Un ritaglio i cui
contenuti andrebbero aggiornati all'era di Trump, ma che trovo
stimolante anche a 10 anni di distanza e di cui consiglio la lettura
per gli spunti analitici che propone e gli scenari che prospetta.
(S.L.L.)
Che età ha l'impero
americano? Una ricorrenza importante è sfuggita nove anni fa
all'utile, educativa attenzione riservata agli anniversari, grandi e
piccoli, che consentono di risfogliare la storia, sia pure in modo
sbrigativo. Mi riferisco al centenario dell'irruzione degli Stati
Uniti sulla scena mondiale, come potenza imperiale, avvenuta nel
1898, in occasione della guerra contro la Spagna. Guerra che ha
portato i soldati americani fuori dai confini, dai Caraibi (Cuba) al
Pacifico (Filippine). La rievocazione serve a misurare i tempi e
sollecita interrogativi sulla natura del nostro secolo, appena
cominciato. Nella nostra comoda, confortevole, frustrante decadenza,
noi europei siamo curiosi. Tentare una lettura dell´avvenire
attraverso la lente della storia è un esercizio periglioso.
Azzardato. Lo so.
Se si considera il 1898
come la sua data di nascita, l´impero americano figura già per la
durata nei primi ranghi. L'anno prossimo compirà il centodecimo
compleanno, anche se si è manifestato in tutta la sua potenza molto
dopo. Sul piano militare, durante la Grande Guerra (‘14-‘18) è
intervenuto per la prima volta in Europa determinando o affrettando
la sconfitta della Germania guglielmina, ma sul piano economico
superava la Gran Bretagna dalla fine dell'Ottocento. Certo, se
guardiamo i grandi imperi del passato, partendo dalla sconfitta
definitiva di Cartagine all'inizio delle invasioni barbariche, quello
romano è durato cinque secoli. L'impero spagnolo secondo gli storici
almeno un secolo e mezzo, tra il ‘500 e il ‘600. Quello
britannico più o meno altrettanto, dalla seconda metà del ‘700
alla Prima guerra mondiale, quando è cominciato il suo declino. La
dissoluzione è stata più tardiva, tra il 1947 e il 1960. Le date
della storia non rientrano nella matematica.
Durata a parte, a un
europeo non può sfuggire la singolarità della potenza americana. In
Occidente soltanto l'impero romano (secondo François Heisbourg, che,
dall'International Institute for Strategic Studies di Londra,
misura «lo spessore del mondo», come dice il titolo di un suo
saggio) ha esercitato una potenza e un'influenza tanto forti, sia
pure in un'area geografica più limitata. La singolarità degli Stati
Uniti risiede nel fatto che, a differenza dei grandi predecessori,
compreso quello romano, essi non hanno rivali in grado di affrontarli
e strappare loro il primato. Possono essere contestati. Lo sono stati
e lo sono. Possono anche essere sconfitti. Ma in casi specifici e in
aree e tempi limitati. Nonostante questa supremazia, ci si può
chiedere se anche il nuovo secolo, in cui siamo appena entrati, sia
destinato ad essere americano. Non parlo di declino della potenza
americana. L'interrogativo riguarda unicamente la capacità
dell'egemonia americana di strutturare il sistema internazionale,
come è accaduto negli ultimi decenni. Il presente ci induce a
dubitare.
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Prima del 1898
l´americano era agli occhi europei molto simile ai personaggi dei
romanzi di Henry James. Approdati sul Vecchio Continente in pieno
Ottocento, quei personaggi sono i figli di vasti spazi vergini
capitati su una terra satura di storia. La loro grande letteratura si
muove in spazi immensi e vuoti (Moby Dick di Melville), non
nei labirinti urbani popolari e borghesi (di Balzac e di Dickens).
Attraversato l'Atlantico e inoltratisi in questi labirinti, gli
americani di James, perlomeno quelli dei primi romanzi, sono degli
ingenui sbarcati in una società sofisticata. Sono i prodotti della
coscienza protestante smarriti in un cattolicesimo enigmatico e
inquietante. Al contrario degli europei eredi dei patrimoni
familiari, sono gli eredi di quel che hanno realizzato come
individui. Si sono fatti da soli e ne sono fieri. Si aggirano nei
musei cercando con candore di farsi raccontare dai dipinti appesi
alle pareti l'Europa che vogliono scoprire a loro volta, come Colombo
ha fatto con l'America.
