Raccogliere in una
collana prestigiosa come i Meridiani Mondadori i poeti della
generazione tra gli Anni Venti (di Zanzotto o Giudici) e i Trenta (di
Sanguineti e Porta) non è impresa facile, perché la compagnia alla
fine è ridotta, a differenza di quanto accaduto per la generazione
degli Anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento, quando come i funghi
sbocciarono i poeti che avrebbero reso glorioso il Novecento, da Saba
a Ungaretti a Montale, da Gozzano a Palazzeschi a Govoni, da Campana
a Rebora a Soffici... Se c'è però una cosa di cui si può essere
certi è che il milanese Giovanni Raboni il suo posto nel pantheon se
l’è ben meritato, con un volume di quasi duemila pagine, (Giovanni
Raboni L'opera poetica, i Meridiani, Mondadori 2006) curato
con acribica attenzione e introdotto da Rodolfo Zucco, con una
seconda prefazione di Andrea Zanzotto. Giusto riconoscimento, dunque,
nel senso che in quelle poesie ognuno si riconoscerà, per sincronia
di voce, per accento di sentimenti (quando dico voce intendo proprio
una voce per lo più sommessa e non un canto alto spiegato, un gusto
riflessivo e non un'esibizione tenorile).
Raboni nasce nell'aprile
del 1932 in via San Gregorio, nel centro della città. Con una
patente di milanesità, quindi, incontrovertibile. Perché questo
dettaglio indicativo? Per mettere avanti innanzitutto l'evidenza, la
quale vuole davvero che la città, la sua struttura allergica
all'idillio agreste, sia il paesaggio naturale di Raboni fin da
subito (la romanità delle Gesta romanorum, il primo libro,
rimasto inedito, del poeta non ancora ventenne, si rivela un abile
inganno storico-geografico, oltre che ideologico). Subito significa
Le case della Vetra,
che è un titolo toponomastico inequivocabile. Non a caso in esergo
vi troviamo una citazione della manzoniana Colonna infame, una
storia che infatti ebbe la Vetra quale scenario degli avvenimenti. Un
autore ben specifico, come specifico, per i suoi contenuti
ideologici, il testo di riferimento. Il che mi offre una chiave di
lettura non azzardata né peregrina, ma sostanziale.
La chiave Manzoni ci
consente di avviare in primis un albero genealogico abbastanza
organico retrodatabile a Parini (non dimentico che una plaquette del
'63 si intitolava L'insalubrità dell'aria) e a Carlo Porta
(sepolto alla sua morte nel cimitero di San Gregorio) e che
attraverso appunto Manzoni arriverà a Rebora, e poi a Sereni e a
Raboni. Il connettivo che li tiene assieme non è quello, se non
parzialmente, che attorno agli Anni Cinquanta si formulerà in una
«linea lombarda» (dando vita a un'antologia nella quale il Nostro
non compare non solo perché il suo libro d'esordio uscì fuori tempo
massimo, ma perché «credo in qualcosa di sostanzialmente diverso da
quella che la storiografia del Novecento intende come linea lombarda,
che non ho mai capito cosa sia»).
Questa esplicita
testimonianza di debito manzoniano, a un testo che ha come tema il
problema dell'ingiustizia dei giudici (una variante laica della
teodicea) ci fa comprendere come Raboni abbia scelto sin dal debutto
la disagevole via della moralità, della poesia civile. Non è un
percorso rettilineo, comunque, perché rettilineo non è il tempo
delle età. Ma coerente sì. C'è una qualche complessità, almeno
apparente, nei suoi transiti o nelle sue contaminazioni
reciprocamente integrative di Cristo e Marx, in un negarsi e
affermarsi continuo.
Opportunamente ricorda e
documenta Zucco l'incontro giovanile con Betocchi e Ungaretti, un po'
i suoi scopritori, non senza conseguenze. Guai a noi, però, se ci
mettiamo a controllare il dare-avere, quando non c'è mai stato un
poeta che non fosse debitore a qualcuno di qualcosa, d'essere quel
che è. D'accordo, il poeta può aver pagato dazio a Montale e, più,
al secondo Sereni, ma c'è pure di mezzo il lungo lavoro di
traduzione del «cattolico» Baudelaire. Dove Sereni vuole dire una
sua certa prosaicità così come, per le ultime raccolte in cui si
evolve in un ordine prosodico evidente, non uscirà di casa, poiché
mi sembra di riconoscere un'influenza palpabile nel suo sodalizio
amoroso e culturale con l'ottima compagna Patrizia Valduga.
Fin qui mi sono
preoccupato di segnalare all'eventuale lettore alcuni punti fermi o
alcune direttrici, incominciando dal paesaggio, credo unico nella
nostra poesia e perciò di singolare importanza: è un paesaggio
riconducibile alla toponomastica milanese, con la Vetra, il Mulino
delle armi, il corso di Porta Ticinese e i Navigli, ma anche i lavori
di scavo per la metropolitana, e con i suoi personaggi, che vanno dai
frequentatori delle visioni pomeridiane nei cinematografi a un Baggio
eroe interista. E' chiaro, il suo è un linguaggio che mira alle
cose, senza distinzioni gerarchiche, e che parte dall'occhio. Lo
sguardo e il «parlato», con tanto di personaggi e di storie... Mi
pare che si tratti di teatro, un teatro di cui si potrebbe fare
l'elenco degli elementi (parole) costitutivi, il perno sul quale
ruota il discorso: simulazioni e dissimulazioni, astuzie e
imitazioni, falso e tendenzioso e vero, e su tutto la morte e le
morti.
C'è pure una poesia
erotica, specie nell’anziano Raboni (mi viene in mente la
produzione del vecchio Picasso) che non è saggezza ma ilare follia,
un trasferimento del sangue in immagine. La linea portante rimane in
ogni modo la rappresentazione di un degrado che si configura nel
degrado urbano, metafora infine del degrado morale, che da sempre
muove la sua santa indignazione, in toni aspri e mai ambigui,
espliciti. Mica si può dimenticare che la sua ultima, estrema poesia
è un ritratto inequivocabile, nel 2004, di Silvio Berlusconi:
«Stillicidio di delitti, terribile: / si distruggono vite, / si
distruggono posti di lavoro, / si distrugge la giustizia, il decoro /
della convivenza civile / [.. .] E intanto l'imprenditore del nulla,
/ il venditore d'aria fritta, / forte coi miserabili / delle sue
inindagabili ricchezze / […] sorride a tutto schermo / negando ogni
evidenza, promettendo / il già promesso e l'impossibile, /
spacciando per pragmatico / il suo osceno frasario da piazzista»,
ecc.
Io la leggo, questa
poesia, come il testamento di Raboni o la sua lezione indignata, per
noi rimasti, per dimostrarci che la poesia può servire, serve.
Tuttolibri “la Stampa”,
ritaglio senza data, probabilmente 2006
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