2.5.16

Alzheimer, una malattia politica. Un’inchiesta di Philippe Baque

Alois Alzheimer
Dal numero di febbraio di “Le Monde diplomatique” riprendo un ampio articolo che denuncia gli interessi crescenti intorno alla cosiddetta “malattia di Alzheimer” e lascia intravedere alcune modalità di approccio non corrive verso lo strapotere dell'industria farmaceutica. Ho eliminato le note, inutili in un contesto genericamente informativo, anche per facilitare una lettura non specialistica. (S.L.L.)
Il neurologo Jean-François Dartigues
Il rapido incremento delle diagnosi della malattia di Alzheimer rappresenta una sfida inedita per l’umanità. Contando su un mercato potenziale colossale, l’industria farmaceutica ricerca freneticamente - e fin qui senza successo - un farmaco o un vaccino miracoloso. L’interesse dei malati e dei loro cari invita tuttavia a ripensare le politiche pubbliche e l’approccio terapeutico verso un’affezione ancora poco conosciuta.

I laboratori al comando
M. è arrivata al centro ospedaliero di Marmande-Tonneins in sedia a rotelle. «A 78 anni, le era stato diagnosticato l'Alzheimer da un neurologo, racconta sua figlia. Prendeva tante medicine, aveva perso molto presto la propria autonomia ed era molto agitata. Io mi sono sfinita per aiutarla.»Allafinedeglianni2000, si è decisa a mettere la madre in questa unità specializzata che accoglie per soggiorni di lunga degenza pazienti che hanno raggiunto uno stadio molto grave della malattia. «Qui ha benefìciato di compagnia e benevolenza. Passate tre settimane, trottava e mangiava senza bisogno di aiuto.»
Geriatra e direttore di questo reparto fino al 2011, il dottor François Bonnevay aveva deciso di somministrare ai nuovi pazienti residenziali solo i farmaci strettamente necessari tra quelli che erano stati loro prescritti precedentemente, spesso troppo numerosi e con gravi effetti collaterali. «Ci sono altri metodi oltre al contenimento farmacologico per i pazienti irrequieti, spiega. Agli operatori sanitari devono essere insegnate delle strategie di comunicazione che permettano loro di essere in sintonia con i pazienti. Questi devono essere considerati come esseri umani, con desideri ed emozioni.» La priorità all'intemo dell’unità era rispettare il benessere e il ritmo di vita dei degenti. Il personale veniva formato con la metodologia Humanitude, una filosofia della cura elaborata e insegnata da una coppia di psicogerontologi che «consente di far sparire gran parte dei disturbi psicocomportamentali», racconta il medico.
L’approccio benevolo messo in pratica nel reparto del dottor Bonnevay si è tradotto, tra il 2002 e il 2011, in una quasi totale scomparsa di pazienti allettati, in una diminuzione delle perdite di peso, in un rallentamento dei processi infettivi e in un’assenza di ricoveri nel reparto di lunga degenza.
Questi risultati sono stati raggiunti solo grazie all’abbondanza di personale. La proporzione era di otto inservienti ogni dieci persone accolte. Questo rapporto oggi è da considerarsi decisamente eccezionale: «Nella maggior parte delle strutture residenziali per anziani dipendenti [Ehpad] si accolgono sempre più degenti, tanto che il rapporto risulta in media tra i tre e sei inservienti ogni dieci residenti, constata il dottor Philippe Masquelier, coordinatore medico di tre Ehpad nell’area urbana di Lille. Per ragioni economiche, i mezzi vengono livellati verso il basso. Dal momento che non esistono ancora farmaci efficaci, abbiamo bisogno soprattutto della presenza umana; ed è proprio quella che manca!».
Nel 2006, il Piano Solidarietà Vecchiaia presentato da Philippe Bas, ministro delegato agli anziani, prevedeva di equiparare in cinque anni il personale delle case di riposo e quello degli istituti per disabili, raggiungendo così un rapporto di un professionista per ogni persona residente. Questo obiettivo non è mai stato raggiunto e il Piano Alzheimer 2008-2012 di Nicolas Sarkozy non l’ha ripreso.
