Alois Alzheimer |
Dal numero di febbraio di
“Le Monde diplomatique” riprendo un ampio articolo che denuncia
gli interessi crescenti intorno alla cosiddetta “malattia di
Alzheimer” e lascia intravedere alcune modalità di approccio non
corrive verso lo strapotere dell'industria farmaceutica. Ho eliminato
le note, inutili in un contesto genericamente informativo, anche per
facilitare una lettura non specialistica. (S.L.L.)
Il neurologo Jean-François Dartigues |
Il rapido incremento
delle diagnosi della malattia di Alzheimer rappresenta una sfida
inedita per l’umanità. Contando su un mercato potenziale
colossale, l’industria farmaceutica ricerca freneticamente - e fin
qui senza successo - un farmaco o un vaccino miracoloso. L’interesse
dei malati e dei loro cari invita tuttavia a ripensare le politiche
pubbliche e l’approccio terapeutico verso un’affezione ancora
poco conosciuta.
I laboratori al
comando
M. è arrivata al centro
ospedaliero di Marmande-Tonneins in sedia a rotelle. «A 78 anni, le
era stato diagnosticato l'Alzheimer da un neurologo, racconta sua
figlia. Prendeva tante medicine, aveva perso molto presto la propria
autonomia ed era molto agitata. Io mi sono sfinita per
aiutarla.»Allafinedeglianni2000, si è decisa a mettere la madre in
questa unità specializzata che accoglie per soggiorni di lunga
degenza pazienti che hanno raggiunto uno stadio molto grave della
malattia. «Qui ha benefìciato di compagnia e benevolenza. Passate
tre settimane, trottava e mangiava senza bisogno di aiuto.»
Geriatra e direttore di
questo reparto fino al 2011, il dottor François Bonnevay aveva
deciso di somministrare ai nuovi pazienti residenziali solo i farmaci
strettamente necessari tra quelli che erano stati loro prescritti
precedentemente, spesso troppo numerosi e con gravi effetti
collaterali. «Ci sono altri metodi oltre al contenimento
farmacologico per i pazienti irrequieti, spiega. Agli operatori
sanitari devono essere insegnate delle strategie di comunicazione che
permettano loro di essere in sintonia con i pazienti. Questi devono
essere considerati come esseri umani, con desideri ed emozioni.» La
priorità all'intemo dell’unità era rispettare il benessere e il
ritmo di vita dei degenti. Il personale veniva formato con la
metodologia Humanitude, una filosofia della cura elaborata e
insegnata da una coppia di psicogerontologi che «consente di far
sparire gran parte dei disturbi psicocomportamentali», racconta il
medico.
L’approccio benevolo
messo in pratica nel reparto del dottor Bonnevay si è tradotto, tra
il 2002 e il 2011, in una quasi totale scomparsa di pazienti
allettati, in una diminuzione delle perdite di peso, in un
rallentamento dei processi infettivi e in un’assenza di ricoveri
nel reparto di lunga degenza.
Questi risultati sono
stati raggiunti solo grazie all’abbondanza di personale. La
proporzione era di otto inservienti ogni dieci persone accolte.
Questo rapporto oggi è da considerarsi decisamente eccezionale:
«Nella maggior parte delle strutture residenziali per anziani
dipendenti [Ehpad] si accolgono sempre più degenti, tanto che il
rapporto risulta in media tra i tre e sei inservienti ogni dieci
residenti, constata il dottor Philippe Masquelier, coordinatore
medico di tre Ehpad nell’area urbana di Lille. Per ragioni
economiche, i mezzi vengono livellati verso il basso. Dal momento che
non esistono ancora farmaci efficaci, abbiamo bisogno soprattutto
della presenza umana; ed è proprio quella che manca!».
Nel 2006, il Piano
Solidarietà Vecchiaia presentato da Philippe Bas, ministro delegato
agli anziani, prevedeva di equiparare in cinque anni il personale
delle case di riposo e quello degli istituti per disabili,
raggiungendo così un rapporto di un professionista per ogni persona
residente. Questo obiettivo non è mai stato raggiunto e il Piano
Alzheimer 2008-2012 di Nicolas Sarkozy non l’ha ripreso.
