Un' idea semplice e
ossessiva, un' idea centrale che propaga la sua energia a tutte le
altre idee e ne moltiplica la forza di suggestione: questo è il
segreto di tutti i grandi innovatori. Luigi Pirandello fu un grande
innovatore, e non perché inventò la sofistica chiamata
pirandellismo. La sofistica, se vi pare che ci sia, è una
conseguenza. L'innovazione di Pirandello consiste nell'umoristica
scoperta dell'ovvio: che l'ispirazione dello scrittore proviene dal
vedere e sentire la vita così com'è, come appare di fuori e di
dentro, come agisce e delira e cambia non si sa come. La vita che si
accorge di sé e si cerca oltre, che si accomoda o si ribella. Che si
finge o si denuda, che vorrebbe essere in un modo e si scopre
totalmente diversa. La vita che è spettacolo a se stessa. Ottusa e
folgorata da lancinanti astrazioni. Il nucleo originario dell'arte di
Pirandello è tutto qui.
E di qui nascono e si
diramano le variazioni più logiche e sorprendenti, le complicazioni
strutturali più vertiginose. Partendo da quell'ovvietà, vedere e
sentire la vita, tutto diventa problematico, instabile, indeciso,
paradossale. La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo
d'arrestare in forme fisse; noi persone siamo maschere illuse di
stabilità. I concetti, gli ideali, le finzioni che ci creiamo
tendono a costituirci uno stato. Ma dentro di noi stessi, in ciò che
noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua,
indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo,
componendoci una coscienza, una personalità. Accadono momenti che,
investite dal flusso, tutte le forme fittizie crollano miseramente.
Anche un atto infimo può rivelarci estranei a noi stessi. Alziamo
una mano nell'incoscienza; e il gesto ci resta sospeso. Ci pare
strano che l'abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere. Così può
cominciare un'operazine di smontamento, che peraltro ci permette di
varcare i limiti del nostro essere individuale; scomponiamo la
fissità del carattere e scopriamo le sue incongruenze.
L'umorismo, appunto,
consiste nel sentimento del contrario. Si dà per presunta l'identità
del nostro io? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in
lotta fra loro: l'anima istintiva, l'anima morale, l'anima affettiva,
l'anima sociale? L'io si altera, come argomenta la psicologia
sperimentale, scriveva Pirandello in un saggio del 1908, e questo è
un fenomeno meraviglioso: avvertire che l'identità è un
aggregamento temporaneo scindibile e modificabile di varii stati di
coscienza più o meno chiari. Volete che la critica estetica e la
creazione artistica non ne traggano partito?
Le vicende ordinarie, i
particolari comuni, la materialità della vita: ecco il campo
dell'impreveduto, dell'inverosimile quotidiano che sta sotto gli
occhi dello scrittore. Però attenzione, c' è una differenza. La
vita inventa perché è interessata a se stessa e vuole, lo sappia o
no, qualche cosa. Lo scrittore cerca di rendere significante,
disinteressatamente, il gioco della vita. Non ne fa un'imitazione, ne
scava criticamente la logica nascosta, la pazza fantasia, il vuoto e
la passione nel vuoto. L'arte di Pirandello è una incessante
competizione dialettica con la vita, una colluttazione perpetua,
tragicomica, con i corpi e con le ombre degli uomini. E i suoi
personaggi incarnano e ombrano questa grottesca e disperata contesa,
questa inane e necessaria controversia col mondo.
Importa di classificarli
sociologicamente? Bontempelli fece a mio avviso un'osservazione
profonda: Pirandello i suoi personaggi non li ha scelti, li ha
trovati, pescando su con la rete dal groviglio della piccola
borghesia. Ma non sono soltanto piccoli borghesi, sono anche borghesi
alti, nobili e nobilucci, possidenti e poveri in canna. Leggendo le
novelle, i romanzi, il teatro di Pirandello (forse anche assistendo
appena a qualche rappresentazione), ci si trova immersi nei casi
della gente. È un campionario vastissimo di singoli pescati tra i
fantasmi del prossimo. Certo, sono i singoli d'un'epoca borghese, ma
Pirandello non è scrittore ideologico; anzi, è un dissolutore, un
caricaturista di ideologie. Se poi in tante sue opere il borghese,
sempre piccolo quand'anche benestante, è rivelato crudelmente a se
stesso, ciò è frutto della penosa lucidità, degli smarrimenti e
della comica frenesia che l'autore presta alle proprie creature.
