Dal sito de “Il Ponte”,
la rivista fondata da Piero Calamandrei, oggi diretta da Marcello
Rossi, riprendo il post che segue, di Rino Genovese. Le indicazioni
che contiene, mi pare, vanno molto oltre la vicenda brasiliana.
(S.L.L.)
L’esperienza
socialdemocratica brasiliana appare arrivata al capolinea. Il ciclo
iniziato con la presidenza Lula nel 2003, durato all’incirca un
decennio – quando il Brasile era sostenuto da una crescita
impetuosa e quindi una ridistribuzione del reddito, con la
conseguente estensione dei diritti sociali, era nelle cose –, è
terminato in una recessione economica, dovuta in larga misura alla
caduta sui mercati internazionali del prezzo del petrolio, e in una
campagna intorno alla corruzione strumentalizzata dalla destra. La
presidenta Dilma Rousseff è oggi sull’orlo di una destituzione le
cui motivazioni sono pretestuose, e che tuttavia è l’indice di una
notevole perdita di credibilità da parte del Partito dei lavoratori.
Al di là di questo nodo
istituzionale, però, una riflessione più ampia va sviluppata:
accade oggi in Brasile ciò che, sia pure in un arco di tempo più
lungo e con tutte le differenze del caso, è già avvenuto in Europa.
La ridistribuzione del reddito, che in Brasile ha fatto uscire dalla
povertà una ventina di milioni di persone creando per la prima volta
in quel paese un ampio settore di “classe media”, si morde la
coda.
È un paradosso – ma è
la realtà: sono le stesse politiche sociali, apprezzate da molti nei
periodi di vacche grasse, che diventano indigeste (in certi casi
perfino a quegli stessi che ne sono stati i beneficiari) nei periodi
di vacche magre. Il riflesso condizionato, come sappiamo, è
l’austerità neoliberista. “Si salvi chi può”, questo lo
slogan che riprende quota dopo una fase di forte ridistribuzione del
reddito. La tendenza è a chiudersi nel proprio “particulare”:
ritornano in auge forme d’individualismo atomistico dopo un momento
che era parso aprire all’individualismo sociale (quello che punta,
per fare un esempio, sul soddisfacimento dei bisogni collettivi
anziché sullo sviluppo di consumi puramente privati).
Per la sinistra sarebbe
allora il momento di rilanciare un progetto socialista di progressiva
fuoriuscita dal capitalismo. È dalle stesse difficoltà in cui si
caccia la politica socialdemocratica (i cui risultati non vanno
comunque sottovalutati) che nasce la necessità dell’oltre. In
sostanza, o la sinistra si arrende, dando anche sul piano ideologico
campo libero alla destra – cominciando magari a praticare da sé
quella riduzione della spesa pubblica e quelle privatizzazioni che
sono il succo del credo neoliberista –, oppure si muove nella
direzione di una ridistribuzione del potere, non più esclusivamente
del reddito, che mescolando democrazia rappresentativa e democrazia
diretta (in particolare nei luoghi di lavoro) prospetti un nuovo
modello di società.
È una scommessa a cui in
Europa, nel Novecento, ci si è sottratti. L’unico leader
socialdemocratico che avesse chiara la questione, lo svedese Olof
Palme, era consapevole del fatto che si trattava d’introdurre nella
politica di ridistribuzione del reddito un elemento utopico. Nella
sua visione – naturalmente, soltanto una delle scelte prospettabili
in questo campo – si sarebbe trattato d’imporre per legge agli
imprenditori di reinvestire la maggior parte dei profitti in attività
produttive, sotto il controllo di comitati dei lavoratori, evitando
così l’accumulazione privata della ricchezza. Di una proposta del
genere avrebbe oggi bisogno la sinistra in Brasile: altro che stare a
lamentarsi, in maniera puramente difensiva, di un “golpe
istituzionale”. In fondo per che cosa è nato il socialismo, ormai
quasi due secoli fa, se non per tentare di rendere concreta l’utopia?
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