«In gioco qui c’è
l’umanità della nostra società!», dichiarava Sarkozy il 10 marzo
del 2014 a Nizza, in occasione dell’inaugurazione dell’Institut
Claude-Pompidou (Icp), dedicato alla malattia di Alzheimer. La
cerimonia, molto mondana, è stata organizzata da Bernadette Chirac,
presidente della Fondazione Claude-Pompidou. L’edificio, di quattro
piani, si presenta come una residenza lussuosa e sicura e riunisce al
suo interno diverse strutture dedicate alla diagnosi, alla ricerca e
alla presa in carico delle persone colpite dal morbo a diversi stadi.
Siccome lo Stato non poteva finanziare da solo questo ambizioso
progetto a vocazione pubblica, il cui costo si aggirava intorno ai 22
milioni di euro, la Fondazione Claude-Pompidou ha fatto appello alla
generosità dei suoi amici: la miliardaria monegasca Lily Safra - il
cui ritratto troneggia nella hall -, la Fondazione
caritatevole Conny-Maeva, il gruppo Lvmh di Bernard Amault, lo
stilista Karl Lagerfeld. Durante la sua inaugurazione, l’Icp è
stato presentato come un modello vincente nella politica di contrasto
alla malattia di Alzheimer messa in atto dal presidente Sarkozy nel
suo quinquennio. Una volta tolte le paillettes,
tuttavia, l’istituto ha dovuto confrontarsi con una realtà molto
diversa.
«In sei
mesi ci sono stati cinque decessi tra i residenti! Le condizioni di
lavoro del personale erano così dure che le dimissioni si sono
moltiplicate», racconta Monique Dinelli, che è stata infermiera
nell’Ehpad dell’Icp gestito dalla Mutualità francese. Anche lei
si è dimessa dopo pochi mesi, denunciando l’incompetenza della
dirigenza e dei medici.
«L’apertura
è stata anticipata per motivi politici. Non era pronto niente!»
Danielle Maroselli ha messo il padre in questa struttura sin dalla
sua apertura; è morto tre mesi più tardi. «Non ho mai potuto
vedere i medici. Ho avuto l’impressione di essere ignorata ed
evitata con disprezzo.» Così ha contattato altre famiglie di
pazienti in conflitto con i responsabili dell’Ehpad. «Abbiamo
scritto alla direzione della Mutualità francese, alla signora Chirac
e al sindaco di Nizza per far presente quanto ci era capitato. Non
abbiamo ricevuto risposta!» Le famiglie hanno denunciato
l’insufficienza del personale, una serie di malfunzionamenti dalle
conseguenze a volte tragiche, i maltrattamenti e le mancanze della
dirigenza. Ai primi di dicembre del 2014, una decina di persone ha
depositato una denuncia (ancora pendente) contro la Mutualità
francese alla procura di Nizza Un anno dopo l’inaugurazione
dell’Icp, Joël Derrives, direttore generale della Mutualità
Provenza-Alpi-Costa Azzurra, è stato costretto a prendere le
distanze dalla direttrice e dai medici dell’Ehpad, senza mai
prestare ascolto veramente alle lamentele delle famiglie. «Abbiamo
commesso solamente un piccolo errore di selezione», ammette.
