Non ne posso più di
punture.
Lasciamo stare le
"normali" intramuscolari ed endovenose o quelle, oramai
anch'esse normali, dei prelievi di sangue per accertamenti
diagnostici, parlo di quelle "speciali", che per una
ragione o l'altra fanno impressione.
Ho cominciato da piccolo,
a sette anni, nel 1955. Mi fecero la "puntura lombare"
perché sospettavano una meningite "specifica". Ero un
bambinello, ma il mio mito era lo zio Gigi, paracadutista: volevo
comportarmi da "uomo vero", non mostrare paura e non
lasciarmi piegare dal dolore. Quando il dottore Ruggeri e il vecchio
dottore Sillitti mi conficcarono l'ago (non lo ricordo ma l'immagino
grosso) nella schiena, provai un dolore acuto e gridai "mamma".
O meglio gridai "maaaa". Avevo mostrato debolezza, ma
trovai un rimedio immediato, trasformai il grido di aiuto in canto:
"Maaaa-mma, solo per te la mia canzone vola". Erano le
parole di una celebre canzone che a me piaceva soprattutto
nell'interpretazione tenorile di Beniamino Gigli.
Nel 72 arrivò la
pleurite. Arrivò dopo che, alle elezioni, andai - da Gela - a votare
al mio paese natale, dove avevo la residenza, con la febbre alta
sotto una gran pioggia.
Non la curai bene: ero
ancora precario e non potevo superare un mese di malattia, pena la
perdita dell'incarico. Si formò un empiema, una sacca piena di
liquido purulento, e durante l'estate fui ricoverato al "Cervello",
l'ospedale reso famoso da Bufalino che vi ambientò la Diceria
dell'Untore. Era però meno di un tempo "sanatorio per
tisici" e sempre più "ospedale specializzato per le
malattie dell'apparato respiratorio".
Venti giorni.
Ne approfittai per
leggere integralmente il Furioso, e studiare meticolosamente
il Canzoniere di Petrarca e il Decameron. Franco Russo,
lo "zio Franco" (era zio di mia moglie), mi portava i
giornali, l'Unità, Rinascita, il Sicilia, l'Espresso; ma io li
trascuravo. Leggevo i classici e - nelle pause - mi dedicavo a studi
di retorica. Avevo come compagni di stanza un ragioner Cinque, di
Raffadali, integerrimo funzionario, moderato in politica ma grande
amico del suo sindaco, il glorioso compagno Di Benedetto e un vecchio
sottufficiale dell'esercito, un palermitano ottantino, anticomunista
ma pieno di racconti, tra cui - affascinante - quello della prigionia
nella Grande Guerra. Nella stanza degli infermieri, verso le sette di
sera, chiacchieravo per una mezz'oretta con una compagna
d'università, Maniscalco, ricoverata nel reparto "femminile".
Non mi lasciavo, però, troppo coinvolgere in queste pratiche di
socializzazione: più che altro studiavo; e tutti, inclusi i medici e
i portantini, mi chiamavano "professore" con una punta di
deferenza (e di ironia).
Non riuscirono a
guarirmi: fecero una diagnosi più accurata e svuotarono, per tre o
quattro volte, l'empiema. Mi dimisero con la convinzione che - molto
lentamente grazie ai farmaci – il liquido si sarebbe comunque
riformato e che, prima o poi, mi sarei dovuto operare, facendo
raschiare la pleura di quel maledetto polmone destro. Il che avvenne
quasi un anno dopo, e dopo periodiche punture e medicazioni
(bimestrali) per le quali impegnavo il sabato libero.
Il ricordo più
angoscioso di tutto quel periodo sono proprio le dolorose punture al
torace ("toracentesi"), con un ago bello grosso e con una
anestesia locale poco efficace. Svuotavano la sacca e medicavano con
un antibiotico, la rifampicina se non ricordo male. Legato alle
punture, ma più angoscioso ancora è il ricordo di un tal
Bonsignore, medico, un aiuto capace e brillante già con la libera
docenza (dunque "professore"), destinato a prendere presto
il posto del direttore Spina. Non credo che lo facesse apposta, ma mi
torturava: il giorno prima della toracentesi, prima ancora della
visita rituale, si affacciava sulla stanza a tre letti e, rivolto a
me, esclamava: "Professore, domani la pungo". Non contento
ripeteva lo stesso rito il mattino seguente: "più tardi la
pungo".
Ora mi pungono
nell'occhio, all'incirca ogni quattro mesi. Dopo l'esplosione di un
trombo nella vena centrale della retina destra, è rimasto un edema:
una sacca di liquido si forma e si riforma. Non solo vedo pochissimo
con quell'occhio, ma è disturbata la visione dell'altro, di quello
buono. Perciò mi pungono e mi iniettano un farmaco che prosciuga. Mi
controllano dopo un mese e mi trovano molto migliorato. Lo sono
veramente: vedo molto meglio e soprattutto non c'è la grande nuvola
che si muove. Mi controllano dopo due mesi e mi trovano nettamente
peggiorato. Lo sono veramente. Mi fissano l'iniezione dopo due o tre
settimane. Per un po' di tempo il medico che sovrintendeva ai
controlli è stato lo stesso che faceva le punture. Faceva come
Bonsignore, mi diceva: "Fra quindici giorni la pungo".
Aveva una buona mano, come ce l'ha la dottoressa che ha preso il suo
posto in sala operatoria. Adesso non usiamo più quella della
chirurgia oculistica; ne usiamo una "multispecialità", ma
in verità collegata alla clinica ostetrica. L'infermiere mi ha
negato che sia normalmente usata come sala parto: "La usano gli
ostetrici e i ginecologi, ma per altri interventi". Sospetto che
ci facciano gli aborti.
Sono tutti gentili e,
dopo quasi tre anni, abbiamo fatto amicizia. Ma io di punture non ne
posso più.
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