Dal sito “Le parole e
le cose” riprendo questo omaggio a Gigi Burruano, il cui ricordo mi
riporta alla giovinezza ribelle.
Una sera, dopo un piccolo
incidente allo Shanghai, la trattoria al primo piano nella piazzetta
della vucciria, Burruano si esibì per tutta la notte al “Bunker”
di Nino Drago, con cui quella sera andava d'accordo, soltanto per me
e Lillo Guarneri (un artista, che se n'è andato
via piuttosto giovane, anche per la sua radicale incompatibilità con
questa sporca società), incontrati per caso, recitando cose
che di solito non faceva, come alcuni divertenti monologhi di Renzino
Barbera.
Mi figuravo che prima o
poi l'avrei rincontrato e gli avrei ricordato quella notte: lui –
senza nulla rammentare di quel lontano passato – si sarebbe messo
un'altra volta a recitare per me, con la generosità dei grandi
uomini. (S.L.L.)
Luigi Maria Burruano,
detto Gigi, era molto semplicemente uno dei maggiori attori che
avesse l’Italia. Grazie al cinema in molti se ne erano accorti,
seppure di sfuggita. Ma comunque sulla stampa nazionale la sua morte
è stata consegnata a qualche trafiletto. Se ne è ricordata,
ovviamente, la città di Palermo, per la quale Burruano era un mito.
Certo, lo si è detto:
una carriera bruciata, stravizi, alcol, un malo carattere che lo
aveva fatto finire anche in carcere per l’aggressione al genero,
qualche anno fa. Gigi non era un furbo amministratore di sé. Negli
ultimi tempi si era ritirato nel quartiere dell’Uditore, in parte
clandestino nella sua città. Apparteneva a una tipologia di attori
scomparsi, colti e insieme radicatissimi in un mondo lumpen
scomparso che lui, proveniente dal mondo borghese, aveva adottato e
da cui era stato adottato. Non a caso lo aveva scovato Salvo Licata,
giornalista de “L’Ora” e drammaturgo, con il gruppo di cabaret
dei “Travaglini”.
Era la fine degli anni
’60, e Burruano per un paio di decenni fu l’anima del teatro
palermitano, insieme a una generazione di attori strepitosi e di
comici molti dei quali poi confluiranno nelle televisioni private.
L’uomo di teatro più grande di tutti era ovviamente Franco
Scaldati, e che nel suo spettacolo Attore con la o chiusa
(1974) fu diretto proprio da Burruano.
Purtroppo, per motivi
generazionali e geografici, ho potuto conoscere solo di sfuggita
quella stagione, ma ho la fortuna di aver visto Burruano e Giacomo
Civiletti in coppia, e di assistere a un paio di performance teatrali
di quelle più “alte”, più “ripulite” se si vuole, ma
comunque irresistibili: Palermo o cara, in cui Burruano
interpretava il Rancu Tanu, e una versione di Rinaldo in campo
con Masssimo Ranieri, in cui lui e Civiletti ereditavano non
indegnamente i ruoli di Franchi e Ingrassia.
La maschera tragica di
Burruano con l’età si accentua, e il cinema ci ha consegnato
soprattutto l’ultima fase della sua carriera. Dopo tante piccole
apparizioni, erano stati Marco Risi e Aurelio Grimaldi a farlo
conoscere, ma il suo primo ruolo da co-protagonista, e uno dei pochi,
è stato in Liberi (1994) di Gian Maria Tavarelli, in cui
interpretava il padre operaio di un giovanissimo Elio Germano.
Ma la sua estraneità al
cinema italiano era subito da brivido, e tale è rimasta. Burruano
era uno di quegli attori che illuminano un film anche comparendo
cinque minuti, e a volte aprono in esso delle faglie vertiginose:
questo lo rendeva prezioso, ma forse anche lo condannava a ruoli di
caratterista. Splendido sul versante comico (con Ficarra e Picone,
figli minori e già “borghesi” della tradizione cabarettistica,
con Albanese), e per i più perversi commovente in tutti i ruoli di
mafioso possibili, fino alle prime puntate dell’Onore e il
rispetto. In brevi ruoli lo ha bene usato Tornatore, ma i più lo
ricordano forse nel ruolo del padre di Peppino Impastato nei Cento
passi (2000) di Marco Tullio Giordana, insieme a Luigi Lo Cascio,
suo nipote.
Il suo monologo, ubriaco,
prima di essere investito da un’automobile, è straziante; ma forse
ancora più incredibile è la sua apparizione nell’unica regia
proprio di Lo Cascio, La città ideale: un film curioso,
incerto, che non si capisce bene dove vada a parare finché,
nell’ultimo quarto d’ora, entra in scena Gigi nei panni di un
avvocato e il film decolla, e si resta letteralmente a bocca aperta.
C’era una sorta di
istantaneo doppio movimento, nell’essere in scena di Burruano: da
un lato, l’impressione scioccante di verità, nell’inflessione, e
insieme l’esibizione di un recitare gigionesco, coinvolgente, quasi
a rivolgersi al pubblico scavalcando il testo o la regia. Insomma,
l’effetto era di avere davanti un attore che imitasse
perfettamente, senza recitare, un uomo che agiva recitando. Come se
l’istrionismo non fosse dell’attore ma del personaggio. Così si
spiegava anche l’oscillare del personaggio tra mosse
pseudo-aristocratiche, quasi parodistiche, e un basso continuo
mimetico da suburra: qualcosa che faceva sogghignare con un rictus ai
suoi ruoli drammatici, e stare col groppo in gola davanti alle sue
performance comiche più pure. In questa sua tarda fase, per fortuna,
ha incontrato anche Ciprì e Maresco, che lo hanno portato alla
Biennale di Venezia nello spettacolo Palermo può attendere,
con Scaldati e Mimmo Cuticchio (mai andato in tournée, e beato chi
c’era: ne scrisse un elogio acutissimo Franco Quadri). E finalmente
gli hanno assegnato un ruolo da protagonista, a fianco di Scaldati,
nel Ritorno di Cagliostro, circondato dai personaggi del mondo
di Cinico Tv e da glorie teatrali, da Civiletti a Gino Carista. Non è
un caso che siano stati i registi più irregolari del nostro cinema a
valorizzare la sua energia autodistruttiva e apocalittica che grazie
al cielo ha illuminato, e sabotato, angoli del nostro cinema recente.
Dal sito “Le parole e
le cose” (http://www.leparoleelecose.it/)
26 settembre 2017
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