Non c’è alcun cinismo, in Kafka: è forse lo scrittore più assolutamente privo di cinismo che sia mai esistito. Nonostante la sua metafisica certamente terribile e spietata, è uno scrittore ricolmo di stupore e sete di bellezza.
E allora, ricapitolando: perché Kafka non era un kafkiano? In una frase: perché la sua opera non si lascia ridurre a niente di così unilaterale e semplificato. Il breve racconto La partenza si chiude con questo dialogo fra un cavaliere che incomincia un lungo vagabondaggio e il suo servitore: “«Non hai provviste con te» disse. «Non ne ho bisogno» risposi. «Il viaggio è così lungo che dovrò morir di fame se non trovo nulla per via. Nessuna provvista mi può salvare. Per fortuna è un viaggio veramente straordinario.»”
Bene, io credo sia il caso di ripensare con attenzione al viaggio straordinario che è la scrittura di Kafka, nonostante i suoi epiloghi inevitabilmente terribili. Kafka era un uomo che più di ogni altro considerava la necessità dell’esattezza della parola e la sua importanza, e insieme fu un grande narratore. Raccontava al giovane Janouch che “un danno arrecato alla lingua colpisce anche i sentimenti e la ragione, è un oscuramento del mondo, una glaciazione”: nelle parole c’è la responsabilità, perché sono ciò che abbiamo e dobbiamo prenderne massima cura.
Heidegger diceva di Kant: è un filosofo che non bara. Lo stesso potremmo dire di Kafka: i misteri e le contraddizioni ce li offre sempre con spietata chiarezza, veicolati da una lingua cristallina, incapace di mentire: una lingua volutamente “minore”, come spiegavano Deleuze e Guattari, e per questo ancora più potente: “La formula del suo antilirismo e antiestetismo è appunto “afferrare il mondo” piuttosto che estrarne delle impressioni, lavorare sugli oggetti, le persone e gli eventi, nel vivo del reale, e non sulle impressioni. Uccidere la metafora.” Proprio come dicevamo sopra. Kafka svela la menzogna dell’esistenza meglio di chiunque altro, ma non mente mai: fa parte di quella piccola famiglia di scrittori assolutamente incapaci di trucchi, che pagano con la sofferenza la loro purezza.
A ventun anni scriveva con ardore giovanile all’amico Oskar Pollak: “Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev’essere la scure per il mare gelato dentro di noi. Questo credo”.
Questo credeva, e questo inseguì per tutta la vita. Per Kafka era una lotta senza quartiere e che, se egli era consapevole sarebbe finita male, non abbandonò mai: grazie all’amore che aveva per la parola ci regalò qualcosa di stupendo, un’opera che sì, senz’altro è piena di dolore e angoscia, e senz’altro fa della condanna il proprio asse portante: ma è anche piena di coraggio e di una strana forma di consolazione — come se tutta la bellezza espressa dimostri che ci sia sempre spazio per la luce, e il buio cui inevitabilmente siamo destinati non è una giustificazione per negarla: “se sono condannato a morire”, scrive nei Diari, “lo sono anche a difendermi fino alla fine”.
E questa è la disperata, vivissima, meravigliosa resistenza che Franz Kafka, il mio scrittore preferito, operò di fronte al dolore e alla crudeltà della vita.


In “minima&moralia”, venerdì, 14 settembre 2012

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