Un
tasso d’insuccesso del 99,6%
Lanciato nel
2008, il Piano Alzheimer di Sarkozy veniva dopo altri due piani
governativi, ma spiccava per la sua ambizione e per le risorse
stanziate, con un budget di 1,6 miliardi di euro. Doveva concludersi
nel 2012, ma è stato prorogato di due anni. La presidente
dell’associazione di famiglie FranceAlzheimer, Marie-Odile Desana,
è stata coinvolta nel monitoraggio dei lavori. Riconosce che vi sono
stati dei progressi concreti grazie al miglioramento del sostegno ai
pazienti e alle loro famiglie, all’aumento delle strutture di
assistenza diurna e delle piattaforme di accompagnamento e di presa
in carico e alla creazione di case per l’autonomia e l’integrazione
dei malati. Ciononostante, lamenta la mancanza di risorse umane: «C’è
un sottoutilizzo della parte del finanziamento destinata alla
componente medico-sociale. È stato speso solo il 41 % del budget di
1,2 miliardi previsto a questo scopo. Non ho idea di dove siano
finiti i 700 milioni che mancano!» Il bilancio del supporto medico e
sociale delpiano sembra essere ben al di sotto degli obiettivi
annunciati. Così, 60.000 persone vicine ai malati, gli «aiutanti»,
avrebbero dovuto beneficiare di una formazione, ma solo 15.000 hanno
potuto usufruirne. Da parte sua, l’Osservatorio nazionale del fine
vita continua a denunciare la mancanza di infermieri durante il turno
di notte nella stragrande maggioranza degli Ehpad. Il piano malattie
neurodegenerative 2014-2019 è subentrato al piano Alzheimer.
Con un budget molto ridotto, il nuovo piano comprende anche la lotta
alla malattia di Parkinson, alla sclerosi a placche e alla malattia
di Huntington. Invece di incoraggiare lo sviluppo di un supporto
umano e benevolo ai malati, le politiche pubbliche hanno preferito
privilegiare il sostegno all’industria farmaceutica per la ricerca
di cure mediche - a oggi senza successo. Il primo farmaco che
sipensavapotesserallenta-re le conseguenze della malattia, la
Ta-crina, è stato ritirato dal mercato nel 2004 per i suoi gravi
effetti collaterali. Dalla fine degli anni 1990, sono stati messi in
vendita quattro medicinali che dovrebbero agire sui sintomi della
malattia. Le prime tre molecole (donepe-zil, galantamina e
rivastigmina) sono inibitori della colinesterasi e aumentano il tasso
di un neurotrasmettitore implicato nei processi della memoria. La
quarta (memantina) agisce su altri neurotrasmettitori e può essere
in associazione alle precedenti.
Fin dall’apparizione
degli inibitori delle colinesterasi, la rivista medica indipendente
Prescrire ha dimostrato la loro scarsa efficacia, i loro
numerosi effetti collaterali e la loro pericolosità in caso di
prescrizione per oltre un anno e ha denunciato il loro costo
eccessivo. Ha inoltre messo in guardia contro le interazioni con
altri farmaci che aumentano gli effetti collaterali e il rischio di
decesso. Nonostante le critiche, nel 2008 l’Alta autorità della
sanità (Has) ha pubblicato una raccomandazione che manteneva il loro
rimborso, considerandoli un servizio medico importante. Il Formindep,
un’associazione di medici «per una formazione e un’informazione
medica indipendente», ha depositato allora un ricorso al Consiglio
di Stato, denunciando la parzialità dei membri del gruppo di lavoro
dei membri dell’Has. L’associazione aveva scoperto che la metà
dei ventiquattro esperti aveva dei rilevanti conflitti d’interesse,
dal momento che intratteneva rapporti con i laboratori che
producevano i fermaci del anti-Alzheimer.
Nel 2011, la commissione
per la trasparenza del Has ha effettuato un nuovo studio di questi
medicinali con un altro gruppo di esperti indipendenti. Philippe
Nicot, un membro del Formindep, ha partecipato a questo riesame: «I
farmaci hanno ricevuto una valutazione molto più bassa. Il loro
servizio medico è risultato essere scarso, il che ha comportato una
riduzione del tasso di rimborso al 15%. Non è stato dichiarato
insufficiente solo per un voto. Tutto ciò ha avuto un impatto
immediato e le prescrizioni di questi farmaci sono fortemente calate.
Ormai la Previdenza sociale risparmia 130 milioni di euro l’anno.
La nostra associazione ha suggerito che questo denaro venga usato per
assumere personale negli Ehpad; non abbiamo mai ricevuto una
risposta.»
