Incontrai
la Mannoia al Portnoy, un baretto all’inizio di corso di Porta
Ticinese, a pochi metri dalla mia abitazione di Milano. Mi ritrovai
per caso vicino a lei, al bancone, e le rivolsi la parola.
Chiacchierammo un po’ e scoprii immediatamente quanto la politica
la appassionasse. Lei sapeva qualcosa di me e così trovai il
coraggio di invitarla a pranzo. Qualche giorno dopo le telefonai e -
per dare al nostro incontro il tono più informale possibile - le
proposi di vederci poco lontano da lì, in un’anonima spaghetteria
(oggi chiusa) in piazzale Resistenza Partigiana. Chiacchierare con
lei era semplice e divertente per il suo continuo alternare allegria
e seriosità. Mentre terminavano di mangiare, avvertimmo che sul
rumore della pausa pranzo degli impiegati della zona si imponeva,
acuta, una voce: era quella di Vanna Marchi, impegnata in un’animata
conversazione con alcuni commensali. Il suono e il tono e il recitato
di quella voce erano davvero unici e, così, raccontai a Fiorella che
uno dei più autorevoli etnomusicologi italiani, Roberto Leydi, aveva
dedicato un erudito saggio alla Marchi, rintracciando nelle sue
performance televisive l’eco e la tecnica della grande tradizione
dei venditori ambulanti emiliani.
La
cosa divertì molto la Mannoia, ma proprio in quel momento la voce
della Marchi straziò l’aria, con tonalità ancora più acuta:
«Fiorellaaa!», abbattendosi su di noi. Poi, la Marchi riempì
Fiorella di complimenti e rallegramenti, di apprezzamenti iperbolici
e di imbarazzanti lusinghe, mentre guardava me di sottecchi. Quando
mi ero presentato, non aveva capito il mio nome, né tanto meno il
mio mestiere, ma solo che avevo a che fare con la politica o con
qualcosa di simile. E, così, mi chiamò un paio di volte presidente,
e non ho mai saputo se intendesse del Consiglio o della Rca o della
Ricordi. Quindi, propose a Fiorella di fare un programma insieme («le
due rosse, che ti sembra?») e già immaginava la scena: tu canti e
io vendo le alghe. La sua presenza e la sua conversazione erano un
turbine di parole, gesti, suoni, colori, tali da stordire. Noi
l’ascoltavamo, introducendo a fatica qualche parola ogni tanto.
Poi, come era venuta, si dileguò, ancora turbinosamente.
Da
La musica è leggera,
il saggiatore, 2012
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