Christopher Newman,
l'impacciato eroe di L'Americano, è la trasparente allegoria
di quel candore. Il paragone di James tra le due sponde
dell´Atlantico (dice con ragione Mona Ozouf in un saggio sui «poteri
del romanzo») riguarda più le coscienze morali che le società. Per
lui, in un americano l'arditezza dei toni e la negligenza formale si
accompagnano al rigore etico. Invece nell'europeo, agli occhi di un
americano dell'epoca, la forma prevale su tutto il resto e nasconde
il vizio, il gusto del piacere. L'uso del denaro, per l'europeo
cattolico fonte di peccato, è per l'americano protestante un
importante, decisivo capitolo della severa morale predicata dai padri
fondatori del mercato sovrano.
Nel frattempo si sono
consumati due secoli: si è consumato l'Ottocento europeo, già sulla
soglia del declino quando Henry James, americano ritornato alle
origini europee, scriveva i suoi primi romanzi; e si è consumato il
Novecento americano, durante il quale gli spontanei personaggi di
Henry James sono diventati i protagonisti di una storia imperiale. Di
tragedia in tragedia, tra conflitti e ricostruzioni, tra rivoluzioni
e restaurazioni, gli europei hanno perduto potere e influenza sul
resto del mondo, e hanno acquisito benessere e libertà individuali
senza precedenti, grazie all'America che li ha affrancati dalle
ideologie liberticide e che al tempo stesso li ha detronizzati,
meglio confinati in una dignitosa, benestante periferia. Noi europei
occidentali viviamo una pace di cui non troviamo esempi, per quanto
riguarda la durata, nel nostro passato moderno. Una pace accompagnata
da una sussiegosa saggezza. Una saggezza esemplare anche perché
alleggerita dalle responsabilità imperiali. L'Asia sta per
superarci. Lo storico sorpasso, almeno per alcuni aspetti, è già
avvenuto. Persino l'impero americano, impegnato altrove, segue con
uno sguardo spesso distratto le vicende della terra da cui sono
arrivati i suoi antenati e in cui venivano in pellegrinaggio i
personaggi di Henry James. Quest'ultimo stenterebbe a riconoscere i
pronipoti di Christopher Newman, milionario (in dollari del suo
tempo) grazie a una fabbrica di wc.
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Se è vero che la
televisione non si accontenta di riflettere la realtà, ma la crea,
Sidney Bristow, l'eroina di Alias, famosa e ormai vecchia
serie televisiva di ABC, è l´immagine romanzata dell'America d'oggi
(dicono Merryl Wyn Davies e Ziauddin Sardar in Why Do People Hate
America?). Sidney, come l´America, ha una doppia personalità. È
l'innocenza e la virtù incarnate. È una ragazza ansiosa e non
troppo sicura di sé, che lavora con accanimento per superare gli
esami universitari, consola l'amica innamorata e infelice, piange il
fidanzato scomparso, rimprovera il padre negligente, si interroga
sulla madre nevrotica, compie continue introspezioni nel tentativo di
capirsi. Ma quando è in missione (come agente doppio della Cia e di
un'organizzazione nemica dell'America che cerca di sconfiggere)
Sidney si trasforma in una macchina di guerra. Aiutata da una
tecnologia avanzatissima, si batte con la tenacia di Terminator,
distribuisce calci che raggiungono le ganasce degli avversari, salta
da un grattacielo all´altro e non si arrende neppure quando dei
torturatori viziosi le strappano un molare con una pinza.
Supera tutti gli
ostacoli, rischia la vita, con un'assoluta fiducia in se stessa e una
professionalità ineccepibile.