Per perorare la loro
causa, i laboratori si sono rivolti al professor Jean-François
Dartigues, un neurologo dell’Istituto delle malattie
neurodegenerative presso l’Ospedale universitario di Bordeaux che
era stato membro del primo gruppo di esperti dell’Has. Dartigues ha
riconosciuto i collegamenti con i principali laboratori impegnati
nella produzione dei farmaci anti-Alzheimer - in particolare per il
finanziamento dello studio epidemiologico Paquid, che egli dirige da
più di venti anni -, ma ha sempre affermato di aver difeso questi
farmaci con convinzione. Anche Bruno Dubois, professore di neurologia
presso il Gruppo ospedaliero de la Pitié-Salpètrière e direttore
dell’Istituto della memoria e la malattia di Alzheimer di Parigi ha
riconosciuto i conflitti d’interesse, prima di confessare sui
farmaci quanto segue: «Lo so che sono inutili. Ma devo dire che
servono almeno un po’, perché altrimenti genererei angoscia nei
malati». Attualmente sta conducendo dei test sul Donepezil - uno dei
tre inibitori della colinesterasi - per dimostrare la sua efficacia
nel trattamento di pazienti con diagnosi precedente alla comparsa dei
sintomi. L’azienda farmaceutica americana Pfizer, che
commercializza il Donepezil, sostiene questi esami e finanzia anche
l’importante studio «Insight», diretto sempre da Dubois.
La dipendenza della
ricerca rispetto all’industria farmaceutica è sempre più
diffiisa, constata Bruno Toussaint, caporedattore di Prescrire. «La
ricerca sui medicinali è affidata alle case farmaceutiche, che
stringono legami di denaro e di prestazione di servizi con i medici
specialisti. Lo Stato in questo modo riduce la spesa pubblica, ma
lascia che il conflitto d’interesse si radichi all’interno del
sistema dei farmaci. E l’interesse degli imprenditori non
corrisponde necessariamente a quello dei cittadini...»
Oggigiorno la ricerca di
una cura della malattia di Alzheimer è in crisi. Tra il 2000 e il
2012 nel mondo sono stati condotti 1.031 studi e sono state testate
244 molecole, con un tasso d’insuccesso del 99,6% (7). I vaccini e
le molecole che hanno dato risultati positivi sui topi transgenici si
sono rivelati uno dopo l’altro inefficaci, se non pericolosi,
sull’uomo. Nonostante le ingenti somme spese per la ricerca,
attualmente non esiste alcuna cura efficace.
«Diagnosi
precoce», un leitmotiv
Il Piano Alzheimer di
Sarkozy intendeva superare questo scacco mobilitando tutti gli
operatori coinvolti nella lotta alla malattia in un modello di
ricerca «di eccellenza» destinato ad aprire mercati redditizi e a
essere competitivo a livello globale. Questo modello era basato su
una collaborazione sempre più stretta tra pubblico e privato. A tal
fine nel 2008 è stata creata anche una fondazione di cooperazione
scientifica per la ricerca sulla malattia di Alzheimer e sulle
patologie correlate (Fondation Pian Alzheimer). L’organismo associa
l’Istituto nazionale per la salute e la ricerca medica (Inserm) e
cinque laboratori farmaceutici (Sanofi, Servier, Msd, Ipsen e
AstraZenenca) che lo finanziano e siedono nel suo consiglio di
amministrazione, presieduto dal consulente finanziario ed ex
banchiere Philippe Lagayette. Questo tipo di collaborazione in
seguito si è diffuso anche nel resto d’Europa.
Il professor Philippe
Amouyel, direttore generale della Fondation Pian Alzheimer e
specialista in genetica, difende le collaborazioni tra pubblico e
privato: «Il settore pubblico non ha i mezzi per occuparsi di
sviluppo. E per questo motivo che il progetto europeo Innovative
Medicine Initiative ha dato vita a consorzi enormi, con decine di
laboratori pubblici e privati, favorendo l’interazione tra chi
elabora le ipotesi e chi può produrre farmaci basati su queste
intuizioni. Oggi si parla di una ricerca precompetitiva».
