22.9.17

L'impero cinese volge la prua sull'Italia (Samuele Capasso)

Il Vte di Genova Voltri
■ La prossima volta che comprerete un frullatore o un paio di scarpe su Amazon, ricordate: il vostro acquisto vi è stato recapitato sotto casa grazie ad almeno una società cinese, forse di più. È probabile che sia gestito da un gruppo cinese il porto da dove la merce è partita o dove è arrivata, è probabilmente cinese la nave dove la merce è stata caricata, è quasi sicuramente cinese il magazzino dove è stata stoccata prima di essere prelevata da un camion.
La Repubblica popolare sta mettendo le mani sulla logistica europea, un settore tradizionalmente lontano dagli occhi del pubblico, ma che è l’ossatura della globalizzazione, che esiste solo quando le merci circolano da un Paese all’altro. E chi controlla la movimentazione delle merci, fatalmente, controlla un pezzo della globalizzazione.
Stupisce, così, che sia quasi passata inosservata unagigantesca operazione da l2,25 miliardi di euro annunciata all’inizio di luglio con cui gli americani di Biackstone hanno ceduto, a China Investment Corporation, Logicor. Logicor è la società di real estate che nel 2012 era stata creata dal fondo americano per controllare tutti i magazzini per la logistica posseduti nel Vecchio Continente, per complessivi 13,6 milioni di metri quadrati. Nell’epoca dell’e-commerce, non è difficile capire quale importanza abbia la gestione e il possesso dei piazzali e magazzini da cui parte e arriva la merce diretta ai clienti. E, infatti, Amazon è di Logicor uno dei primi partner. Ma Logicor è solo un pezzo di una storia più grande e che riguarda anche il nostro Paese.

La politica di espansione cinese
Il quattro giugno 1994, la Dainty River, del gruppo di Stato cinese Cosco, inaugurò quella che sarebbe presto diventata la prima piattaforma container italiana, il Vte di Genova Voltri. Era un mondo tutto diverso da quello di oggi: basti dire che la nave era dieci volte più piccola di quelle che oggi attraversano l’oceano cariche di cassoni colorati riempiti di giocattoli, elettrodomestici, capi di vestiario avanti e indietro tra Asia, Europae America.
Tredici anni dopo, Cosco è il terzo armatore mondiale e, secondo tutti gli osservatori, crescerà ancora. In Italia non solo è presente con le navi : la compagnia ha acquistato una quota nel nuovo terminal di Savona Vado (il 40%, il resto è in mano ai danesi di Maersk) e non si fermerà. «Potrebbero esserci nuove operazioni, certo, non è affatto da escludere», spiega Augusto Cosulich, l’uomo che storicamente gestisce gli affari dei cinesi nel nostro Paese. Per lui, gli investimenti della Repubblica Popolare sono un’opportunità, «soprattutto in un mondo dove gli Usa con Trump spingono verso il protezionismo». Ma è un parere che non tutti condividono. Sergio Bologna, uno degli studiosi più ascoltati in Italia in materia di logistica e trasporti marittimi, sostiene che «prima o poi gli investimenti della Cina nella logistica europea diventeranno un tema politico. Come d’altronde il caso greco dimostra».
Bologna si riferisce a una molto discussa decisione politica presa dal governo ellenico lo scorso 18 giugno, ovvero il veto posto su una dichiarazione in sede Onu dell’Unione europea di condanna della Cina sul tema dei diritti umani.
«Serve un approccio più costruttivo», ha spiegato il ministro degli Esteri ellenico.
Ma molti osservatori attribuiscono invece la scelta di Atene alla crescente influenza di Pechino sulla Grecia. «L’armamento greco è oggi in gran parte dipendente dal sistema finanziario cinese», spiega Bologna. Soprattutto, ricorda Bologna, la compagnia di Stato Cosco ha fatto del porto del Pireo la sua principale base logistica nel Mediterraneo, l’hub da cui partono e arrivano le navi e su cui sono in programma investimenti per oltre 500 milioni di euro. Il Pireo è il principale scalo nel Mediterraneo che Cosco gestisce direttamente.
Ma altri investimenti sono in programma, tra cui alcuni anche in Italia. Ma poi bisognerebbe considerare anche gli investimenti di China Post nell’aeroporto di Hannover, o i ripetuti tentativi di Ali Baba per sbarcare in Europa.
E poi, soprattutto, la questione dell’armamento : «Se mettiamo insieme gli investimenti nei porti europei e quelli per la flotta commerciale, l’intento geopolitico cinese è evidente» spiega Bologna.