E dobbiamo forse credere
che a ogni personaggio di Pirandello abbia corrisposto un modello
abbozzato dalla realtà? Neanche per sogno. Forse nei primi tempi
dello scrittore, quando sui trent'anni o poco più era ancora vicino
al naturalismo. Ma ben presto la vita della realtà, quella di cui
abbiamo parlato finora (spesso parafrasando parole dell'autore),
divenne per lui un modello mentale. Potremmo dire: un istinto
mentale. Lo scrittore non sceglieva i personaggi, sceglieva e
inventava le situazioni. Il fu Mattia Pascal risale al 1904 e
già in questo romanzo la realtà ipotizzata dai naturalisti è
diventata fittizia e implicito oggetto di satira. Il gioco
ingarbugliato degli equivoci, gli atti gratuiti, il falso io che
prende il posto del vero dato per morto, il quale dunque resuscita
perché si falsifica, questi son tutti segni precoci della crisi del
personaggio e dei modi tradizionali del narrare. Molti reputati
critici, anche nel recente passato, non hanno saputo accettare lo
svolgimento del romanzo. Va benissimo che Mattia Pascal, identificato
nel cadavere di un suicida rinvenuto in istato di avanzata
putrefazione, approfitti della straordinaria occasione per liberarsi
di tutte le costrizioni sociali e si trasformi, con un nuovo nome, in
quel se stesso che non è mai stato. Ma che dopo due anni,
invischiato in nuove finzioni, faccia sparire e supporre suicida il
tale che era divenuto, per ricomparire al proprio paese come il
Pascal rincarnato, ah questo sarebbe un espediente, un tradimento del
tema. Ed è invece il dolente-ridevole sarcasmo del libro, il quale
si può leggere alla fine come una farsa ascetica.
Tornato in paese, Mattia
si rende conto che non vuole riprendere la sua vecchia vita (non mi
farò neppure riconoscer vivo ufficialmente, se proprio non mi
costringono). Si sistema ai margini e non sa più chi è, è il fu
Mattia Pascal COLPITO DA AVVERSI FATI (lo dice la tomba dello
sconosciuto che lì giace col suo nome). L'io non si sa cos'è. È un
nome, è un azzardo, è morto, è uno sconosciuto.
Se questo è il vero tema
del Mattia Pascal, emarginarsi dal mondo per l'impossibilità di
essere un io vero per sé e per gli altri, e diventare dunque un
nessuno, è facile vedere la stretta connessione che lo congiunge
all'ultimo romanzo di Pirandello apparso nel 1926, Uno, nessuno e
centomila. L' unica differenza è che Mattia si trova a cadere
nell' anonimo destino senza averlo lucidamente pensato e voluto,
quasi per ripicca, mentre Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno,
nessuno e centomila, scopre fin dal principio della vicenda di
essere un estraneo a se stesso costruito dagli altri a modo loro;
ognuno lo fa diverso e tutti lo falsificano. Anche lui non potrà
conoscersi, se pretenderà di costruirsi come uno. Non gli resta che
spogliarsi di tutte le connotazioni, le cosiddette qualità, gli
averi, farsi dare del pazzo, vivere non più in sé, ma in ogni cosa
fuori. Essere come un filo d' erba, una nuvola. Essere oggi il libro
che leggo, domani il vento che bevo. Nessun nome. La vita non
conclude.
Il romanzo è concepito
come una perorazione che il protagonista rivolge ai lettori, una
sorta di autodifesa umoristica, che colloca in una luce grottesca le
convenzioni sociali e gli istituti umani, e ribadisce l' annullamento
ascetico della fittizia realtà compiuto passivamente da Pascal. A
mezza strada tra i due romanzi ai quali abbiamo accennato si colloca
Quaderni di Serafino Gubbio operatore, pubblicato dapprima a
puntate con altro titolo nel 1915. Tenendo conto dell'ambientazione e
della poetica che ne ricava l' autore, di cui diremo subito
l'essenziale, è questo il romanzo più moderno di Pirandello. Il
mestiere di Serafino è di girare la manovella della macchina da
presa; l'ambiente di lavoro, che condiziona la sua vita, è lo studio
cinematografico. La qualità precipua che si richiede a un operatore
è la perfetta impassibilità di fronte all'azione che si svolge
davanti alla macchina, ossia di riprodurre con oggettivo risalto
scene finte. Sarebbe un altro discorso se usassimo la macchina da
presa per cogliere la vita così come vien viene, negli atti che si
fanno impensatamente quando si vive e non si sa che una macchina di
nascosto li stia a sorprendere. Come avrete afferrato, Pirandello
aveva intuito la candid camera e un possibile cinema-verità.