Lo stesso Amouyel ha
legami sia con il mondo della ricerca che con quello delle imprese. È
il coordinatore del «laboratorio di eccellenza» Distalz, che
riunisce sette laboratori pubblici e del progetto Medialz, che mira a
sviluppare, in una logica concorrenziale, trattamenti terapeutici e
nuovi strumenti diagnostici. Distalze Medialz intrattengono relazioni
privilegiate con due case farmaceutiche di biotecnologia di Lilla: la
Alzprotect, che sviluppa possibili farmaci anti-Alzheimer provenienti
dall’Inserm, e la Genoscreen, specializzata in sequenziamento
genetico, che sviluppa kit diagnostici per l’Alzheimer elaborati
dall’Università di Lilla. Amouyel siede nel consiglio scientifico
di entrambe le società.
Il leitmotiv della
ricerca «precompetitiva» è ormai la «diagnosi precoce»: si
tratta di identificare persone che soffrono di problemi di memoria e
che in dieci o quindici anni potrebbero sviluppare la malattia di
Alzheimer. Questo cambiamento di approccio si basa su una nuova
definizione della malattia, elaborata nel 2007 da un gruppo di
ricercatori intemazionali guidati dal professor Dubois. «In passato,
la malattia di Alzheimer era diagnosticata solo a partire da una
certa soglia di gravità:
lo stadio di demenza,
spiega Dubois. Ormai proponiamo criteri diagnostici che includono
tutti gli stadi della malattia, tra cui quello che precede la
comparsa dei sintomi, chiamato prodromico.» Il risultato di questa
nuova definizione è che i laboratori concentrano adesso la loro
ricerca su farmaci destinati non più agli anziani, ma a «malati»
giovani e in buona salute, che potranno essere curati preventivamente
per molti anni...
La diagnosi precoce è
incoraggiata da numerosi ospedali e università ed è applicata dalle
cliniche della memoria. Così, nell'Ile-de-France, la rete Mémoire
Alois può vantarsi di aver superato gli obiettivi fissati
dall’Agenzia regionale sanitaria. In assenza di cure, le persone
identificate vengono indirizzate verso i protocolli di
sperimentazione terapeutica.
Per stabilire questi
strumenti diagnostici, gli specialisti sono incoraggiati a utilizzare
nuove tecniche come il neuroimaging o la puntura lombare,
finalizzata a rilevare la presenza di alcune proteine nel liquido
cerebrospinale. Questi mezzi permettono di identificare le
caratteristiche biologiche della malattia, i «biomarcatori». Si
apre così un nuovo mercato, vasto e molto redditizio, per quanto
riguarda gli strumenti diagnostici in via di sviluppo o in attesa di
brevetto. Ma il parere degli esperti sul loro utilizzo non è
unanime. Così il professor Olivier Saint-Jean, responsabile del
reparto geriatrico dell’ospedale europeo Georges-Pompidou di
Parigi, insorge: «Se i biomarcatori fossero prescritti nel quadro di
un protocollo di ricerca, si potrebbe pensare che la cosa abbia un
senso. Ma usati selvaggiamente, come fanno alcuni centri, non hanno
alcun valore clinico per i pazienti! Nel mio reparto noi non li
trattiamo!».
Al fine di contestare i
risultati negativi di una sperimentazione terapeutica, un laboratorio
farmaceutico ha chiesto che la ricerca dei biomarcatori venisse
eseguita su pazienti a cui l’Alzheimer era già stato diagnosticato
con i vecchi criteri. Risultato: il 36% di loro non risultava più
malato... Il professor Dubois ne trae la seguente conclusione:
«Ritengo che quel che è stato fatto prima dei biomarcatori sia da
gettare nella spazzatura!».
In che misura le diagnosi
della malattia di Alzheimer sono ancora affidabili? Per 1% di
pazienti, portatori di una mutazione genetica che rende la malattia
ereditaria, la diagnosi basata sullo studio dei geni sembra valida.
Si tratta generalmente di persone sotto i 60 anni. Il restante 99%
soffre della forma chiamata «sporadica», che si scatena per lo più
dopo i 70 anni, ma a volte anche prima. Per loro la diagnosi, anche
se eseguita con i biomarcatori, è ancora incerta. Sempre più voci
si levano dunque per rimettere in causa le diagnosi precoci
concernenti persone sane.