«In gioco qui c’è l’umanità della nostra società!», dichiarava Sarkozy il 10 marzo del 2014 a Nizza, in occasione dell’inaugurazione dell’Institut Claude-Pompidou (Icp), dedicato alla malattia di Alzheimer. La cerimonia, molto mondana, è stata organizzata da Bernadette Chirac, presidente della Fondazione Claude-Pompidou. L’edificio, di quattro piani, si presenta come una residenza lussuosa e sicura e riunisce al suo interno diverse strutture dedicate alla diagnosi, alla ricerca e alla presa in carico delle persone colpite dal morbo a diversi stadi. Siccome lo Stato non poteva finanziare da solo questo ambizioso progetto a vocazione pubblica, il cui costo si aggirava intorno ai 22 milioni di euro, la Fondazione Claude-Pompidou ha fatto appello alla generosità dei suoi amici: la miliardaria monegasca Lily Safra - il cui ritratto troneggia nella hall -, la Fondazione caritatevole Conny-Maeva, il gruppo Lvmh di Bernard Amault, lo stilista Karl Lagerfeld. Durante la sua inaugurazione, l’Icp è stato presentato come un modello vincente nella politica di contrasto alla malattia di Alzheimer messa in atto dal presidente Sarkozy nel suo quinquennio. Una volta tolte le paillettes, tuttavia, l’istituto ha dovuto confrontarsi con una realtà molto diversa.
«In sei mesi ci sono stati cinque decessi tra i residenti! Le condizioni di lavoro del personale erano così dure che le dimissioni si sono moltiplicate», racconta Monique Dinelli, che è stata infermiera nell’Ehpad dell’Icp gestito dalla Mutualità francese. Anche lei si è dimessa dopo pochi mesi, denunciando l’incompetenza della dirigenza e dei medici.
«L’apertura è stata anticipata per motivi politici. Non era pronto niente!» Danielle Maroselli ha messo il padre in questa struttura sin dalla sua apertura; è morto tre mesi più tardi. «Non ho mai potuto vedere i medici. Ho avuto l’impressione di essere ignorata ed evitata con disprezzo.» Così ha contattato altre famiglie di pazienti in conflitto con i responsabili dell’Ehpad. «Abbiamo scritto alla direzione della Mutualità francese, alla signora Chirac e al sindaco di Nizza per far presente quanto ci era capitato. Non abbiamo ricevuto risposta!» Le famiglie hanno denunciato l’insufficienza del personale, una serie di malfunzionamenti dalle conseguenze a volte tragiche, i maltrattamenti e le mancanze della dirigenza. Ai primi di dicembre del 2014, una decina di persone ha depositato una denuncia (ancora pendente) contro la Mutualità francese alla procura di Nizza Un anno dopo l’inaugurazione dell’Icp, Joël Derrives, direttore generale della Mutualità Provenza-Alpi-Costa Azzurra, è stato costretto a prendere le distanze dalla direttrice e dai medici dell’Ehpad, senza mai prestare ascolto veramente alle lamentele delle famiglie. «Abbiamo commesso solamente un piccolo errore di selezione», ammette.

