Recensione
di una mostra dello scorso anno questa corrispondenza parigina di uno
storico di valore è anche la confessione di una difficoltà a
collocarsi nell'oggi e a scegliere le domande che dall'oggi occorre
rivolgere al passato. (S.L.L.)
La
prima volta, in dicembre, c’ero andato da storico. Sfavillante
delle luci di una vigilia natalizia, Parigi sembrava invitare ad
altro sia i parigini stessi, eternamente frettolosi, sia i turisti
più o meno sfaccendati. Shopping a parte, anche lì, nel Marais,
sembrava esserci di meglio da fare – per chi non fa lo storico di
mestiere – che infilarsi nel cortile delle vecchie Archives
Nationales. A cominciare da un Musée Picasso
finalmente riaperto. Mentre salivo lo scalone dell’Hôtel de
Soubise per visitare la mostra su «La Collaboration
1940-1945», avevo la sensazione
di non fare altro che qualcosa di professionale, quasi di tecnico. La
solita mostra documentaria, la solita polvere del tempo.
Mi
ero soffermato su certe cose, avevo sorvolato su altre. Mi avevano
particolarmente colpito le pagine spiegazzate degli elenchi stilati
con zelo, nell’ottobre 1940, dai funzionari della Préfecture
de Police di Parigi: il
censimento sistematico – strada per strada, casa per casa, abitante
per abitante – di tutti i «juifs»
residenti a quella data nella capitale e dintorni. In pratica, il
lavoro preparatorio per la caccia all’ebreo che si sarebbe aperta
quindici mesi più tardi. Sgualcite dall’uso e ingiallite dal
tempo, le Pages Blanches
di uno sterminio ordinato dai tedeschi, ma organizzato dai francesi.
La
mostra (che resterà aperta fino al 5 aprile) espone i materiali più
vari, dalle carte di polizia ai manifesti di propaganda, dalle
fotografie ufficiali ai manoscritti letterari. Il più notevole di
questi ultimi consiste in due pagine di Céline, la versione
autografa del pamphlet Les beaux draps.
Io mi ero chinato su quelle due pagine, nella vetrina, con il
consueto disagio di chi scopre gli orrori di stampa dell’antisemita
più talentuoso d’Europa: con la nausea dell’ammiratore
disgustato. Né la nausea era scomparsa quando mi ero chinato sulla
vetrina accanto: le amatissime copertine bianche di Gallimard, il
venerato logo in corsivo minuscolo, nrf,
ma in alto, come autore di quel libro, il nome di Drieu La Rochelle.
L’editore opportunista e il collaboratore collaborazionista.
Oggi
– due mesi e mezzo dopo – all’Hôtel de Soubise voglio
ritornare non più da storico, ma da cittadino (italiano o francese,
poco importa: diciamo da cittadino europeo). Voglio visitare la
mostra sulla «Collaboration»
con gli occhi di chi ha visto, nel frattempo, cose che non avrebbe
immaginato di vedere nel suo Paese d’adozione, la proverbiale
Francia della Rivoluzione e dei Diritti dell’Uomo. Non soltanto le
immagini di due incappucciati nerovestiti che risalgono in macchina,
urlando, un momento dopo avere vendicato Maometto e un momento prima
di freddare, per strada, un poliziotto di nome Ahmed. Né soltanto le
immagini dei clienti di un supermercato kosher,
uomini e donne con bambini in braccio che fuggono terrorizzati nel
pomeriggio di un giorno da cani.
Pochi
giorni fa ho visto altro ancora. Immagini meno drammatiche, e
nondimeno inquietanti. Ho visto il video di un reporter israeliano
che ha camminato dalla mattina alla sera, con una kippah
in testa, per le strade del centro e della periferia di Parigi:
nient’altro che camminato, dritto davanti a sé, senza far nulla
per attirare l’attenzione. E che tuttavia ha raccolto, per
reazione, una quantità di sguardi ostili, gesti aggressivi, commenti
volgari. Indici puntati contro il «sale juif»,
lo sporco ebreo.
Sputi
addosso. «Questo qui è venuto per farsi fottere». Ho visto anche,
nei giorni scorsi, le fotografie delle tombe profanate di un cimitero
ebraico d’Alsazia. Una cittadina tranquilla, un paesaggio
incantevole all’intorno, e nel campo israelitico decine e decine di
sepolcri divelti, vandalizzati, distrutti. I responsabili? Quattro
ragazzi del posto, incensurati, fra i quindici e i diciassette anni.
Come a dire che potrebbero essere i compagni di scuola dei miei
figli.
