Giuseppe Lombardo,
trent'anni, è un manovale oriundo di Licata (Agrigento), da anni
emigrato a Köln, in Germania, dove si è sposato con una ragazza
tedesca dalla quale ha avuto tre figli.
La sera del 3 febbraio di
quest'anno, Domenico Cassaro, diciotto anni, contadino, in via Palma,
a Licata, investe incidentalmente col suo motorino, provocandone la
morte, Giuseppa Bosco, cinquantanni, madre del manovale Giuseppe
Lombardo. Il 23 maggio scorso, il Lombardo torna dalla Germania in
Sicilia a bordo di una veloce macchina, va nelle campagne di Licata,
in contrada S. Oliva, dove lavora il contadino Cassaro assieme ai
fratelli, si apposta dietro una siepe e, venutogli a tiro, con sei
colpi di pistola uccide il ragazzo.
La vendetta è compiuta.
Per amore di madre. Per il dolore della perdita della madre.
Non sono bastati, al
manovale Lombardo, gli anni passati in Germania, in quel duro mondo
industriale, non sono bastati la moglie tedesca e i tre figli a
trasformare il suo vecchio e oscuro cuore contadino, mediterraneo,
stipato di feroci, maligni sentimenti, a dare ragione alla sua mente,
a fargli capire che innocente era sua madre e innocente il ragazzo
sopra il motorino, che, in ogni caso, per ridare giustizia a chiunque
colpito da ingiustizia, nella società, c'è un organo istituito, che
morte contro morte, infine, non è giustizia, ma primordiale,
barbarica vendetta.
Ma si tratta della madre,
della madre...
Dominique Femandez, in
quel suo libro dal titolo Mère méditerranée, fa partire da
Napoli verso il Sud il "morbo" della madre mediterranea, e
il punto d'inizio è simboleggiato da quell'antro-utero della Sibilla
di Cuma: "Ecco uno dei capisaldi della mitologia materna... Qui
capisco che cosa sia, per ognuno di noi, una madre: i benefici, i
favori, le generosità che ce ne vengono hanno un'importanza tanto
vitale solo perché, per ottenerli, bisogna sfidare il pericolo
d'essere inghiottiti da un rovesciamento inopinato di tenerezza, da
una manducazione amorosa squisita ma fatale".
Il manovale Lombardo è
stato inghiottito dentro quell'antro.
Ma è che la linea del
morbo materno, come la linea del caffè ristretto o la linea della
mafia, non passa più da Napoli, si è spostata al Nord, fino a
Milano, fino a Venezia. Al Nord, è vero, per quel morbo forse non si
spara, ma si fanno tante altre cose assurde, come quella di scrivere
romanzi. Ci siamo appena imbattuti almeno in due, freschi di stampa e
subito di gran successo, che corrono veloci alla conquista di uno dei
tanti premi letterari patrocinati da industriali che amano la mamma e
la poesia. Dice, dell'uno, il risvolto di copertina, che l'autore
approda, per trasfigurazione d'amore, a un sentimento di immortalità
che trova il suo simbolo in un altare di rame (aes perenne)
che il marito ha eretto alla moglie morta. A questo, di rame,
corrisponde un altare di parole (os perenne) che le erige il
figlio. Dell'altro, che al narratore-bambino la madre-fata, morta
anche lei, riappare sulla tomba dopo la sepoltura...
Ne è passata di acqua
sotto i ponti da quando Vittorini irrompeva nella letteratura
italiana anche con quella sua idea democratica della smitizzazione
della madre, la quale era chiamata, in Conversazione, vecchia
vacca, benedetta vacca.
Oggi, poi, le donne non
si battono per altro che per essere donne, non madri, non monumenti,
non ombre. Ma la vita, oggi, va in un verso e la letteratura
"letteraria", quella delle streghe e dei campielli, in un
altro, verso il vecchio, oscuro cuore del manovale Lombardo.
"La Stampa", 11
giugno 1978
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