18.5.16

Franco Fortini. La poesia sulle barricate (Paolo Di Stefano)

"La nostra storia non è mai finita", ha scritto Franco Fortini nel 1957, nella risposta a una "polemica in versi" di Pier Paolo Pasolini. Se "la nostra storia non è mai finita", tanto meno può finire qui quella del bastian contrario Franco Lattes.
Carattere aspro, testardo, contraddittorio e viscerale, moralista, imprevedibile, resterà insostituibile critico del nostro tempo. Convinto che "finché i cosiddetti "intellettuali" esistono devono "giudicare", lascia forse questo compito come principale eredità.
Era toscano, naturalmente. Nasce a Firenze nel 1917 da padre israelita (il cognome Fortini, che assumerà nel 1940, è quello della madre). A Firenze, dove si laurea in Giurisprudenza, frequenta, più che l'ambiente ermetico, Giacomo Noventa e la rivista "Riforma letteraria", con ciò mostrando, già allora, la propria indole anticonformista. Di Noventa, che considerò sempre uno dei suoi maestri, l'attrasse la singolarissima sintesi di cattolicesimo, liberalismo e socialismo. Ma presto viene la chiamata alle armi e, nel settembre 1943, la fuga da Milano in Svizzera, dopo essersi battezzato come valdese. A Zurigo rimarrà venti mesi, salvo una breve parentesi per partecipare alle ultime vicende della Repubblica partigiana dell'Ossola. Poi, l'Italia che conosciamo.
Biografia complessa, la sua, fuori da ogni schema, da ogni moda. A Milano, dove ha abitato per quasi cinquant'anni, si iscrisse al Partito socialista (che abbandonerà nel 1957), fu redattore del "Politecnico", poi di "Officina" e dell' "Avanti!" e, negli anni ' 60 e ' 70, collaboratore assiduo dei "Quaderni Rossi" e dei "Quaderni Piacentini". Dopo un impiego come funzionario della Olivetti, nel 64 cominciò a insegnare nelle scuole secondarie e solo più tardi accederà alla carriera universitaria, come professore di Storia della critica a Siena. Poeta, traduttore (Proust, Eluard, Brecht, Goethe, Kafka), saggista, critico, giornalista, consulente editoriale, ma anche militante insofferente nell'area della sinistra non ufficiale, revisore severo del marxismo. Ostile alla logica burocratica dei partiti, vicino alle rivolte giovanili del ' 68 e al modello cinese, Fortini vivrà con rabbia le contraddizioni della sinistra italiana negli anni del neocapitalismo. La sua utopia, orientata quasi per vocazione, come ha scritto Romano Luperini, "non già ad attenuare la contraddizione ma ad esasperarla", si sposerà con il "pensiero negativo" della Scuola di Francoforte.
Convinto fautore del confronto dialettico, si mantenne sempre sulle barricate, coltivando un narcisismo che a troppi non piaceva. Molti scontri, come quelli che lo opposero ben presto all'amico Pasolini. Si ricorderà , per esempio, il feroce carteggio della fine degli anni Cinquanta. Senza esclusione di colpi. Scriverà Pasolini, nel culmine della polemica: "Caro Fortini, tu sei veramente prevenuto contro di me, esattamente come è prevenuto un borghese benpensante che crede che gli invertiti siamo dei mostri, dei misteri che sfuggano agli schemi e ai valori della vita umana e istituita...". L'accusa era durissima: l'ideologia, lo snobismo intellettuale. Caro Fortini, tuonava ancora Pier Paolo, "sei sordo, cieco, tappato in casa, con un'idea tutta ideologica degli operai e in genere del mondo, stai a fare il giudice di coloro che si spendono, e, spendendosi, sbagliano, eccome sbagliano". E nel ' 68, Fortini non esiterà a scagliarsi, a sua volta, contro l' amico: "Con l'impeto della tua genialità si possono fare molte e bellissime cose. Ma non si può fare quella sola che permette di uscire dall'estetismo verso la storia e la politica: la rinuncia reale, non verbale, al monologo e ai piaceri del narcisismo". Era un conflitto che dalla politica entrava nel vivo della letteratura e della sua funzione sociale: per Pasolini "attività di denuncia e di testimonianza", per Fortini "sublime lingua borghese". Pier Paolo? Grande poeta, ma insopportabile moralista, per lui.
Una capra ostinata, l'ha definito Rossana Rossanda. "Poeta sempre politico - ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo - anche quando parla di alberi e di nidi", perché "Fortini ha avuto l' intelligenza di sfruttare appunto in direzione mediatamente politica la stessa autonomia e specificità del discorso poetico", là dove "s'annidano le sacche di resistenza del soggetto individuale e si tenta di rovesciare profeticamente il presente in utopia". La sintassi non cambia la società, sosteneva Fortini quando gli si chiedeva la sua opinione sulla neoavanguardia italiana. Era contro tutti: non gli piaceva l'ideologia del consenso e il Gruppo 63, disse, finì per coincidere con essa. Del resto, in quegli anni Fortini denunciava gli intellettuali italiani come "lavoratori salariati" dell'industria culturale. E li invitava a "preservare le residue capacità rivoluzionarie del linguaggio".

"In questo periodo della mia vita - spiegò qualche anno fa - ho la tendenza a limitarmi a discorsi di tipo spettrale. Cerco di esserci e di non esserci nello stesso tempo". Ma Fortini c'era, eccome. Nonostante la malattia, c'è sempre stato, accompagnato da quel suo senso profondamente tragico della storia, non privo di componenti trascendenti. C'era chi ne detestava, indubbiamente, il caratteraccio che spesso si esprimeva con toni vaticinanti. Perché , come diceva Antonio Porta, il suo merito maggiore era la continua "volontà di verità". A 47 anni fu licenziato quasi contemporaneamente dalla Olivetti e da Einaudi. Ricordava di avere debiti e una figlia piccolissima. Qualche anno dopo gli verrà chiesta dal "manifesto" una recensione ai diari di Giaime Pintor: e lui, Fortini, sparò una critica impietosa. La recensione non uscirà e ne verrà fuori una polemica interminabile. Anche il "Corriere", che dopo la P2 difendeva l'indipendenza, ebbe le sue gatte da pelare. Il 26 dicembre 1981, nella sua rubrica "Questioni di frontiera", si chiedeva: "E possibile scrivere sul "Corriere" come se al "Corriere" non fosse accaduto nulla? Come se le voci sui mutamenti nell'assetto proprietario, i licenziamenti, i passaggi di uomini e poteri dovessero toccare solo i lavoratori delle aziende e i giornalisti e non anche i cosiddetti collaboratori esterni?". Una volontà cocciuta di verità, quindi, come extrema ratio. "Il nostro errore - ha scritto - è nato dalla scoperta di una verità : che i nostri atti sono responsabili, che gli altri sono quel che noi siamo e noi quel che sono i nostri vicini". Questo ci dice, Fortini.

Corriere della Sera, 29 novembre 1994  

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