Sì,
ritornando alle Archives Nationales,
voglio guardare con occhi diversi la mostra parigina sulla
«Collaboration». E
voglio farlo pur sapendo che i tempi della storia non vanno mai
confusi. Sapendo che l’anacronismo è anzi il peccato mortale dello
storico, e che sarebbe improprio per tutti (storici o cittadini)
assimilare questo nostro tempo agli anni Quaranta del Novecento. Ma
oggi non mi interessa – al limite – la disumana eccezionalità di
quei tempi di ferro e di sangue, 1940-1945, la Seconda guerra
mondiale, l’Occupazione, la Soluzione finale. Oggi mi interessa
l’umana banalità dei meccanismi di difesa e di offesa sociale. Mi
interessano il sentimento di appartenenza, la diffidenza verso
l’“altro”, la tentazione del capro espiatorio.
Fanno
impressione, è chiaro, le fotografie più tragiche della mostra. La
foto dei pullman in coda il 16 luglio 1942, quell’unica foto
esistente della retata del Vél d’Hiv,
13.152 ebrei da deportare tutti in una volta. Le foto degli ebrei
stranieri internati nei campi della Zona Sud e adesso pronti a
partire, in fila indiana, per Drancy e poi per Auschwitz. Ma non sono
meno impressionanti, a ben guardare, altri documenti esposti alle
Archives Nationales.
Certe lettere anonime, per esempio.
Delazioni
spicciole. Pedinate quello, controllate quell’altro, arrestate
quell’altro ancora. Regolamenti di conti da vicini di casa (o da
amanti delusi, o da concorrenti commerciali) bardati di patriottiche
accuse contro gli ebrei o contro i massoni, contro i comunisti o
contro gli stranieri.
Nella
Francia del 2015 – dove il Front National
prevede ragionevolmente di vincere le elezioni dipartimentali di fine
marzo – quanto più colpisce della mostra sulla «Collaboration»
è la forza sempreverde di una doppia retorica: la retorica una e
bina dell’inclusione e dell’esclusione. Noi e loro. Ecco la
famosa «Affiche rouge»,
il manifesto stampato nella Parigi tedesca del febbraio 1944 contro i
combattenti partigiani della Main-d’Oeuvre Immigrée.
Che cos’hanno in comune i dieci resistenti più ricercati della
regione parigina (e infine catturati, e condannati a morte)? Sono
tutti stranieri. Quattro ebrei polacchi, tre ebrei ungheresi, un
«comunista italiano», uno «spagnolo rosso», il «capobanda
armeno». Nessuno è francese, nessuno è dei nostri. Sono tutti
alieni. Hanno combinato tutto fra loro. [Erano militanti della IV
Internazionale, nota nostra]
Se
una retorica dell’esclusione può apparire spesso così primaria da
riuscire ingenua, una retorica dell’inclusione può risultare
altrimenti sofisticata. Ecco, alla mostra, la foto di un elegante
palazzo parigino della Rive droite
e un cartellone che troneggia al quarto piano, davanti alle finestre
d’angolo: «Vogliamo la Francia unita in un’Europa unita!». La
Francia unita in un’Europa unita?
Al
pianterreno del palazzo, una gigantografia del maresciallo Pétain
illustra di quale Francia e di quale Europa si tratti. Perché nel
1940 come nel 2015 le parole degli slogan europeisti suonano bene, ma
non bastano a dire tutto. In fondo, sarebbe stata un’Europa unita
anche quella della pax hitleriana.
Voglio
tornare all’Hôtel de Soubise, ma non sono sicuro che rivedere la
mostra servirà davvero a chiarirmi le idee. Da un lato, so di
detestare l’appello che Benjamin Netanyahu lancia continuamente, da
Israele, a tutti gli ebrei di Francia: venite qui, vi aspettiamo, è
questa la vostra patria. Dall’altro lato, sento che non deve
smettere di parlarci la storia della Terza Repubblica francese
naufragata tra le acque di Vichy: una storia fatta – anche quella –
di crisi economica, disoccupazione di massa, sgretolamento dei valori
democratici, stigmatizzazione del diverso da sé, fascino dei leader
populisti.
Né
deve smettere di parlarci la storia (precedente, e meno nota) della
«destra rivoluzionaria» in Francia: la cultura politica che iniettò
all’Europa – oltre un secolo fa, e prima ancora di Benito
Mussolini – il bacillo dell’ideologia fascista. Quella strana
miscela di destra e di sinistra, di disciplina e di rivolta, di
ruralismo e di operaismo, di frustrazione e di fierezza, di crociata
e di laicità, che nella Francia di oggi viene quotidianamente
impastata da una signora che tutti, ormai, chiamano familiarmente
«Marine».
Il
Sole 24 Ore Domenica, 1° marzo 2015
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