Da un “domenicale”
del “Sole 24 Ore” recupero la deliziosa pagina di un celebre
storico delle arti. Memoria, erudizione, intuizione, spirito
aristocratico, l'eleganza che nasce dalla leggerezza. Non manca
nulla.
Da Roma a Firenze la
distanza non è lunga eppure sono due luoghi del tutto diversi, quasi
che le capitali della Santa Sede e del Granducato fossero remote. Il
Lazio è brusco, severo; più clementi i colli toscani popolati di
ulivi, foglie cangianti dal verde all’argento quando soffia il
vento, come in un verso del Poliziano o del Magnifico, non ricordo
più bene. Ma io guardo i cipressi che sempre «una gentil pietade
avean di me». In Italia li si dice alberi adatti ai cimiteri ma a me
sembrano magnifici obelischi viventi.
Si percorre la strada che
costeggia la Certosa del Galluzzo, la via Senese, i Giardini del
Poggio Imperiale e ci si inoltra in un universo di pietra, la
sterminata facciata di Palazzo Pitti, via Maggio più delicata nella
sua bicromia di pietra serena grigia e calcare bigio, fino a via dei
Serragli. Alloggio in fondo al cortile di uno dei palazzi Antinori,
tre stanzine silenziose: il palazzo apparteneva a un ramo della
famiglia toscana che a metà Ottocento ebbe il ducato di Brindisi. In
quegli anni Giuseppe Poggi riaccomodò l’intero edificio con
elegante buonsenso. Fu lui, l’Haussmann fiorentino, a risanare
l’intero centro storico, distruggendo non poco. Ma lo si perdona se
si fa il giro del viale dei Colli e si arriva al piazzale
Michelangelo, uno dei luoghi più belli d’Europa. Già conoscevo
bene l’edificio in cui abito, ci viveva Urlrich Middeldorf,
direttore dell’Istituto tedesco di storia dell’arte. Middeldorf
(1901-1983) aveva studiato con grandi maestri a Monaco e a Berlino,
soprattutto con Wölfflin ma oltre a essere un esponente della “pura
visibilità” si interessava di ogni cosa artistica e di tanto
ancora. Il giorno in cui mi ricevette mi parlò di letteratura e
dell’influsso che il Cavalier Marino aveva avuto sull’arte
barocca. Erano altri tempi ma nemmeno allora era frequente una tale
devozione al proprio lavoro: Middeldorf seguiva con curiosità quel
che cercavo di fare, indicandomi fonti poco note o documenti
pubblicati in riviste rare; insegnando imparava, appagando la sua
inesauribile curiosità. Quando cominciai a interessarmi ai tessuti
mi invitò nella sua casa (che vedo oggi dalla finestra) e aperti i
tiretti di un grande mobile mi fece esaminare con occhi e mani le
centinaia di frammenti che aveva raccolto in mezzo secolo. Per
entrare nel suo appartamento, dove visse lunghi anni con la moglie
Gloria, si passava da un ambiente che ospitava pezzi archeologici
raccolti da Giovanni Gaetano Antinori verso la metà del Settecento
tra i quali spiccavano molti avanzi etruschi.
Dall’altra parte di via
dei Serragli, quasi di fronte a dove sono ora, si trova Palazzo
Feroni, più volte arricchito lungo i secoli finché acquistò il suo
aspetto odierno nel tardo Settecento per mano dell’architetto
Zanobi del Rosso. I Feroni erano facoltosi, avevano cappella di
famiglia alla Chiesa dell’Annunziata con opere del migliore artista
fiorentino del barocco, Giovanni Battista Foggini, e fecero le cose
in grande. Il cortile del palazzo è ancora splendido con quella
leggera trascuratezza che è segno di antica passione per marmi e
piante. Vi andavo spesso a studiare con una mia compagna di
università, nipote di uno dei più famosi antiquari del primo
Novecento, Salvatore Romano. In anni successivi, quando un
appartamento a pian terreno del palazzo rimase sfitto, lo consigliai
agli amici Evelina e Virgilio Gaddi che vi abitarono per un
ventennio: dal cortile ombroso si passava ad ampie stanze con
affreschi neoclassici e a un giardino semplice ma grazioso.
Piazza del Carmine in
pieno inverno e al cadere della sera ha un senso di vuoto quasi
desolato. La facciata incompiuta della chiesa non fa indovinare come
essa nasconda non solo la Cappella Corsini, dove trionfa il Foggini,
ma anche uno dei maggiori monumenti del Rinascimento, la Cappella
Brancacci affrescata da Masolino e da Masaccio. A due passi, in un
casamento verso Borgo San Frediano c’era lo studio di Luigi
Baldacci, uomo inquieto, talvolta mordace ma critico letterario di
grande finezza e ossessionato intenditore di lirica. Nei pressi, a
via Santa Monaca, lavora Fausto Calderai, l’arbiter elegantiarum
della Firenze d’oggi: è un mio amico giovane ma a ben pensarci
sono trentasette anni che lo conosco e a lui devo l’aver avvicinato
una Firenze diversa da quella dei miei primi anni.
Dopo l’alluvione del
1966, non lontano da Piazza del Carmine, acquistai un modestissimo
quartierino in via della Chiesa dirimpetto all’Albergo dei Poveri.
Ci sono passato ieri, mezzo secolo dopo: è meno squallido di quanto
allora mi apparisse ma sulla spoglia facciata dell’immobile, al
numero 93, è sempre affissa la lapide in ricordo di un poeta
inglese, più famoso nell’Ottocento di quanto lo sia oggi, Walter
Savage Landor che vi morì nel 1864. Se ritorno su via dei Serragli e
giro a sinistra, anziché come avevo fatto prima a destra, sono in
men che non si dica in Piazza Santo Spirito. Mi trovo davanti Palazzo
Guadagni attorniato da panconi di pietra su cui ai miei tempi
sedevano vecchietti avvinazzati che parlavano bestemmiando di ciò
che non bazzicavano più, donne e calcio, accanto ai baroccini dove
si vendeva e si vende ancora frutta e verdura. Il palazzo era sede
del Kunsthistorisches Institut dove conobbi la maggior parte
degli storici dell’arte dell’epoca e dove passai mesi e anni a
studiare i primitivi toscani tra Spinello Aretino e Lorenzo Monaco
con il mio compagno di università Luciano Bellosi e con Marvin
Eisenberg. L’edificio, costruito per la famiglia Dei, è attribuito
a Simone del Pollaiolo detto il Cronaca ma altri lo credono di un
architetto più importante, Bacio d'Agnolo, al quale si deve uno dei
più bei campanili fiorentini, quello, appunto, nella stessa piazza.
“Il Sole 24 Ore
Domenica”, 1 marzo 2015
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