Tommaso Landolfi |
L'idea
einaudiana d'offrire in una apposita collana, sobria ed elegante, gli
"scrittori tradotti da scrittori" appare ben azzeccata, e
per certi versi insostituibile per una moderna rimeditazione sul
grande tema della traduzione: un' attività che per quanto proclamata
essenziale nella civiltà delle lettere, sembra riscuotere, specie in
Italia, scarsa attenzione. Abbiamo dunque, ora e facilmente
accessibili classiche traduzioni realizzate in tempi e condizioni
diverse: Kafka di Primo Levi, Stevenson di Fruttero e Lucentini,
Flaubert di Natalia Ginzburg, il Candido
di Voltaire nella resa di Riccardo Bacchelli, un Poe di Giorgio
Manganelli, La tempesta
shakespeariana nel napoletano di Eduardo, Queneau tradotto da Italo
Calvino, ancora Flaubert da Lalla Romano. E adesso, nono volume della
collana, i Racconti di Pietroburgo
di Gogol nella versione di Tommaso Landolfi (pagg. 318, lire 16.000).
Tommaso
Landolfi, l'autore del Dialogo dei massimi sistemi
scomparso nel 1979, non fu nè traduttore dilettante, nè russista d'
occasione: come ricorda nelle sue memorie Ettore Lo Gatto, s'era
laureato con una tesi su Anna Achmatova, fu legato in operoso
sodalizio ad Angelo Maria Ripellino, e per tutta la vita ha
continuato ad occuparsi di cose russe, sicché la stessa presenza di
temi e motivi della letteratura russa nella sua opera creativa
risulta frutto d'una scelta meditata e criticamente avvertita. Caso
felice (e, quanto alla letteratura russa, assai raro in Italia) del
"tradotto" che lascia il segno sul "traduttore".
A parte Gogol, Landolfi ha dato voce italiana a Puskin, Lermontov,
Tjutcev, Turghenev, Dostoevskij, Cechov, e ad altri ancora. Ma
restiamo ai Racconti di Pietroburgo.
Che cosa si proponesse con la sua traduzione, ce lo dice Landolfi
stesso: "aderire, per quanto era possibile e ce lo concedevano
le elementari leggi della nostra lingua, al testo originale.
Riprodurre (...) insomma tutte le più minute particolarità, a costo
d' affaticare in qualche luogo anche il lettore". Diciamo subito
che ad un'indagine minuziosa, questi propositi - d'una modestia
esemplare, e di severa consapevolezza filologica - sono realizzati
solo in parte: nel senso che laddove il testo russo è, insieme,
specifico e d'immediata presa colloquiale, Landolfi tende a salvare
l'immediatezza a scapito della specificità (soprattutto a livello
lessicale); talora, a parer nostro, anche quando le "elementari
leggi" dell'italiano non dico non lo imponessero, ma
semplicemente non lo consigliassero. Oserei dire che questo, che
resta probabilmente il miglior "Gogol italiano" (a parte,
ove e quando si rinvenissero, gli articoli che Gogol stesso pare
abbia scritto per periodici romani), risulta alla fin fine troppo
"italiano": risultato certamente encomiabile - diceva
Pasternak (ma cose del genere le aveva dette anche Leopardi) che la
traduzione non deve sembrare cosa tradotta, ma tale che il traduttore
ne possa rispondere come di cosa sua -, che però corre il rischio di
togliere al lettore proprio il gusto di quella "diversità
nell'equivalenza", che Landolfi si proponeva di salvaguardare.
Tuttavia,
un'altra è la legittima perplessità che può destare la
riproposizione odierna di questa classica traduzione landolfiana: il
fatto d'apparire piuttosto datata. Non mi riferisco alla presenza di
espressioni già passate in disuso, o a qualche toscanismo un po'
troppo marcato; ma al fatto che il testo stesso dal quale traduceva
Landolfi è "invecchiato". E mi spiego. La prima edizione
di questi Racconti di Pietroburgo
apparve più di quarant'anni fa, nel 1941 per i tipi della Rizzoli;
l'attuale edizione Einaudi li ripresenta tali e quali, pur se
debitamente corretti gli errori di stampa, e opportunamente riportata
la trascrizione dal cirillico alle norme d'uso ormai accettate e
generali. Ma il testo dal quale traduceva Landolfi è quello
"tradizionale", derivato dalle edizioni pubblicate in vita
dell'autore: cioè anteriore all'edizione critica delle Opere
complete (14 volumi, apparsi tra
il 1937 e il 1952), che ha restaurato molti passi, e in particolare
quelli a suo tempo manomessi dalla censura. Vedi i paradossi della
Storia: anche lo stalinismo sapeva essere severo censore dei censori;
s'intende, zaristi. Qualche esempio soltanto, dal Giornale
di un pazzo. Popriscin si
meraviglia non che un cane sappia parlare, ma che sappia scrivere:
poi però aggiunge "Solo il nobile può scrivere correttamente.
Lo fanno invero anche mercanti e impiegati, e perfino il popolino
talvolta scribacchia: ma per lo più la loro scrittura è meccanica,
senza virgole, né punti, né stile". Un po' troppo classista,
si dev'esser detto il censore del 1835: e ha cassato. Ma purtroppo
l'arguta osservazione è assente anche per il lettore italiano del
1984. C'è un caso ancora più vistoso, il celebre finale. Il
repentino passaggio dal grido di dolore e di sconforto, alla più
assurda bislaccherìa, di quelle per cui giustamente van celebri i
matti: "Mammina, salva il tuo povero figlio! Lascia cadere una
lagrimuccia sulla sua testina malata! Guarda come lo tormentano!
(...) Mammina, abbi pietà del tuo povero fanciullino!... E sapete, a
proposito, che il bey d'Algeri ha una verruca proprio sotto il naso?"
La "verruca del bey d' Algeri", nella sua incongruità, è
divenuta proverbiale: si tratta dello stesso disgraziato bey,
cacciato dai francesi nel luglio del 1830 e in seguito rifugiatosi a
Napoli, di cui scrisse anche il Belli nel sonetto Er
pijamento d' Argèri: "E mo
metteno in cima a ' na colonna / er Deo d' Argèri che vva a fasse
frate, / o viè a venne le pizze a la Ritonna". Solo che nel
testo originario l'escrescenza sottonasale non apparteneva al bey d'
Algeri, ma al Re di Francia (all'epoca della stesura del racconto,
1833-4, non più il conquistatore d'Algeri, Carlo X, ma Luigi
Filippo). È buona norma del censore di non scherzare su un sovrano
regnante: e così la verruca è passata a un sovrano deposto. E tale
è rimasta nella versione di Landolfi, oggi riproposta.
“la
Repubblica”, 9 maggio 1984
Nessun commento:
Posta un commento