Un tasso d’insuccesso del 99,6%
Lanciato nel 2008, il Piano Alzheimer di Sarkozy veniva dopo altri due piani governativi, ma spiccava per la sua ambizione e per le risorse stanziate, con un budget di 1,6 miliardi di euro. Doveva concludersi nel 2012, ma è stato prorogato di due anni. La presidente dell’associazione di famiglie FranceAlzheimer, Marie-Odile Desana, è stata coinvolta nel monitoraggio dei lavori. Riconosce che vi sono stati dei progressi concreti grazie al miglioramento del sostegno ai pazienti e alle loro famiglie, all’aumento delle strutture di assistenza diurna e delle piattaforme di accompagnamento e di presa in carico e alla creazione di case per l’autonomia e l’integrazione dei malati. Ciononostante, lamenta la mancanza di risorse umane: «C’è un sottoutilizzo della parte del finanziamento destinata alla componente medico-sociale. È stato speso solo il 41 % del budget di 1,2 miliardi previsto a questo scopo. Non ho idea di dove siano finiti i 700 milioni che mancano!» Il bilancio del supporto medico e sociale delpiano sembra essere ben al di sotto degli obiettivi annunciati. Così, 60.000 persone vicine ai malati, gli «aiutanti», avrebbero dovuto beneficiare di una formazione, ma solo 15.000 hanno potuto usufruirne. Da parte sua, l’Osservatorio nazionale del fine vita continua a denunciare la mancanza di infermieri durante il turno di notte nella stragrande maggioranza degli Ehpad. Il piano malattie neurodegenerative 2014-2019 è subentrato al piano Alzheimer. Con un budget molto ridotto, il nuovo piano comprende anche la lotta alla malattia di Parkinson, alla sclerosi a placche e alla malattia di Huntington. Invece di incoraggiare lo sviluppo di un supporto umano e benevolo ai malati, le politiche pubbliche hanno preferito privilegiare il sostegno all’industria farmaceutica per la ricerca di cure mediche - a oggi senza successo. Il primo farmaco che sipensavapotesserallenta-re le conseguenze della malattia, la Ta-crina, è stato ritirato dal mercato nel 2004 per i suoi gravi effetti collaterali. Dalla fine degli anni 1990, sono stati messi in vendita quattro medicinali che dovrebbero agire sui sintomi della malattia. Le prime tre molecole (donepe-zil, galantamina e rivastigmina) sono inibitori della colinesterasi e aumentano il tasso di un neurotrasmettitore implicato nei processi della memoria. La quarta (memantina) agisce su altri neurotrasmettitori e può essere in associazione alle precedenti.
Fin dall’apparizione degli inibitori delle colinesterasi, la rivista medica indipendente Prescrire ha dimostrato la loro scarsa efficacia, i loro numerosi effetti collaterali e la loro pericolosità in caso di prescrizione per oltre un anno e ha denunciato il loro costo eccessivo. Ha inoltre messo in guardia contro le interazioni con altri farmaci che aumentano gli effetti collaterali e il rischio di decesso. Nonostante le critiche, nel 2008 l’Alta autorità della sanità (Has) ha pubblicato una raccomandazione che manteneva il loro rimborso, considerandoli un servizio medico importante. Il Formindep, un’associazione di medici «per una formazione e un’informazione medica indipendente», ha depositato allora un ricorso al Consiglio di Stato, denunciando la parzialità dei membri del gruppo di lavoro dei membri dell’Has. L’associazione aveva scoperto che la metà dei ventiquattro esperti aveva dei rilevanti conflitti d’interesse, dal momento che intratteneva rapporti con i laboratori che producevano i fermaci del anti-Alzheimer.
Nel 2011, la commissione per la trasparenza del Has ha effettuato un nuovo studio di questi medicinali con un altro gruppo di esperti indipendenti. Philippe Nicot, un membro del Formindep, ha partecipato a questo riesame: «I farmaci hanno ricevuto una valutazione molto più bassa. Il loro servizio medico è risultato essere scarso, il che ha comportato una riduzione del tasso di rimborso al 15%. Non è stato dichiarato insufficiente solo per un voto. Tutto ciò ha avuto un impatto immediato e le prescrizioni di questi farmaci sono fortemente calate. Ormai la Previdenza sociale risparmia 130 milioni di euro l’anno. La nostra associazione ha suggerito che questo denaro venga usato per assumere personale negli Ehpad; non abbiamo mai ricevuto una risposta.»