Per Alias l'America è il
mondo. In un episodio l'azione si sposta in un batter di ciglio da
Los Angeles al Cairo o a Mosca o a Roma o a Oxford o in Toscana o a
Sao Paolo o a Ginevra o a Madrid. Passa da un ospedale psichiatrico
rumeno a un deserto argentino. E ritorna puntuale a Los Angeles. Il
resto del mondo è la veranda dell'America. Quel che Alias
mostra con tanta sicurezza (dicono sempre Ziauddin Sardar e Merryl
Wyn Davis) non è tanto che l'America vuole governare il mondo, ma
che lo governa già. Stati-nazione, frontiere geografiche, strutture
politiche sono ostacoli che l'acrobatica, sentimentale, audace,
spietata e innocente Sidney, pronipote dell'impacciato Americano
di James, scavalca con disinvoltura. Come se si muovesse nel cortile
sotto casa.
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Un europeo dice: l'impero
americano. Uso anch'io con generosità l'espressione. Ma per l'eroina
di Alias l'idea di impero implica, non del tutto a torto, l'esistenza
di territori (colonie) in cui le popolazioni sono costrette a
sottomettersi. Un impero si appropria con la forza dei mercati di
paesi lontani, dove impone al tempo stesso una legge diversa, più
ingiusta di quella in vigore nella metropoli. Oggi il pianeta
assomiglia invece, per Sidney, a un prolungamento della società
americana in cui individui e comunità accettano sempre di più i
suoi valori (che sono universali), la sua cultura, i suoi costumi.
Dal sistema democratico, sia esso formale o reale, alla lingua, dai
blue jeans agli hamburger, dalla musica all'architettura, dalla
tecnologia a tutti i campi della scienza. Per Sidney l'America è il
mondo e quindi gli interessi dell'America sono quelli del mondo.
Coloro che si oppongono a questi interessi sono dei fuori legge. Sono
i barbari della nostra epoca.
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Sidney è allineata sui
neoconservatori? La storia dell'idealismo americano supera di gran
lunga quella degli intellettuali e dei politici che hanno influenzato
l'amministrazione di Bush junior.
Conversando con il
romanziere europeo Marc Weitzmann, il professor Stephen Kotkin,
insegnante a Princeton, spiega cosi quell'idealismo: «È
un'impulsione missionaria, un desiderio di convertire il mondo a
quello che, noi americani, siamo».
Aggiunge: «È un
sentimento molto profondo. È la base della nostra identità. Non ci
sentiamo a nostro agio quando la gente non vive come noi. È una
febbre. Il realismo è la medicina per combattere questa febbre, ma
in America la febbre è uno stato normale». Agli orecchi europei
queste parole possono ricordare quelle dei missionari che
accompagnavano le conquiste coloniali. Ma siamo lontani da quei
tempi, e, almeno per alcuni non trascurabili aspetti, da quello
spirito.
L'impero americano si
basa sulla potenza ma anche sull'influenza. E quest'ultima occupa
molto spazio quando si misura l'egemonia americana. Il soft power
(come Joseph S. Nye j. chiama l'influenza, distinguendola dalla
«potenza dura») ha le sue radici nel progetto ideologico, politico
e religioso, da cui sono nati gli Stati Uniti. Un progetto originale
in cui noi europei ritroviamo il nostro umanesimo, ma corroborato da
un pionierismo al tempo stesso religioso e mercantile; i lampi
dell'illuminismo e un impegno militante protestante; il rifiuto del
colonialismo, derivato anche dalla condizione coloniale da cui gli
Stati Uniti si sono emancipati; e al tempo stesso la necessità di
colonizzare uno spazio occupato da altri, per realizzarvi la società
ideale.
Non pretendo che questo
cocktail, tanto promettente quanto ricco di contraddizioni come tutto
quello che nasce dalle menti più fervide, riassuma quello che c'è o
c'è stato alla base della nazione americana. Ma noi europei ne
scorgiamo le tracce nei personaggi di James e di Alias. Tracce
appena velate o deformate dal tempo trascorso tra gli uni e gli
altri. E naturalmente le ritroviamo nei libri di storia, in cui è
chiaro come il messianismo, frutto di quel cocktail, si sia
manifestato sulla scena mondiale a partire dall´ultimo Ottocento.
