28.5.16

Raboni, quando la poesia è civile (Folco Portinari)

Raccogliere in una collana prestigiosa come i Meridiani Mondadori i poeti della generazione tra gli Anni Venti (di Zanzotto o Giudici) e i Trenta (di Sanguineti e Porta) non è impresa facile, perché la compagnia alla fine è ridotta, a differenza di quanto accaduto per la generazione degli Anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento, quando come i funghi sbocciarono i poeti che avrebbero reso glorioso il Novecento, da Saba a Ungaretti a Montale, da Gozzano a Palazzeschi a Govoni, da Campana a Rebora a Soffici... Se c'è però una cosa di cui si può essere certi è che il milanese Giovanni Raboni il suo posto nel pantheon se l’è ben meritato, con un volume di quasi duemila pagine, (Giovanni Raboni L'opera poetica, i Meridiani, Mondadori 2006) curato con acribica attenzione e introdotto da Rodolfo Zucco, con una seconda prefazione di Andrea Zanzotto. Giusto riconoscimento, dunque, nel senso che in quelle poesie ognuno si riconoscerà, per sincronia di voce, per accento di sentimenti (quando dico voce intendo proprio una voce per lo più sommessa e non un canto alto spiegato, un gusto riflessivo e non un'esibizione tenorile).
Raboni nasce nell'aprile del 1932 in via San Gregorio, nel centro della città. Con una patente di milanesità, quindi, incontrovertibile. Perché questo dettaglio indicativo? Per mettere avanti innanzitutto l'evidenza, la quale vuole davvero che la città, la sua struttura allergica all'idillio agreste, sia il paesaggio naturale di Raboni fin da subito (la romanità delle Gesta romanorum, il primo libro, rimasto inedito, del poeta non ancora ventenne, si rivela un abile inganno storico-geografico, oltre che ideologico). Subito significa Le case della Vetra, che è un titolo toponomastico inequivocabile. Non a caso in esergo vi troviamo una citazione della manzoniana Colonna infame, una storia che infatti ebbe la Vetra quale scenario degli avvenimenti. Un autore ben specifico, come specifico, per i suoi contenuti ideologici, il testo di riferimento. Il che mi offre una chiave di lettura non azzardata né peregrina, ma sostanziale.
La chiave Manzoni ci consente di avviare in primis un albero genealogico abbastanza organico retrodatabile a Parini (non dimentico che una plaquette del '63 si intitolava L'insalubrità dell'aria) e a Carlo Porta (sepolto alla sua morte nel cimitero di San Gregorio) e che attraverso appunto Manzoni arriverà a Rebora, e poi a Sereni e a Raboni. Il connettivo che li tiene assieme non è quello, se non parzialmente, che attorno agli Anni Cinquanta si formulerà in una «linea lombarda» (dando vita a un'antologia nella quale il Nostro non compare non solo perché il suo libro d'esordio uscì fuori tempo massimo, ma perché «credo in qualcosa di sostanzialmente diverso da quella che la storiografia del Novecento intende come linea lombarda, che non ho mai capito cosa sia»).
Questa esplicita testimonianza di debito manzoniano, a un testo che ha come tema il problema dell'ingiustizia dei giudici (una variante laica della teodicea) ci fa comprendere come Raboni abbia scelto sin dal debutto la disagevole via della moralità, della poesia civile. Non è un percorso rettilineo, comunque, perché rettilineo non è il tempo delle età. Ma coerente sì. C'è una qualche complessità, almeno apparente, nei suoi transiti o nelle sue contaminazioni reciprocamente integrative di Cristo e Marx, in un negarsi e affermarsi continuo.
Opportunamente ricorda e documenta Zucco l'incontro giovanile con Betocchi e Ungaretti, un po' i suoi scopritori, non senza conseguenze. Guai a noi, però, se ci mettiamo a controllare il dare-avere, quando non c'è mai stato un poeta che non fosse debitore a qualcuno di qualcosa, d'essere quel che è. D'accordo, il poeta può aver pagato dazio a Montale e, più, al secondo Sereni, ma c'è pure di mezzo il lungo lavoro di traduzione del «cattolico» Baudelaire. Dove Sereni vuole dire una sua certa prosaicità così come, per le ultime raccolte in cui si evolve in un ordine prosodico evidente, non uscirà di casa, poiché mi sembra di riconoscere un'influenza palpabile nel suo sodalizio amoroso e culturale con l'ottima compagna Patrizia Valduga.
Fin qui mi sono preoccupato di segnalare all'eventuale lettore alcuni punti fermi o alcune direttrici, incominciando dal paesaggio, credo unico nella nostra poesia e perciò di singolare importanza: è un paesaggio riconducibile alla toponomastica milanese, con la Vetra, il Mulino delle armi, il corso di Porta Ticinese e i Navigli, ma anche i lavori di scavo per la metropolitana, e con i suoi personaggi, che vanno dai frequentatori delle visioni pomeridiane nei cinematografi a un Baggio eroe interista. E' chiaro, il suo è un linguaggio che mira alle cose, senza distinzioni gerarchiche, e che parte dall'occhio. Lo sguardo e il «parlato», con tanto di personaggi e di storie... Mi pare che si tratti di teatro, un teatro di cui si potrebbe fare l'elenco degli elementi (parole) costitutivi, il perno sul quale ruota il discorso: simulazioni e dissimulazioni, astuzie e imitazioni, falso e tendenzioso e vero, e su tutto la morte e le morti.
C'è pure una poesia erotica, specie nell’anziano Raboni (mi viene in mente la produzione del vecchio Picasso) che non è saggezza ma ilare follia, un trasferimento del sangue in immagine. La linea portante rimane in ogni modo la rappresentazione di un degrado che si configura nel degrado urbano, metafora infine del degrado morale, che da sempre muove la sua santa indignazione, in toni aspri e mai ambigui, espliciti. Mica si può dimenticare che la sua ultima, estrema poesia è un ritratto inequivocabile, nel 2004, di Silvio Berlusconi: «Stillicidio di delitti, terribile: / si distruggono vite, / si distruggono posti di lavoro, / si distrugge la giustizia, il decoro / della convivenza civile / [.. .] E intanto l'imprenditore del nulla, / il venditore d'aria fritta, / forte coi miserabili / delle sue inindagabili ricchezze / […] sorride a tutto schermo / negando ogni evidenza, promettendo / il già promesso e l'impossibile, / spacciando per pragmatico / il suo osceno frasario da piazzista», ecc.
Io la leggo, questa poesia, come il testamento di Raboni o la sua lezione indignata, per noi rimasti, per dimostrarci che la poesia può servire, serve.


Tuttolibri “la Stampa”, ritaglio senza data, probabilmente 2006

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