Per perorare la loro causa, i laboratori si sono rivolti al professor Jean-François Dartigues, un neurologo dell’Istituto delle malattie neurodegenerative presso l’Ospedale universitario di Bordeaux che era stato membro del primo gruppo di esperti dell’Has. Dartigues ha riconosciuto i collegamenti con i principali laboratori impegnati nella produzione dei farmaci anti-Alzheimer - in particolare per il finanziamento dello studio epidemiologico Paquid, che egli dirige da più di venti anni -, ma ha sempre affermato di aver difeso questi farmaci con convinzione. Anche Bruno Dubois, professore di neurologia presso il Gruppo ospedaliero de la Pitié-Salpètrière e direttore dell’Istituto della memoria e la malattia di Alzheimer di Parigi ha riconosciuto i conflitti d’interesse, prima di confessare sui farmaci quanto segue: «Lo so che sono inutili. Ma devo dire che servono almeno un po’, perché altrimenti genererei angoscia nei malati». Attualmente sta conducendo dei test sul Donepezil - uno dei tre inibitori della colinesterasi - per dimostrare la sua efficacia nel trattamento di pazienti con diagnosi precedente alla comparsa dei sintomi. L’azienda farmaceutica americana Pfizer, che commercializza il Donepezil, sostiene questi esami e finanzia anche l’importante studio «Insight», diretto sempre da Dubois.
La dipendenza della ricerca rispetto all’industria farmaceutica è sempre più diffiisa, constata Bruno Toussaint, caporedattore di Prescrire. «La ricerca sui medicinali è affidata alle case farmaceutiche, che stringono legami di denaro e di prestazione di servizi con i medici specialisti. Lo Stato in questo modo riduce la spesa pubblica, ma lascia che il conflitto d’interesse si radichi all’interno del sistema dei farmaci. E l’interesse degli imprenditori non corrisponde necessariamente a quello dei cittadini...»
Oggigiorno la ricerca di una cura della malattia di Alzheimer è in crisi. Tra il 2000 e il 2012 nel mondo sono stati condotti 1.031 studi e sono state testate 244 molecole, con un tasso d’insuccesso del 99,6% (7). I vaccini e le molecole che hanno dato risultati positivi sui topi transgenici si sono rivelati uno dopo l’altro inefficaci, se non pericolosi, sull’uomo. Nonostante le ingenti somme spese per la ricerca, attualmente non esiste alcuna cura efficace.

«Diagnosi precoce», un leitmotiv
Il Piano Alzheimer di Sarkozy intendeva superare questo scacco mobilitando tutti gli operatori coinvolti nella lotta alla malattia in un modello di ricerca «di eccellenza» destinato ad aprire mercati redditizi e a essere competitivo a livello globale. Questo modello era basato su una collaborazione sempre più stretta tra pubblico e privato. A tal fine nel 2008 è stata creata anche una fondazione di cooperazione scientifica per la ricerca sulla malattia di Alzheimer e sulle patologie correlate (Fondation Pian Alzheimer). L’organismo associa l’Istituto nazionale per la salute e la ricerca medica (Inserm) e cinque laboratori farmaceutici (Sanofi, Servier, Msd, Ipsen e AstraZenenca) che lo finanziano e siedono nel suo consiglio di amministrazione, presieduto dal consulente finanziario ed ex banchiere Philippe Lagayette. Questo tipo di collaborazione in seguito si è diffuso anche nel resto d’Europa.
Il professor Philippe Amouyel, direttore generale della Fondation Pian Alzheimer e specialista in genetica, difende le collaborazioni tra pubblico e privato: «Il settore pubblico non ha i mezzi per occuparsi di sviluppo. E per questo motivo che il progetto europeo Innovative Medicine Initiative ha dato vita a consorzi enormi, con decine di laboratori pubblici e privati, favorendo l’interazione tra chi elabora le ipotesi e chi può produrre farmaci basati su queste intuizioni. Oggi si parla di una ricerca precompetitiva».
