Riprendo qui il testo
dell’intervento di Giorgio Fontana letto al Festivaletteratura di
Mantova 1912.
Franz Kafka nel 1917 |
“Kafkiano”. In
genere, sotto questo aggettivo si raggruppa una famiglia di
sensazioni che evocano un autore sinistro, cupo, angosciante,
terribile, ossessionato dalla burocrazia, pesante, faticoso,
pessimista, i cui personaggi sono assoggettati a un ordine oscuro e
superiore. Nonostante decenni di buona critica e tentativi di
liberalizzazione, il nome Kafka resta sempre e comunque legato a
evocazioni del genere.
Ora, è ben vero che
molte delle storie di Kafka siano permeate da sentimenti simili, e
che la condanna resti un elemento cruciale. Ma non c’è niente di
sottomesso nella sua prosa e nella sua figura autoriale: anzi, tutto
l’opposto.
Il dramma dell’opera
kafkiana è che quasi impossibile leggerla senza essere preceduti da
una qualsiasi interpretazione. Ciò può valere anche per Dante o
Dostoevskij, ma entrambi sono scrittori più vasti e sanguigni — la
loro forza ricaccia indietro l’ermeneutica, ci concede una seconda
verginità. L’arte di Kafka è invece molto più fragile. Più
sottile, per nulla sanguigna. In questo senso è una preda ideale per
gli esegeti.
Quindi? Quindi, come dice
Kundera ne I testamenti traditi, “C’è solo un metodo per
comprendere i romanzi di Kafka. Leggeri come leggiamo dei romanzi”.
Cioè, cercando di non farsi anticipare dalla loro interpretazione.
Riconoscendolo nella sua enorme complessità, e soprattutto
smettendola di farne innanzitutto un’esegesi, ma godendo della sua
lettura. (Personalmente, sogno un lettore di Kafka non kafkizzato:
chissà quali meraviglie leggerebbe!)
Il mio punto è semplice:
Kafka non era un kafkiano, cioè un individuo che assoggetta la
propria arte a un’idea preconcetta o a una figura biografica, o un
teologo mascherato o un cupo pensatore: era innanzitutto uno
scrittore immenso — cioè un individuo che sapeva creare dei mondi
indimenticabili con l’uso della parola. E vorrei portare due esempi
a supporto di questa immagine.
Immagino tutti conosciate
l’inizio della Metamorfosi: “Gregorio Samsa, svegliandosi una
mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un
enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una
corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato,
bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta da
letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe,
numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura
normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai
suoi occhi. Cosa m’è avvenuto? Pensò. Non era un sogno”.
Il grande critico
Giuliano Baioni ha fatto notare che questo è l’unico strappo in
una narrazione che, per il resto, procede in modo assolutamente piano
— in modo naturale. L’assurdo viene messo in scena nella prima
riga. Il resto segue inesorabile, come da un postulato. Questo è
l’esempio più noto ed evidente dell’inserimento dell’assurdo
in una situazione naturale da parte di Kafka.
Ma perché tutti quei
dettagli? Perché è reale. La storia ci sta domandando di credere
che stia accadendo davvero — e come diceva Lawrence, non dovremmo
fidarci mai di chi racconta, solo della storia.
Di nuovo, qui si svela la
grandezza di Kafka. Un surrealista avrebbe proposto la trasformazione
in insetto come un dato puramente onirico. Un kafkiano ci direbbe che
è una metafora dell’individuo soppresso da un potere più grande
eccetera.
No, Kafka invece è
brutale: toglie di mezzo la similitudine: non sei come una blatta,
sei una blatta. Ci obbliga invece a considerare la metamorfosi come
qualcosa di reale: non è un’allegoria, non è un simbolo — è
una condizione. Sei innocente e ti ritrovi un insetto. Non ti puoi
difendere, e non lo puoi fare davvero: sei un insetto vero, calato in
una dimensione iperrealistica e altamente connotata dal punto di
vista sociale.
Ecco il punto. È questo
il segreto di dolore della Metamorfosi: ogni trasformazione
non riguarda solo il soggetto cui è diretta, ma anche chi gli sta
attorno. Se Gregor diventa blatta, la sua famiglia diventa la
famiglia di una blatta.
La forza del racconto non
sta nella banale equivalenza fra un uomo e uno scarafaggio — questo
è un gioco da ragazzi. La forza terribile del racconto sta in tutto
il resto: nella capacità di Kafka di descrivere quanto può
diventare grande e tempestivo l’odio verso chi amavamo, quando
cambia e diventa altro. Una persona gravemente malata, ad esempio.
Qualcuno che pesa sulle nostre spalle, e che non può darci nulla in
cambio, nemmeno linguisticamente: lui è solo, e noi siamo soli.
Se proviamo a leggere la
Metamorfosi interamente dal punto di vista della famiglia di
Gregor Samsa — con quel finale agghiacciante — allora lo
troveremo non come un il “capolavoro del kafkismo”, ma come un
racconto di famiglia, uno dei più grandi racconti di famiglia mai
scritti — ancor prima di una metafora sulla distruzione di un
individuo.
Ed ecco che Kafka,
trascinato fuori dal cerchio asfissiante del “kafkismo”, diventa
improvvisamente un parente stretto di Cechov. O di Tolstoj.
