Armando Cossutta e Giorgio Amendola a una manifestazione del Pci negli anni Settanta |
Sono molto importanti le
manifestazioni in atto nel Paese con le quali si vuole ricordare la
figura di Giorgio Amendola, nel centesimo anniversario della sua
nascita. Emerge giustamente il ruolo straordinario che egli ha avuto
nelle vicende politiche della seconda metà del ’900 e che fa di
lui uno dei protagonisti in assoluto della nascita e della
costruzione della nostra «Repubblica democratica fondata sul
lavoro». È bene illustrare agli italiani i suoi grandi meriti di
organizzatore tenace dell’unità antifascista, di dirigente
esemplare della Guerra di Liberazione, di parlamentare illustre, di
uomo di Stato. Desidero soltanto esprimere qualche breve riflessione
sulla sua personalità politica, vista dall’interno del Partito
Comunista Italiano, di cui è stato uno dei massimi dirigenti.
Figlio di una famiglia
importante della borghesia napoletana, cresciuto a contatto con
alcune delle maggiori personalità della cultura liberale italiana ed
europea, è divenuto comunista per una scelta forte, come si sa. Ed è
stato comunista - voglio sottolineare - nell’unico modo razionale
in cui si poteva e doveva esserlo in Italia. Non fu né un comunista
di tipo socialdemocratico né di tipo liberalsocialista come molti
hanno scritto. Era comunista.
Togliattiano senza mai
proclamarlo, aveva con Togliatti la medesima formazione e cultura
storicista; ed aveva ben chiara la stessa strategia. Non ebbe
esitazioni, sin dall’inizio, finita la guerra, a schierarsi dalla
sua parte nel sostenere la concezione stessa del partito,
profondamente, totalmente nuova rispetto al passato: e si batté per
un partito non di propaganda o di testimonianza ma per una
organizzazione che fa politica, che la propone, che la costruisce. Ed
anche per questo per un partito di vocazione naturalmente unitaria,
di massa.
Il suo lavoro di
tessitore di rapporti unitari, svolto in modo intenso, continuo con
uomini della sinistra italiana lo ha portato a scontrarsi spesso
contro resistenze ed incrostazioni settarie. Le combatteva a viso
aperto, non curandosi delle etichette allora disdicevoli di
"riformista", che gli venivano cucite addosso. Era
unitario, non accomodante. All’esterno sapeva fronteggiare anche
duramente gli avversari politici e all’interno del partito non
cercava compromissioni per affermare le sue convinzioni. Il suo
linguaggio era diretto ed esplicito, detestava le formulazioni
fumose, involute.
Amendola è stato sempre
uomo di partito. Sovente i suoi commentatori dimenticano che nel ’54,
destituito Pietro Secchia, fu nominato per scelta di Togliatti
responsabile della Commissione di organizzazione, che era
fondamentale, la più importante di tutte nella vita del Pci. Da lì
lavorò per il rinnovamento profondo del partito, per il rinnovamento
politico sancito nell’ottavo congresso del 1956 e per quello
organizzativo compiuto con il nono congresso del 1959. Contribuirà a
fare emergere una generazione più giovane di dirigenti, più aperta
alle nuove realtà sociali ed alle esigenze unitarie, e questo fu in
non poche organizzazioni regionali impresa ardua (ne so qualcosa!),
che richiese grande coraggio e forte determinazione. Erano le sue
doti, erano suoi meriti. Riuscirà a far sostituire alla testa delle
maggiori federazioni figure popolari, cariche di antichi meriti e di
radicati consensi, con compagni trentenni, non ancora affermati ma
futuri costruttori del grandissimo partito che divenne il Pci.
Eravamo quasi tutti della stessissima, medesima età, 1924-1925-1926:
Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, Alfredo
Reichlin, Ugo Pecchioli, Fernando Di Giulio, Aldo Tortorella, e tanti
altri in ogni parte d’Italia.
Togliattiano nel profondo
non esitò a distinguersi (non certo a distaccarsi) dal segretario
nazionale su questioni di grande rilevanza, a partire dal giudizio
sull’Unione Sovietica. Le sue critiche erano rivolte a sollecitare
una differenziazione più esplicita nei confronti dei dirigenti
sovietici a cavallo tra il XX ed il XXII congresso del Pcus. Furono
critiche pubbliche e di non poco peso, di cui Togliatti e tutto il
partito dovettero tenere conto: riserve esplicite e rilevanti sui
ritardi e sugli errori nella vita interna sovietica.
Eppure Amendola, in epoca
successiva, si trovò solo a non condividere la condanna del Pci
contro l’invasione dell’Afghanistan: egli fu l’unico nella
Direzione del partito a votare contro la risoluzione. E non esitò a
rinfacciare a me apertamente ed anche duramente di non avere
condiviso il suo atteggiamento. «Mi meraviglio di te - mi disse -
eppure dovresti ben sapere cosa significa strategicamente, nei
rapporti internazionali, che cosa conta Kabul a cavallo come è fra
tre continenti ed in una contesa che prefigura una disputa di portata
mondiale. Non mi piace proprio nulla della vita interna dell’Unione
Sovietica ma so che essa rappresenta un fondamentale deterrente nei
confronti del dominio mondiale degli Stati Uniti».
E fu quasi solo negli
ultimi anni della sua vita - ma giustamente profetico - nel sostenere
l’esigenza oggettiva dell’unità delle forze della sinistra,
l’unità fra comunisti, socialisti, socialdemocratici, oltre le
antiche contrapposizioni, oltre le rispettive collocazioni,
riconoscendo e superando autocriticamente i propri «fallimenti»,
come impietosamente egli li definiva.
Comunista anche in
questo, perché non si è comunista - diceva - solo per sventolare un
simbolo ed un nome ma si è comunista se si contribuisce a costruire
l’unità delle forze in grado di agire con efficacia per fare
avanzare i lavoratori e l’intera società in Italia ed in Europa
verso il rinnovamento democratico ed il progresso sociale. Concetti,
come si vede, di estrema attualità.
l’Unità 2 dicembre
2007
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