Lo stesso Amouyel ha legami sia con il mondo della ricerca che con quello delle imprese. È il coordinatore del «laboratorio di eccellenza» Distalz, che riunisce sette laboratori pubblici e del progetto Medialz, che mira a sviluppare, in una logica concorrenziale, trattamenti terapeutici e nuovi strumenti diagnostici. Distalze Medialz intrattengono relazioni privilegiate con due case farmaceutiche di biotecnologia di Lilla: la Alzprotect, che sviluppa possibili farmaci anti-Alzheimer provenienti dall’Inserm, e la Genoscreen, specializzata in sequenziamento genetico, che sviluppa kit diagnostici per l’Alzheimer elaborati dall’Università di Lilla. Amouyel siede nel consiglio scientifico di entrambe le società.
Il leitmotiv della ricerca «precompetitiva» è ormai la «diagnosi precoce»: si tratta di identificare persone che soffrono di problemi di memoria e che in dieci o quindici anni potrebbero sviluppare la malattia di Alzheimer. Questo cambiamento di approccio si basa su una nuova definizione della malattia, elaborata nel 2007 da un gruppo di ricercatori intemazionali guidati dal professor Dubois. «In passato, la malattia di Alzheimer era diagnosticata solo a partire da una certa soglia di gravità:
lo stadio di demenza, spiega Dubois. Ormai proponiamo criteri diagnostici che includono tutti gli stadi della malattia, tra cui quello che precede la comparsa dei sintomi, chiamato prodromico.» Il risultato di questa nuova definizione è che i laboratori concentrano adesso la loro ricerca su farmaci destinati non più agli anziani, ma a «malati» giovani e in buona salute, che potranno essere curati preventivamente per molti anni...
La diagnosi precoce è incoraggiata da numerosi ospedali e università ed è applicata dalle cliniche della memoria. Così, nell'Ile-de-France, la rete Mémoire Alois può vantarsi di aver superato gli obiettivi fissati dall’Agenzia regionale sanitaria. In assenza di cure, le persone identificate vengono indirizzate verso i protocolli di sperimentazione terapeutica.
Per stabilire questi strumenti diagnostici, gli specialisti sono incoraggiati a utilizzare nuove tecniche come il neuroimaging o la puntura lombare, finalizzata a rilevare la presenza di alcune proteine nel liquido cerebrospinale. Questi mezzi permettono di identificare le caratteristiche biologiche della malattia, i «biomarcatori». Si apre così un nuovo mercato, vasto e molto redditizio, per quanto riguarda gli strumenti diagnostici in via di sviluppo o in attesa di brevetto. Ma il parere degli esperti sul loro utilizzo non è unanime. Così il professor Olivier Saint-Jean, responsabile del reparto geriatrico dell’ospedale europeo Georges-Pompidou di Parigi, insorge: «Se i biomarcatori fossero prescritti nel quadro di un protocollo di ricerca, si potrebbe pensare che la cosa abbia un senso. Ma usati selvaggiamente, come fanno alcuni centri, non hanno alcun valore clinico per i pazienti! Nel mio reparto noi non li trattiamo!».
Al fine di contestare i risultati negativi di una sperimentazione terapeutica, un laboratorio farmaceutico ha chiesto che la ricerca dei biomarcatori venisse eseguita su pazienti a cui l’Alzheimer era già stato diagnosticato con i vecchi criteri. Risultato: il 36% di loro non risultava più malato... Il professor Dubois ne trae la seguente conclusione: «Ritengo che quel che è stato fatto prima dei biomarcatori sia da gettare nella spazzatura!».
In che misura le diagnosi della malattia di Alzheimer sono ancora affidabili? Per 1% di pazienti, portatori di una mutazione genetica che rende la malattia ereditaria, la diagnosi basata sullo studio dei geni sembra valida. Si tratta generalmente di persone sotto i 60 anni. Il restante 99% soffre della forma chiamata «sporadica», che si scatena per lo più dopo i 70 anni, ma a volte anche prima. Per loro la diagnosi, anche se eseguita con i biomarcatori, è ancora incerta. Sempre più voci si levano dunque per rimettere in causa le diagnosi precoci concernenti persone sane.

