"La nostra storia
non è mai finita", ha scritto Franco Fortini nel 1957, nella
risposta a una "polemica in versi" di Pier Paolo Pasolini.
Se "la nostra storia non è mai finita", tanto meno può
finire qui quella del bastian contrario Franco Lattes.
Carattere aspro,
testardo, contraddittorio e viscerale, moralista, imprevedibile,
resterà insostituibile critico del nostro tempo. Convinto che
"finché i cosiddetti "intellettuali" esistono devono
"giudicare", lascia forse questo compito come principale
eredità.
Era toscano,
naturalmente. Nasce a Firenze nel 1917 da padre israelita (il cognome
Fortini, che assumerà nel 1940, è quello della madre). A Firenze,
dove si laurea in Giurisprudenza, frequenta, più che l'ambiente
ermetico, Giacomo Noventa e la rivista "Riforma letteraria",
con ciò mostrando, già allora, la propria indole anticonformista.
Di Noventa, che considerò sempre uno dei suoi maestri, l'attrasse la
singolarissima sintesi di cattolicesimo, liberalismo e socialismo. Ma
presto viene la chiamata alle armi e, nel settembre 1943, la fuga da
Milano in Svizzera, dopo essersi battezzato come valdese. A Zurigo
rimarrà venti mesi, salvo una breve parentesi per partecipare alle
ultime vicende della Repubblica partigiana dell'Ossola. Poi, l'Italia
che conosciamo.
Biografia complessa, la
sua, fuori da ogni schema, da ogni moda. A Milano, dove ha abitato
per quasi cinquant'anni, si iscrisse al Partito socialista (che
abbandonerà nel 1957), fu redattore del "Politecnico", poi
di "Officina" e dell' "Avanti!" e, negli anni '
60 e ' 70, collaboratore assiduo dei "Quaderni Rossi" e dei
"Quaderni Piacentini". Dopo un impiego come funzionario
della Olivetti, nel 64 cominciò a insegnare nelle scuole secondarie
e solo più tardi accederà alla carriera universitaria, come
professore di Storia della critica a Siena. Poeta, traduttore
(Proust, Eluard, Brecht, Goethe, Kafka), saggista, critico,
giornalista, consulente editoriale, ma anche militante insofferente
nell'area della sinistra non ufficiale, revisore severo del marxismo.
Ostile alla logica burocratica dei partiti, vicino alle rivolte
giovanili del ' 68 e al modello cinese, Fortini vivrà con rabbia le
contraddizioni della sinistra italiana negli anni del neocapitalismo.
La sua utopia, orientata quasi per vocazione, come ha scritto Romano
Luperini, "non già ad attenuare la contraddizione ma ad
esasperarla", si sposerà con il "pensiero negativo"
della Scuola di Francoforte.
Convinto fautore del
confronto dialettico, si mantenne sempre sulle barricate, coltivando
un narcisismo che a troppi non piaceva. Molti scontri, come quelli
che lo opposero ben presto all'amico Pasolini. Si ricorderà , per
esempio, il feroce carteggio della fine degli anni Cinquanta. Senza
esclusione di colpi. Scriverà Pasolini, nel culmine della polemica:
"Caro Fortini, tu sei veramente prevenuto contro di me,
esattamente come è prevenuto un borghese benpensante che crede che
gli invertiti siamo dei mostri, dei misteri che sfuggano agli schemi
e ai valori della vita umana e istituita...". L'accusa era
durissima: l'ideologia, lo snobismo intellettuale. Caro Fortini,
tuonava ancora Pier Paolo, "sei sordo, cieco, tappato in casa,
con un'idea tutta ideologica degli operai e in genere del mondo, stai
a fare il giudice di coloro che si spendono, e, spendendosi,
sbagliano, eccome sbagliano". E nel ' 68, Fortini non esiterà a
scagliarsi, a sua volta, contro l' amico: "Con l'impeto della
tua genialità si possono fare molte e bellissime cose. Ma non si può
fare quella sola che permette di uscire dall'estetismo verso la
storia e la politica: la rinuncia reale, non verbale, al monologo e
ai piaceri del narcisismo". Era un conflitto che dalla politica
entrava nel vivo della letteratura e della sua funzione sociale: per
Pasolini "attività di denuncia e di testimonianza", per
Fortini "sublime lingua borghese". Pier Paolo? Grande
poeta, ma insopportabile moralista, per lui.
Una capra ostinata, l'ha
definito Rossana Rossanda. "Poeta sempre politico - ha scritto
Pier Vincenzo Mengaldo - anche quando parla di alberi e di nidi",
perché "Fortini ha avuto l' intelligenza di sfruttare appunto
in direzione mediatamente politica la stessa autonomia e specificità
del discorso poetico", là dove "s'annidano le sacche di
resistenza del soggetto individuale e si tenta di rovesciare
profeticamente il presente in utopia". La sintassi non cambia la
società, sosteneva Fortini quando gli si chiedeva la sua opinione
sulla neoavanguardia italiana. Era contro tutti: non gli piaceva
l'ideologia del consenso e il Gruppo 63, disse, finì per coincidere
con essa. Del resto, in quegli anni Fortini denunciava gli
intellettuali italiani come "lavoratori salariati"
dell'industria culturale. E li invitava a "preservare le residue
capacità rivoluzionarie del linguaggio".
"In questo periodo
della mia vita - spiegò qualche anno fa - ho la tendenza a limitarmi
a discorsi di tipo spettrale. Cerco di esserci e di non esserci nello
stesso tempo". Ma Fortini c'era, eccome. Nonostante la malattia,
c'è sempre stato, accompagnato da quel suo senso profondamente
tragico della storia, non privo di componenti trascendenti. C'era chi
ne detestava, indubbiamente, il caratteraccio che spesso si esprimeva
con toni vaticinanti. Perché , come diceva Antonio Porta, il suo
merito maggiore era la continua "volontà di verità". A 47
anni fu licenziato quasi contemporaneamente dalla Olivetti e da
Einaudi. Ricordava di avere debiti e una figlia piccolissima. Qualche
anno dopo gli verrà chiesta dal "manifesto" una recensione
ai diari di Giaime Pintor: e lui, Fortini, sparò una critica
impietosa. La recensione non uscirà e ne verrà fuori una polemica
interminabile. Anche il "Corriere", che dopo la P2
difendeva l'indipendenza, ebbe le sue gatte da pelare. Il 26 dicembre
1981, nella sua rubrica "Questioni di frontiera", si
chiedeva: "E possibile scrivere sul "Corriere" come se
al "Corriere" non fosse accaduto nulla? Come se le voci sui
mutamenti nell'assetto proprietario, i licenziamenti, i passaggi di
uomini e poteri dovessero toccare solo i lavoratori delle aziende e i
giornalisti e non anche i cosiddetti collaboratori esterni?".
Una volontà cocciuta di verità, quindi, come extrema ratio.
"Il nostro errore - ha scritto - è nato dalla scoperta di una
verità : che i nostri atti sono responsabili, che gli altri sono
quel che noi siamo e noi quel che sono i nostri vicini". Questo
ci dice, Fortini.
Corriere della Sera, 29 novembre 1994
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