Sfida tra i giganti del mare
Trasportare un container dall’Asia al Mediterraneo, oggi, costa poco più di 800 dollari. I valori sono molto volatili a seconda della stagione, ma si tratta comunque di prezzi molto bassi, sebbene due anni fa si sia toccato il minimo storico, con quotazioni che erano precipitate fino a 100-200 dollari per container. Sono almeno dieci anni che i costi del trasporto marittimo si mantengono a livelli molto bassi, nonostante la ripresa dell’economia globale. C’è un motivo e si chiama corsa al gigantismo: nel 2006 la compagnia danese Maersk fece molto rumore per il varo di una gigantesca portacontainer, Emma, che era in grado di trasportare fino a 14 mila container. Una misura che, allora, era considerata enorme. Per i danesi leader mondiali Emma era una grandissima scommessa: potendo trasportare così tanti container su una nave sola, i prezzi per singolo trasporto si abbassavano notevolmente grazie alle economie di scala. Ben presto, era l’obiettivo dei danesi, i piccoli armatori sarebbero stati costretti a uscire dal mercato per livelli di prezzo insostenibili. Peccato che non sia andata così: gli altri armatori hanno seguito i danesi in questa corsa ai giganti. Oggi esistono portacontenitori in grado di trasportare fino a 20 mila container. Il circolo vizioso è micidiale: più le navi diventano grandi, più i prezzi scendono. Più i prezzi scendono, più le compagnie ingrandiscono le navi per tagliare i costi. Ma la sostenibilità economica sta diventando un grosso problema per tutti.
La prima vittima è stata, lo scorso agosto, la compagnia Hanjin, sudcoreana, una flotta di 98 navi costrette a fermarsi da un momento all’altro, alcune di queste rimaste bloccate per mesi a causa del fallimento dichiarato dal tribunale di Seoul. Dopo, è stata la volta dei tedeschi di Rickmers. Per tutti gli altri, è partita una girandola di acquisizioni e alleanze che sta trasformando il mondo dello shipping: resisti solo se sei un gigante. Maersk ha incorporato la tedesca Hamburg Sud, le tre compagnie giapponesi si sono fuse, i francesi di Cma-Cgm hanno incorporato No1,. per rimanere alle ultime operazioni.
Qui entra in campo la grande operazione cinese: prima la Repubblica Popolare ha fuso le sue due compagnie - Cosco e China Shipping - in una sola, Cosco appunto. E quindi, a metà luglio, Cosco ha fatto un nuovo salto in avanti acquistando per 6,3 miliardi di dollari Oocl, compagnia di Hong Kong, diventando così il terzo armatore mondiale.
«Il campione nazionale cinese vuole confrontarsi ad armi pari con le compagnie europee private», spiega Oliviero Baccelli, docente di Economia dei trasporti alla Bocconi di Milano. La logica economica è ovviamente ineccepibile ma, in questo caso, c’è di più.
In un’analisi pubblicatalo scorso 17 luglio l’Economist sostiene che difficilmente la Cina fermerà la sua corsa, soprattutto per motivi politici: «Il controllo delle linee commerciali aiuterà la Cina in tempi di conflitti e di dispute. Il possesso di porti all’estero renderà più facile per la Marina della Repubblica Popolare dare seguito alle sue ambizioni di potersi muovere liberamente lontano dal proprio territorio». Il fatto è che questo sta accadendo a discapito degli europei: non c’è un singolo porto, in Cina, che sia controllato in maggioranza da società europee, mentre diversi porti europei sono in mano a società cinesi, a partire dal Pireo.
L’impero cinese dei mari e della logistica sta diventando, insomma, una questione politica. «Gli scioperi dei terminal ad Amburgo contro la concessione per un nuovo terminal container gestito da una società cinese evidenziano tutte le preoccupazioni europee (anche sulla gestione del lavoro)» spiega Baccelli. Anche senza voler rinunciare agli investimenti cinesi, è comunque necessario «avere un quadro regolatorio chiaro, condiviso fra i Paesi nei principi generali (modalità di rilascio delle concessioni, verifica dei business pian, modalità organizzative del lavoro), in modo da evitare forme di dumping sociale, come invece è ad esempio avvenuto nell'autotrasporto».
Degli investimenti cinesi, ad oggi, l’Europa e l’Italia sembra non poter fare a meno. Ma la questione è quale è il prezzo da pagare.

"pagina 99 we", 29 luglio 2017

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