Delle proiezioni statistiche rischiose
Un’altra questione problematica: le placche di proteine betamiloidi, sulla cui presenza nel cervello si basa gran parte della diagnostica e della ricerca di nuove terapie. Uno studio durato quindici anni sulle religiose di un convento negli Stati uniti ha mostrato che, nonostante l’importanza delle placche amiloidi ritrovate nel cervello di alcune di loro in sede di autopsia, le suore avevano conservato le loro capacità cerebrali intatte fino alla fine della loro vita. Questa resistenza alla malattia potrebbe essere dovuta alla stabilità della loro esistenza e alla loro costante attività intellettuale. L’influenza dell’ambiente e dei percorsi di vita è stata recentemente dimostrata anche dallo studio Paquid. «Abbiamo messo in evidenza una diminuzione dell’incidenza e della prevalenza della malattia di Alzheimer, afferma a gran voce il professor Dartigues. Questo calo è dovuto principalmente al miglioramento complessivo del livello di istruzione delle nuove generazioni. La scoperta ha rivelato la straordinaria capacità di riserva del cervello.»
Professore di neurologia negli Stati uniti, Peter Whitehouse era un rinomato esperto della malattia, prima di averne criticato violentemente i presupposti. Nel suo libro Il mito dell’Alzheimer intende dimostrare che non esiste un profilo biologico unico relativo al morbo e che la diagnosi potrebbe avere un senso solo per gli anziani. «Non ci sono prove che la malattia di Alzheimer si stia diffondendo anche tra la generazione del baby-boom, se non il fatto che la gente invecchia e che ci sono più persone di mezza età che rischiano di presentare un fenomeno di invecchiamento cerebrale.»
Martial Van der Linden, professore di psicopatologia e di neuropsicologia presso le Università di Ginevra e di Liegi, sta conducendo uno studio critico dei modello biomedico dominante. Ha bandito dal suo vocabolario il termine «malattia di Alzheimer» e parla solo di «invecchiamento cerebrale con decadimento cognitivo». «Con i criteri imposti per la malattia di Alzheimer, le persone vengono ridotte a un'etichetta stigmatizzante – spiega -. Negli anni 1980, mi sono reso conto che la realtà era molto più complessa e che c’era una grande diversità di casi e di capacità conservate non prese in considerazione. Buona parte delle difficoltà cognitive degli anziani sono dovute a problemi vascolari, al diabete, all’ipertensione e, soprattutto, all’età!» Insieme alla neuropsicologa Anne-Claude Juillerat Van der Linden, ha creato l’associazione Valoriser et intégrer pour vieillir autrement (Viva), al fine di promuovere misure di prevenzione dell’invecchiamento cerebrale basate sull’integrazione sociale e culturale degli anziani. Esperimenti originali basati sul trattamento umano dei pazienti e sulla loro partecipazione alla vita dell’istituto che li accoglie si sono mostrati di notevole interesse, in particolare il progetto Carpe Diem avviato in Quebec. Vedendo quei residenti che ricominciavano a sorridere e a uscire fuori dal loro mutismo, un gruppo di medici, insieme ad alcuni malati e alle loro famiglie, ha progettato con gli stessi principi, in Francia, il nuovo istituto Ama Diem, che ha appena aperto a Crolles (Isère).
La «malattia di Alzheimer», che tanto spaventa per le sue proiezioni statistiche rischiose, diventa una questione cruciale della società. Sarà possibile nei prossimi anni sviluppare ima ricerca totalmente indipendente dagli interessi dell’industria farmaceutica? Si potrà prevedere l’esplorazione di tutte le potenziali cause della malattia e non solamente della pista biomedica? Potranno i finanziamenti pubblici incoraggiare la prevenzione e promuovere risposte soddisfacenti? Sapremo essere all’altezza di questa sfida e trovare a tutti un posto per il tempo della vecchiaia?

“Le Monde diplomatique” edizione italiana, febbraio 2016
(Traduzione di Federico Lo Piparo)


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