L’ultimo in ordine di
tempo è il “New York Magazine”, che dopo un fantastico 2015 con
reportage pluripremiati – come quello che racconta la storia delle
35 donne che hanno accusato l’attore Bill Cosby di abusi sessuali –
ha annunciato in queste settimane il prossimo lancio di una nuova
agenzia per espandere la propria attività nel creare pubblicità nei
nuovi formati: il native advertising (quello, per intenderci,
che tenta di rivedere e correggere i vecchi publiredazionali
adeguandoli ai tempi del digitale).
Oggi i branded content
studio, come vengono comunemente chiamate le divisioni interne ai
giornali che si occupano di progettare e realizzare le campagne
pubblicitarie per le aziende loro clienti, sono diventati anche per
le testate che puntano sulla qualità dei propri contenuti la nuova
grande scommessa. Utile a cercare di limitare i danni del calo dei
fatturati.
Il “Guardian” e il
“New York Times” sono stati tra i primi un paio di anni fa a
percorrere questa strada – occupando un settore di mercato fino ad
allora riservato alle agenzie creative indipendenti – e oggi hanno
già provveduto ad ampliare il proprio raggio d’azione: il Guardian
Labs, l’unità interna del quotidiano britannico da 130 dipendenti
specializzati in content marketing, ha aperto una propria sede
a New York in aggiunta di quella di Londra. Percorso inverso per il T
Brand Studio del Times – uno staff di 45 persone che in questi due
anni ha realizzato 120 campagne per 60 clienti – sbarcato a Londra
qualche mese fa per conquistare il mercato europeo di questo nuovo
formato pubblicitario.
Insomma per le testate
tradizionali attivare unità interamente dedicate alla produzione di
native advertising è ormai diventata una scelta obbligata: il
Brand Studio del Washington Post o il Custom Studio del “Wall
Street” Journal lavorano già da tempo a ritmo pieno, e molto
spesso con lavori di ottima qualità, per aziende come l’emittente
Fx, Microsoft, General Electric o Accenture. E l’elenco potrebbe
continuare per molto, con strutture simili attivate recentemente in
quotidiani come “Usa Today”, riviste come il “National
Geographic” o reti televisive come Nbc Universal (e in Italia un
primo esperimento in questa direzione è “Numix” di Rcs lanciato
lo scorso anno).
All’inizio gli editori
hanno dato vita ai propri branded content studio soprattutto
spinti dalla necessità di diversificare i ricavi, aggiungendo nuovi
servizi da offrire agli investitori pubblicitari. Ma in questi due
anni la crescita esponenziale dell’uso degli ad blockers, i
software blocca-pubblicità, ha contribuito notevolmente a far
crescere l’interesse da parte degli investitori pubblicitari verso
i contenuti sponsorizzati. Che hanno il grande pregio, per la loro
assoluta somiglianza a normali articoli giornalistici, di aggirare
questi blocchi.
Così oggi in molti sono
convinti che questo sarà il formato pubblicitario del futuro. E ci
sono un po’ di numeri che sembrano dare ragione a questa teoria.
Secondo Business Insider le aziende spenderanno nelle
sponsorizzazioni di contenuti 3,4 miliardi a livello globale entro il
2018; questa spesa si fermava a un miliardo nel 2013. E il native
advertising nel suo complesso raggiungerà, nello stesso anno, i
21 miliardi di dollari: nel 2013 questa cifra era pari a 4,7
miliardi. Mentre uno studio ancora più recente, marzo 2016,
realizzato da “Yahoo!” e “Enders Analysis” afferma che la
spesa in native advertising nel solo mercato europeo crescerà dal
2015 al 2020 del 156%.
In questo scenario alcuni
grandi giornali sembrano decisi a lanciarsi su questo mercato in
maniera ancora più aggressiva, trasformando i propri content
studio da strutture dedicate alla sola produzione di native
advertising da pubblicare sui propri siti in agenzie di marketing
digitale a tutti gli effetti, per fornire un catalogo di servizi
sempre più ampio alle aziende e agli investitori pubblicitari.
È all’interno di
questa nuova ottica che possiamo spiegarci alcune recenti operazioni,
come l’acquisizione da parte del “New York Times” di una
giovane agenzia californiana di marketing digitale (che vanta oltre
un centinaio di clienti tra i grandi brand come Disney, Levi’s o
L’Oréal) specializzata nel pianificare, realizzare e diffondere
campagne pubblicitarie sui social media. Oppure l’investimento di
176 milioni di dollari fatto dalla News Corp di Rupert Murdoch su
un’agenzia specializzata nel creare e distribuire pubblicità
nell’online video, un formato molto utilizzato oggi per realizzare
native advertising.
