Una bella intervista a
Luciana Castellina sul Pci e l'amore, molto laica. C'è un passaggio
poco convincente, se non altro nei tempi; ma non so dire se la cosa
sia attribuibile a castellina o frutto di una imperfetta sintesi
giornalistica. Il richiamo positivo di Enrico Berlinguer a Santa
Maria Goretti risale alla fine degli anni Quaranta, quando costui
dirigeva la Federazione Giovanile Comunista e gli capitò di proporre
come esempio di resistenza al male la ragazza (poi santificata) che
non volle cedere allo stupratore accanto a Eugenio Curiel ucciso dai
nazisti. Negli anni successivi (c'è – anche in questo blog – una
sua conversazione con le ragazze comuniste, polemica contro il
bacchettonismo, credo del 1953) ebbe modo di ridimensionare il senso
di quell'affermazione. (S.L.L.)
Luciana Castellina è una
donna che ha fatto palpitare molti cuori. Bellissima, seducente,
colta e, naturalmente, comunista. L' anno scorso per Nottetempo uscì
La scoperta del mondo, un piccolo libro autobiografico, dove
raccontava parte della sua formazione comunista. Ma tutto sul filo
della memoria, dell' ironia, di quella grazia che quando si declina
al femminile, è un valore aggiunto. Ci incontriamo nella sua bella e
ospitale casa romana.
Come eravate voi del
Pci nei rapporti d' amore?
«La responsabilità e il
decoro, che il partito esigeva, dovevano convivere con le passioni
sentimentali che a volte potevano essere travolgenti. Non era facile
tenere sotto controllo una situazione antropologicamente chiara ma
politicamente condizionante. In fondo parlare d' amore è
complicato».
Perché?
«I comunisti preferivano
parlare della famiglia. L'amore è una nozione moderna che implica il
concetto di individuo. L'amore non esiste nel mondo rurale. E
l'antichità conosce l'eros ma non l'amore come lo intendiamo oggi.
L'amore è anche rischio, passione, principio di destabilizzazione.
Considerato una prerogativa "borghese"e per questo nel Pci
poteva essere visto con sospetto. Aggiunga che la gran parte dei due
milioni e passa di iscritti al partito erano contadini e cattolici e
avrà chiaro il quadro della situazione».
E tuttavia proprio i
vertici del partito non sempre davano il buon esempio.
«C'era un misto di
puritanesimo e di pratica non consonante, ma questo accade ovunque il
potere venga esercitato. Inoltre, caduto il fascismo, molti dirigenti
comunisti tornarono dalla galera, dal confino, dall'esilio. Erano più
vecchi di qualche anno, ma si sentivano eroi in grado di sedurre
giovani fanciulle. I più anziani erano i Longo, i Roasio, i
Togliatti. Tutti sposati, ma con delle mogli che appartenevano a un'
altra stagione della vita».
Scoppiano i primi
drammi familiari.
«Il caso più famoso
riguarda Teresa Noce, la moglie di Longo. Con lui fa una vita di
privazioni inaudite: l'esilio a Parigi, poi a Mosca, la guerra di
Spagna. Infine in Francia finisce catturata dai tedeschi che la
spediscono in Germania. E quando viene liberata dopo il 1945 scopre
due cose: che il mondo è cambiato e che Longo si è messo con un'
altra donna, una dirigente dell' Udi. Non reagì benissimo».
Anche Togliatti lasciò
la moglie, Rita Montagnana, per Nilde Jotti. Cosa lo spinse a questo
gesto?
«Togliatti si invaghì
della normalità di Nilde, bella signora emiliana che fece capire al
partito che si poteva indossare un bel vestito, andare dal
parrucchiere, portare dei gioielli conservando una certa diversità
comunista».
Come reagì il
partito?
«Male. La povera Nilde
le scontò tutte. Per tanto tempo la federazione torinese le impedì
di mettere piede in città, dove erano nati sia Togliatti che la
Montagnana. Lei era quella che le aveva rubato l'uomo, distolto il
grande leader dai suoi compiti naturali».
Questa coppia lei l'ha
conosciuta da vicino?
«Mi è capitato di
andare a cena a casa loro. Ricordo che a Togliatti piaceva che la
tavola fosse ben apparecchiata: aggiustava i fiori, allineava le
posate ed era soddisfatto del ruolo di Nilde, della sua normalità».
Quando dice
"normalità" intende borghese?
«Solo in parte. Intendo
che quella era per Togliatti una virtù politica. Il suo modo di
prendere atto che da lì in poi avrebbe parlato a una società
normale».