Un altro esempio che
trovo illuminante (e che a mio avviso è stato molto sottovalutato,
finora) è l’importanza delle descrizioni in tutti i lavori dello
scrittore boemo. Ecco un brano tratto da America, forse il più
romanzesco dei suoi romanzi: “Davanti alla sua stanza, e per tutta
la lunghezza di questa, correva uno stretto balcone. Ma quel sesto
piano, che nella città natale di Karl sarebbe stato il più alto,
qui consentiva di dominare con lo sguardo una sola strada che correva
diritta fra due file di case letteralmente spaccate per lungo e si
perdeva lontano ove, in mezzo a una grande nebbia, si alzavano le
forme mostruose di una cattedrale. E mattina e sera, e nei sogni
della notte, in questa strada si svolgeva un traffico continuo che
visto dall’alto rappresentava un turbine, che si riformava
ininterrottamente, di figure umane contorte e veicoli d’ogni
genere; da questa confusione si levava un nuovo turbine più
complicato e più sconvolto, formato di rumori, polvere e odori, e
tutto questo era incalzato e compenetrato da una luce potente, che di
continuo era come dispersa e portata via dalla massa degli oggetti e
poi in fretta nuovamente raccolta, sicché all’occhio confuso
appariva addirittura corporea come se sopra alla strada venisse ogni
momento spezzata con tutta la forza una lastra di vetro che ricopriva
ogni cosa”.
Sembra un quadro di Paolo
Uccello. O di Boccioni. Ma perché mi attardo sulle descrizioni?
Perché a un “kafkiano” non interessano. Il kafkiano ritiene il
mondo già giudicato, del tutto insignificante: è importante la
visione, la filosofia, il pensiero che si ritiene sotteso all’opera.
Invece guardate con
quanta dedizione, con quale stupore e pietà Kafka descrive le cose —
neanche le persone, proprio le cose, i paesaggi, i dettagli, i gesti:
i suoi personaggi ancora non sanno di essere perduti, e si attardano
sul mondo come se potessero ancora salvarlo. Ha un profondissimo
interesse per gli oggetti, che renderà persino personaggi animati —
penso a Odradek o alle palle di celluloide “viventi” del
racconto Blumenfeld, uno scapolo anzianotto. Gli oggetti
esercitano su Kafka una magia straordinaria: sono ancora del tutto
carichi di quell’aura che Walter Benjamin avrebbe sentenziato in
progressiva scomparsa un decennio o due dopo.
E poco importa che poi
trascinino i suoi personaggi nell’abisso, rendendoli sempre più
simili a cose essi stessi. Non c’è alcun cinismo, in Kafka: è
forse lo scrittore più assolutamente privo di cinismo che sia mai
esistito. Nonostante la sua metafisica certamente terribile e
spietata, è uno scrittore ricolmo di stupore e sete di bellezza.
E allora, ricapitolando:
perché Kafka non era un kafkiano? In una frase: perché la sua opera
non si lascia ridurre a niente di così unilaterale e semplificato.
Il breve racconto La partenza si chiude con questo dialogo fra
un cavaliere che incomincia un lungo vagabondaggio e il suo
servitore: “«Non hai provviste con te» disse. «Non ne ho
bisogno» risposi. «Il viaggio è così lungo che dovrò morir di
fame se non trovo nulla per via. Nessuna provvista mi può salvare.
Per fortuna è un viaggio veramente straordinario.»”
Bene, io credo sia il
caso di ripensare con attenzione al viaggio straordinario che è la
scrittura di Kafka, nonostante i suoi epiloghi inevitabilmente
terribili. Kafka era un uomo che più di ogni altro considerava la
necessità dell’esattezza della parola e la sua importanza, e
insieme fu un grande narratore. Raccontava al giovane Janouch che “un
danno arrecato alla lingua colpisce anche i sentimenti e la ragione,
è un oscuramento del mondo, una glaciazione”: nelle parole c’è
la responsabilità, perché sono ciò che abbiamo e dobbiamo
prenderne massima cura.
Heidegger diceva di Kant:
è un filosofo che non bara. Lo stesso potremmo dire di Kafka: i
misteri e le contraddizioni ce li offre sempre con spietata
chiarezza, veicolati da una lingua cristallina, incapace di mentire:
una lingua volutamente “minore”, come spiegavano Deleuze e
Guattari, e per questo ancora più potente: “La formula del suo
antilirismo e antiestetismo è appunto “afferrare il mondo”
piuttosto che estrarne delle impressioni, lavorare sugli oggetti, le
persone e gli eventi, nel vivo del reale, e non sulle impressioni.
Uccidere la metafora.” Proprio come dicevamo sopra. Kafka svela la
menzogna dell’esistenza meglio di chiunque altro, ma non mente mai:
fa parte di quella piccola famiglia di scrittori assolutamente
incapaci di trucchi, che pagano con la sofferenza la loro purezza.
A ventun anni scriveva
con ardore giovanile all’amico Oskar Pollak: “Bisognerebbe
leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro
che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve
leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici
saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici
potremmo eventualmente scriverli noi. Ma noi abbiamo bisogno di libri
che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come
la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo
respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un
libro dev’essere la scure per il mare gelato dentro di noi. Questo
credo”.
Questo credeva, e questo
inseguì per tutta la vita. Per Kafka era una lotta senza quartiere e
che, se egli era consapevole sarebbe finita male, non abbandonò mai:
grazie all’amore che aveva per la parola ci regalò qualcosa di
stupendo, un’opera che sì, senz’altro è piena di dolore e
angoscia, e senz’altro fa della condanna il proprio asse portante:
ma è anche piena di coraggio e di una strana forma di consolazione —
come se tutta la bellezza espressa dimostri che ci sia sempre spazio
per la luce, e il buio cui inevitabilmente siamo destinati non è una
giustificazione per negarla: “se sono condannato a morire”,
scrive nei Diari, “lo sono anche a difendermi fino alla fine”.
E questa è la disperata,
vivissima, meravigliosa resistenza che Franz Kafka, il mio scrittore
preferito, operò di fronte al dolore e alla crudeltà della vita.
In “minima&moralia”,
venerdì, 14 settembre 2012
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