4.5.16

Elezioni Usa. Il complesso militare-industriale foraggia i democratici (Maria Teresa Cometto)

New York - «Donald Trump potrebbe essere il peggior incubo del complesso industriale-militare». Così ha titolato il giornale americano di sinistra “The Nation” dopo l’intervista al quotidiano “The Washington Post” in cui il candidato repubblicano ha spiegato la sua politica estera in termini di abbandono del ruolo di “poliziotto del mondo” da parte dell’America.
Forse per questo l’industria della Difesa, tradizionalmente schierata con il Gop (Grand old party, il partito Repubblicano), in questa campagna presidenziale sta invece facendo il tifo per i Democratici. Lo ha rivelato un’analisi del Center for public integrity (Cpi), un’organizzazione non partisan di giornalismo investigativo fra le più vecchie e più grandi negli Stati Uniti. Il Cpi ha studiato i dati della Commissione federale sulle elezioni Usa che riguardano le donazioni ai candidati da parte degli individui: nei 14 mesi dal gennaio 2015 a fine febbraio 2016 gli impiegati delle 50 maggiori imprese che lavorano per il ministero della Difesa americano (Department of defense, Dod) hanno versato almeno 765.049 dollari nelle casse delle campagne di Hillary Clinton e Bernie Sanders, più del doppio dei 357.775 dollari devoluti a favore dei tre rimanenti candidati Repubblicani, Donald Trump, Ted Cruz e John Kasich.
Il bottino più ricco l’ha incassato la Clinton: 454.994 dollari. Ma anche il senatore socialista del Vermont, Sanders, non scherza con i 310.055 dollari ricevuti dai dipendenti del settore della difesa, una cifra superiore a quella di ognuno dei tre Gop rimasti.
Bisogna precisare che i contributi elettorali individuali sono molto limitati dalla legge americana: i singoli elettori possono dare al massimo 5.400 dollari direttamente a un candidato per elezione, oltre alle donazioni verso i Pac (Political action committee). Alle aziende è vietato supportare direttamente i singoli candidati, ma possono organizzare Pac che ricevono i contributi dei propri dipendenti; possono inoltre versare cifre illimitate ai cosiddetti Super Pac, in teoria “indipendenti” dai candidati.
Grazie a tutte le informazioni raccolte dalla Commissione federale sulle elezioni, il meccanismo americano del finanziamento delle campagne è quindi piuttosto trasparente. Permette anche di individuare eventuali tentativi delle aziende di organizzare i dipendenti a favore dei candidati su cui intendono fare lobbismo per il proprio business.
L’impresa che ama di più la Clinton, secondo la ricerca del Cpi, è General electric (Ge), che fabbrica i motori di molti aerei militari e che nel 2013 e 2014 ha ottenuto dal Dod contratti per 2,3 miliardi di dollari nel 2013 e 2,2 miliardi nel 2014: finora i suoi dipendenti hanno donato 56.478 dollari alla campagna dell’ex Segretario di Stato e della ex senatrice, che dal 2003 al 2008 aveva anche fatto parte della Commissione del Senato sui servizi delle forze armate. Dai dipendenti del colosso dell’aerospazio Boeing sono arrivati altri 34.545 dollari e 28.623 da quelli della Lockheed Martin, l’azienda che fa più affari con il Pentagono. Non è chiaro se i singoli finanziatori «votino con il portafoglio» o con il cuore, cioè se hanno scelto la Clinton per difendere meglio il posto di lavoro, scommettendo che sarà lei a vincere la corsa alla Casa Bianca e quindi è saggio tenersela buona, o se invece la scelta è puramente politica e personale, come suggeriscono i portavoce di Ge.
La stessa candidata non ha finora espresso posizioni precise su che cosa intenda fare con il budget del Pentagono, dopo che il presidente Barack Obama ha richiesto un aumento di 2,4 miliardi di dollari della spesa per la difesa sul bilancio federale del 2017. In generale la Clinton ha detto di essere contraria ai tagli permanenti della spesa pubblica, compresa quella per la difesa, imposti dai limiti al deficit federale. E per accattivarsi l’elettorato pro-Israele ha detto di essere a favore della vendita dei nuovi caccia F-35 a Gerusalemme. A proposito degli F-35, il cui programma è il più costoso (400 miliardi di dollari) della storia militare nel mondo, il candidato che l’ha sostenuto di più è stato Sanders, perché la Lockheed prima ha fabbricato i caccia nel suo stato del Vermont e ora ce li manda a stazionare nell’aeroporto di Burlington, a disposizione della guardia nazionale locale. Il business è business anche per il senatore socialista, che ci tiene al benessere del suo collegio elettorale e che finora ha ricevuto contributi per 36.624 dollari dai dipendenti della Lockheed Martin e 45.652 da quelli della Boeing, più di quanto la sua rivale Clinton abbia incassato da questi due gruppi di lavoratori. Però a parte gli interessi locali, Sanders è a favore di «tagli giudiziosi» della spesa militare, anche per combattere «le massicce frodi diffuse nel settore della difesa».
Fra i Repubblicani, è Ted Cruz il più convinto paladino del Pentagono: ha attaccato Obama per aver «indebolito e degradato le forze armate americane» e vuole aumentare di 135 miliardi di dollari le spese militari oltre al budget proposto dall’attuale presidente. È con Cruz che i dipendenti di Lockheed Martin sono stati più generosi, donando 44.958 dollari, più che a qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca.
Trump invece è una storia a parte, autofinanziandosi la campagna. Ed è difficile capire che cosa pensa davvero, dicendo tutto e il contrario di tutto. Con Bob Woodward si è lamentato che l’esercito Usa è ridotto allo stremo per tutti i tagli subiti. Ma difficilmente potrebbe essere un beniamino dell’industria della difesa, secondo “The Nation”, viste le posizioni «eretiche» che ha espresso e che lo accomunano sia alla sinistra sia ai libertari Repubblicani. Con 19 mila miliardi di dollari di debito pubblico gli Stati uniti non possono più permettersi di pagare anche per la difesa dei loro alleati, ha detto Trump. E ha promesso che chiederà a Paesi come la Corea del Sud, l’Arabia Saudita, il Giappone, la Germania e in generale l’Europa di fare la loro parte, mentre lui penserà innanzitutto agli interessi dell’America e a farla «tornare grande», come ripete a tamburo battente il suo slogan elettorale.


Pagina 99, 9 aprile 2016

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