Sempre la storia e la cronaca che non è ancora storia ci dicono che
gli slanci messianici non hanno sempre rispettato i valori cui si
ispiravano. E´ il meno che si possa dire. Quegli slanci hanno
ricalcato a volte l´imperialismo europeo; nelle fasi
isolazionistiche si sono rivolti e spenti all´interno della società
americana; hanno contribuito in modo determinante al funzionamento
del sistema-mondo. Ci sono stati momenti (riassumibili in tre esempi,
di diversa importanza ma con valore morale molto simile: Hiroshima,
My Lai e Abu Ghraib) in cui il raggiungimento degli obiettivi ha
fatto smarrire il senso della misura e dell´onore. Ma tutti quegli
smarrimenti hanno provocato dibattiti, ripensamenti, condanne, mea
culpa, che sarebbe disonesto non ricondurre all´idealismo americano
originale. Assai più candido, spesso più autentico di quello
europeo, reso più perverso nelle epoche imperiali dalla lunga
storia.
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Di tutto questo noi
europei teniamo conto quando ci interroghiamo sulla nostra posizione
rispetto all'impero americano. Ne facciamo parte, come un frammento
magari periferico dell'Occidente, come un alleato naturale, come una
mano o un piede, o le estremità dell'uno o dell'altro, appartengono
a un corpo umano? Sidney, l'eroina di Alias, risponderebbe con un
«sì» netto. Ma la sua affermazione risulterebbe troppo categorica.
Troppo imperiosa.
Decreterebbe di fatto una
dipendenza. Christopher Newman, l'ottocentesco americano di Henry
James, sarebbe meno categorico e più rispettoso, più comprensivo.
Certo, lui appartiene all'epoca preimperiale. Il suo idealismo non è
ancora contaminato. È meno pervertito. Ma la Costituzione americana
del suo tempo è anche quella di oggi. È la stessa che elenca i
valori cui si ispira ufficialmente l´America di George W. Bush.
E l'America dei nostri
giorni si è caratterizzata più con l'uso della forza pura che con
l'influenza nel rapporto di forza con il resto del mondo. La prima
(hard power) ha appannato, se non proprio cancellato, la
seconda (soft power). Agli occhi di molti europei, con Bush j.
gli Stati Uniti si sono allontanati dal principio secondo il quale il
loro progetto imperiale, basato su valori universali, non può
affidarsi alla sola potenza. Questa egemonia unipolare ha dato
risultati catastrofici ed ora è sempre più contestata dagli stessi
americani. Allo stadio attuale gli Stati Uniti conservano il primato,
ma la loro capacità di contenere il disordine mondiale non è più
la stessa. La loro influenza ha perduto peso.
Minimizzando, si può
dire che l´Iraq sia, sul piano militare, soltanto un incidente. È
stata un'imprudenza impegnarsi in una guerra asimettrica, in cui la
superiorità di un esercito classico, con tecnologie avanzate, viene
quasi annullata. Ma, sempre sul piano militare, è un caso specifico
in un'area limitata. È chiaro quel che l'ottantenne Andrew Marshall
risponde al visitatore europeo (lo scrittore Marc Weitzmann) che gli
chiede: «Cosa pensa di Bagdad?» Marshall, fu uno degli autori del
programma della «guerra stellare», ai tempi di Reagan, e lavora con
qualche interruzione, al Pentagono, dal 1949. È amico intimo, e
condivide le idee, di Herman Kahn, che servì da modello a Stanley
Kubrick per Il dottor Stranamore. Ebbene Marshall risponde che
non guarda troppo da vicino quel che accade in Iraq. Lui è impegnato
in cose più serie. Sta pianificando «la prossima guerra con la
Cina, tra una ventina d´anni, sotto l'acqua o nello spazio». L'Iraq
è dunque un incidente con non gravi conseguenze militari. Ma è
stato un enorme, forse irreparabile errore politico. Ha dimostrato
che neppure una superpotenza, al momento senza seri concorrenti, può
gestire il mondo da sola. Non ne sembra più capace. E il secolo è
appena cominciato.
“la Repubblica”, 23
marzo 2007
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