Entrambe queste agenzie
hanno sviluppato software proprietari per raccogliere e analizzare
dati su dinamiche e interazioni con gli utenti e, soprattutto, hanno
acquisito competenze per interpretare questi numeri con metriche
appropriate. Perché il futuro di questo tipo di contenuti sarà
nell'intersezione tra creatività nel realizzarli, analytics
avanzate nel saperli leggere e capacità nel distribuirli attraverso
tutto il social media web.
Diventa, allora,
fondamentale attrezzarsi con tutte queste nuove competenze per essere
capaci di controllare direttamente tutte le diverse fasi della
produzione, saltando i soggetti intermedi (per esempio le agenzie
indipendenti che oggi soffrono, non poco, questa nuova concorrenza da
parte dei giornali). Le testate come BuzzFeed lo hanno già capito da
tempo e oggi sono agenzie pubblicitarie non meno che editori. Quelle
tradizionali sono chiamate in qualche modo adattarsi, ma tutto questo
porta inevitabilmente a un rapporto più stretto tra loro e gli
sponsor.
Così queste strategie
stanno causando delle mutazioni assai profonde anche
sull’organizzazione interna dei giornali. Un esempio lampante: lo
scorso settembre il “New York Times” ha deciso di istituire un
nuova figura professionale all'interno della redazione: un senior
editor con il preciso compito di «individuare i progetti
editoriali che possano essere utilizzati per le sponsorizzazioni»,
si legge in una nota firmata dal direttore del giornale Dean Baquet,
dalla quale si capisce tra l’altro che il nuovo ruolo è pensato
per lavorare a stretto contatto con il settore pubblicità del
giornale.
Insomma, una bella
spallata allo storico muro tra “Stato e Chiesa” – quello che
segna idealmente il confine tra redazione di contenuti giornalistici
e settore pubblicità –, come hanno osservato in molti.
«Sarebbe stato inaudito
una decina di anni fa», ha dovuto ammettere in un suo articolo
Margaret Sullivan, che al “Times” riveste il ruolo di public
editor (una sorta di garante del lettore), commentando
l’attenuarsi di questo confine. «I puristi possono ragionevolmente
rabbrividire perché c’è un concreto pericolo che il giornalismo
possa essere sempre più guidato da interessi commerciali», ha
aggiunto. Ma questo – sembra assolutamente esserne consapevole la
public editor – è il modello di business con il
quale inevitabilmente si devono misurare oggi gli editori. Lo
dimostra il fatto che sui bilanci economici del “Times” il peso
del fatturato da native advertising sul totale della pubblicità da
digitale continua a crescere trimestre dopo trimestre o che per un
importante editore come quello del “The Atlantic”, sul mercato
dal 1858, la quota parte di ricavi da contenuti sponsorizzati abbia
ormai raggiunto il 65% sul totale della pubblicità. È anche per
questo che non sorprende più di tanto se già all’inizio del 2015
una scelta ancora più radicale di quella del “Times” l’abbia
fatta il gruppo Condé Nast (l’editore di Vanity Fair, Vogue e il
New Yorker) decidendo di coinvolgere direttamente alcuni giornalisti
delle proprie redazioni nel ciclo di produzione di 23 Stories,
la divisione interna di content marketing.
Una scelta simile è
stata fatta più di recente dall’“Independent”, il giornale
britannico che ha deciso di abbandonare definitivamente la carta e
uscire solo in versione digitale dove i nuovi assunti saranno
utilizzati – hanno confermato i responsabili della testata alla
rivista Digiday – indifferentemente sia per lavorare nella
redazione giornalistica che per il settore pubblicità. A questo
punto la strada sembra segnata, ma è vero che il native
advertising presenta ancora, nonostante il suo indubbio successo,
una serie di problemi un po’ per tutti: per le redazioni che vedono
la loro credibilità messa in discussione, per i lettori che hanno
necessità di maggiore chiarezza e trasparenza per capire cosa
realmente stanno leggendo. E infine anche per gli sponsor che, pur
essendone attratti, hanno ancora difficoltà nel misurare, per questo
tipo di campagne pubblicitarie, la reale efficienza e la concreta
ricaduta sulla vendita dei loro prodotti.
Nodi da sciogliere per il
futuro dei giornali, destinato ad essere segnato sempre più da
questo complesso rapporto tra informazione e pubblicità.
E sul quale, oggi,
nessuno può seriamente dirsi sicuro che sarà possibile trovare un
punto di equilibrio tra le diverse esigenze delle varie parti
coinvolte: gli editori, i brand e, soprattutto, i lettori.
Pagina 99, 16 aprile 2016
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