Non ritiene che la
rigida morale del partito dipendesse anche dal fatto che il Pci era
un organismo molto simile alla Chiesa?
«C'erano dei codici e
delle liturgie da rispettare».
Che ogni tanto
venivano trasgrediti soprattutto da intellettuali e artisti.
«Il loro era un mondo
separato. Anche se interessante. Quando conobbi il mio ex marito,
Alfredo Reichlin, che allora era all'Unità, frequentavamo sì gli
intellettuali, ma erano davvero un corpo secondario, rispetto al
partito».
Il che non impedì,
quando se ne scoprirono le inclinazioni sessuali, l' espulsione di
Pasolini per indegnità morale.
«Era il 1950. La
questione gay non era stata neppure lontanamente affrontata. C' era
stata una denuncia per atti osceni. E il partito reagì male, molto
più nel perbenismo dei vertici che in quello della base».
Non ha l' impressione
che gli amori comunisti a volte fossero frutto del privilegio?
«A volte sì. C' era chi
poteva permetterselo».
Guttuso non ha mai
sacrificato l'istinto del maschio siciliano.
«Sì, ma da un certo
momento in poi, agli artisti era concesso trasgredire. Mentre più
imbarazzante sarebbe stato per un dirigente politico. Non dimentichi
che il partito fino agli anni Ottanta conserverà una certa idea di
purezza. Il richiamo che Berlinguer farà a santa Maria Goretti, come
modello per la gioventù comunista, va in questa direzione».
Le sue radici,
Castellina, sono borghesi, non le ha mai pesato aver scelto il Pci?
«È la mia storia.
Quando sono entrata nel Pci mi sono autocriticata su tutto, rispetto
alla mia provenienza. Ho ridimensionato l'Io a favore del noi, del
comune».
Una grande
individualità fu Sibilla Aleramo. Come la giudica?
«Fu anche lei iscritta
al Pci. È stata un modello di libertà sessuale e di pensiero. In
qualche modo con lei riprendeva corpo la tradizione socialista di
Anna Kuliscioff, Alexandra Kollontai e in parte Tina Modotti».
A un certo punto ha
fatto un accenno al suo ex marito.
«Ci siamo sposati nel
1953 e separati nel 1958. Volendogli molto bene ho sofferto nel
lasciarlo. Ho impiegato anni a elaborare il distacco. Fu come
tagliarsi un braccio. E non per la causa che condividevamo ma per il
rapporto che avemmo. In ogni caso, siamo sempre restati amici».
I suoi rapporti con il
femminismo?
«Sono stati tardivi. Fui
educata alla scuola dell' emancipazione femminile per cui le donne
dovevano diventare come gli uomini. È stata mia figlia a rendermi
cosciente che il problema non è di somigliare agli uomini ma di far
valere la diversità delle donne».
Nel "manifesto"
lei e Rossana Rossanda avete rappresentato due modelli di
emancipazione. Che rapporti avete avuto?
«Intensi, lunghi e
importanti. È stata per me una maestra, non una collega. E poi siamo
diventate come due sorelle. Litigammo a lungo al tempo della rottura
fra il partito e il giornale. Ma il legame d' affetto ha avuto la
meglio: tra noi e con Lucio Magri».
Con Lucio lei ha avuto
una lunga storia d' amore.
«Siamo rimasti uniti per
quarant'anni. Per un lungo tratto fedeli e poi liberi di avere altre
storie, ma sempre stando insieme».
Un personaggio
singolare Magri: ricco di intuizioni.
«Aveva una grande
generosità intellettuale e acume, come dimostra la raccolta di suoi
saggi che sto curando per il Saggiatore. Ma al tempo stesso era
insopportabile per il suo integralismo. Detestava l'eclettismo».
Lei non lo ha
accompagnato in Svizzera per assisterlo nella sua decisione al
suicidio. Perché?
«Sarebbe stato
particolarmente difficile andare, perché fino all'ultimo ho
combattuto per impedirgli di farlo. E alla fine lui lo ha fatto di
nascosto. È partito senza dirmelo, altrimenti lo avrei dissuaso».
Meglio compagni,
mariti o amanti?
«Compagni è meglio.
L'amante può essere la storia di una sera. Compagno puoi esserlo per
la vita. E comunque meglio compagno che marito. Uno dà il senso di
scelta che l'altro non offre. E poi: mentre è difficile avere molti
mariti, è possibile avere molti compagni. Storicamente non è facile
essere monogami».
“la Repubblica”, 31
luglio 2012
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