Ma ciò sempre all'interno della sua idea fissa centrale: poter
sorprendere la vita nel momento che essa si fa. Serafino è frustrato
e si sente superfluo. Quel suo girare la manovella (che del resto
sarà abolito quando si troverà un meccanismo per regolare il
movimento della macchina) è una fuga dalla realtà.
Il libro è ricco di temi
che non possiamo analizzare (c'è anche un intreccio melodrammatico
il cui schema sarà ripreso nella commedia Ciascuno a suo modo).
Basterà dire che grazie all'abitudine d'impassibilità, Serafino
continuerà a girare la manovella anche quando sul set accadrà, nel
bel mezzo d'una scena, un impreveduto spostamento dal copione:
l'attore che dentro una gabbia con l'operatore deve sparare a una
tigre, volge lentamente la mira fuori della gabbia, punta il fucile
sulla sua amante (un' attrice divoratrice d' uomini) e la uccide,
venendo poi sbranato dalla belva. Così Serafino ha colto finalmente
un momento di vita e ha rischiato il massimo pericolo per cogliere
una verità di morte (che frutterà tesori alla casa di produzione).
Serafino seguiterà nel suo impassibile mestiere, chiudendosi nel
mutismo. È diventato perfetto, una macchina, la macchina dello
straniamento, dell'inautenticità assoluta. Con tali romanzi, con le
novelle e con le opere teatrali Pirandello ha dissolto il
tradizionale statuto del personaggio; ha messo il personaggio contro
se stesso e contro l'autore. Accettare con impassibile ironia di
essere una maschera, oppure sparire, sciogliersi nelle cose. Sembrano
queste le due soluzioni offerte ai protagonisti del suo mondo.
Esclusi da queste
soluzioni, i personaggi ricadono nella vita in cerca d'un autore, nel
caos senza forma. I Sei personaggi in cerca d' autore, il
famosissimo dramma del 1921, mettono in scena se stessi presentandosi
al capocomico come persone reali; di fatto, recitando la loro storia
tragicamente convenzionale, si comportano come creature pirandelliane
(a cominciare dal Padre che vorrebbe essere giudicato per i tanti che
porta in sé e non per uno come gli altri si illudono che sia). Il
dramma mette in gioco la relazione della vita col teatro, in una
maniera intensamente dimostrativa che coinvolge lo spettatore, non
tanto per i casi recitati o esibiti sulla scena dai sei personaggi,
quanto per lo sdoppiamento a cui egli assiste (doppia verità, doppia
finzione). Un gioco di specchi. Per essere coerente, l'artista
dovrebbe dissolvere anche lo statuto di se stesso, diventare Dio o un
Mago. Nella più espressionistica delle opere teatrali pirandelliane,
Questa sera si recita a soggetto (1929), il regista dice
rivolgendosi al pubblico: “L' unica sarebbe se l' opera potesse
rappresentarsi da sé, non più con gli attori, ma coi suoi stessi
personaggi che, per prodigio, assumessero corpo e voce”.
In certe novelle, pur se
è difficile orizzontarsi tra le centinaia che ne ha scritte,
Pirandello raggiunge effetti mirabili di umorismo nero, di crudeltà
fantastica asciutta e calibratissima. Penso, per esempio, a Pubertà
e Cinci; una coppia di testi dall'esito opposto, che hanno per
protagonista un'adolescente e un ragazzo. O mi viene in mente Soffio,
che riesce a combinare surrealisticamente il macabro e la più
impalpabile delicatezza. Spesso nel puro grottesco e nelle invenzioni
comiche il primo Pirandello può riuscire più gradito a chi non ama
molto il pirandellismo. Poniamo, Il turno (romanzo del 1895) è
godibile quale un' opera buffa. Se è vero che Pirandello non
sceglieva i suoi personaggi, forse si può dire che non sceglieva
neppure tra le gamme dell' umorismo. Le praticava tutte, a rotazione.
Si arrovellava e rideva.
“la Repubblica”, 2
dicembre 1986
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