Delle proiezioni
statistiche rischiose
Un’altra questione
problematica: le placche di proteine betamiloidi, sulla cui presenza
nel cervello si basa gran parte della diagnostica e della ricerca di
nuove terapie. Uno studio durato quindici anni sulle religiose di un
convento negli Stati uniti ha mostrato che, nonostante l’importanza
delle placche amiloidi ritrovate nel cervello di alcune di loro in
sede di autopsia, le suore avevano conservato le loro capacità
cerebrali intatte fino alla fine della loro vita. Questa resistenza
alla malattia potrebbe essere dovuta alla stabilità della loro
esistenza e alla loro costante attività intellettuale. L’influenza
dell’ambiente e dei percorsi di vita è stata recentemente
dimostrata anche dallo studio Paquid. «Abbiamo messo in evidenza una
diminuzione dell’incidenza e della prevalenza della malattia di
Alzheimer, afferma a gran voce il professor Dartigues. Questo calo è
dovuto principalmente al miglioramento complessivo del livello di
istruzione delle nuove generazioni. La scoperta ha rivelato la
straordinaria capacità di riserva del cervello.»
Professore di neurologia
negli Stati uniti, Peter Whitehouse era un rinomato esperto della
malattia, prima di averne criticato violentemente i presupposti. Nel
suo libro Il mito dell’Alzheimer intende dimostrare che non
esiste un profilo biologico unico relativo al morbo e che la diagnosi
potrebbe avere un senso solo per gli anziani. «Non ci sono prove che
la malattia di Alzheimer si stia diffondendo anche tra la generazione
del baby-boom, se non il fatto che la gente invecchia e che ci sono
più persone di mezza età che rischiano di presentare un fenomeno di
invecchiamento cerebrale.»
Martial Van der Linden,
professore di psicopatologia e di neuropsicologia presso le
Università di Ginevra e di Liegi, sta conducendo uno studio critico
dei modello biomedico dominante. Ha bandito dal suo vocabolario il
termine «malattia di Alzheimer» e parla solo di «invecchiamento
cerebrale con decadimento cognitivo». «Con i criteri imposti per la
malattia di Alzheimer, le persone vengono ridotte a un'etichetta
stigmatizzante – spiega -. Negli anni 1980, mi sono reso conto che
la realtà era molto più complessa e che c’era una grande
diversità di casi e di capacità conservate non prese in
considerazione. Buona parte delle difficoltà cognitive degli anziani
sono dovute a problemi vascolari, al diabete, all’ipertensione e,
soprattutto, all’età!» Insieme alla neuropsicologa Anne-Claude
Juillerat Van der Linden, ha creato l’associazione Valoriser et
intégrer pour vieillir autrement (Viva),
al fine di promuovere misure di prevenzione dell’invecchiamento
cerebrale basate sull’integrazione sociale e culturale degli
anziani. Esperimenti originali basati sul trattamento umano dei
pazienti e sulla loro partecipazione alla vita dell’istituto che li
accoglie si sono mostrati di notevole interesse, in particolare il
progetto Carpe Diem avviato in Quebec. Vedendo quei residenti
che ricominciavano a sorridere e a uscire fuori dal loro mutismo, un
gruppo di medici, insieme ad alcuni malati e alle loro famiglie, ha
progettato con gli stessi principi, in Francia, il nuovo istituto Ama
Diem, che ha appena aperto a Crolles (Isère).
La «malattia di
Alzheimer», che tanto spaventa per le sue proiezioni statistiche
rischiose, diventa una questione cruciale della società. Sarà
possibile nei prossimi anni sviluppare ima ricerca totalmente
indipendente dagli interessi dell’industria farmaceutica? Si potrà
prevedere l’esplorazione di tutte le potenziali cause della
malattia e non solamente della pista biomedica? Potranno i
finanziamenti pubblici incoraggiare la prevenzione e promuovere
risposte soddisfacenti? Sapremo essere all’altezza di questa sfida
e trovare a tutti un posto per il tempo della vecchiaia?
“Le Monde diplomatique”
edizione italiana, febbraio 2016
(Traduzione di Federico
Lo Piparo)
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