21.9.17

Non prosciughiamo il sogno di Talete. La siccità tra filosofia e immaginario (Leonardo Caffo)

Senza acqua. Se è vero che l’acqua è vita, allora il sillogismo è presto fatto: senza vita. La siccità è la condizione tale per cui non solo l’acqua ma appunto la vita viene a mancare, l’inizio (dati storici alla mano) di guerre, carestie, diminuzione della biodiversità, desertificazione e migrazioni di massa. Ma facciamo un tentativo, quello della filosofia: dove la vita trema ed è in crisi, stenta a fiorire, allora gli ecosistemi cedono insieme alla loro essenziale produzione primaria. Sono i prolegomeni della tragedia dei viventi, una tragedia che esprime un abisso.
Salto indietro, perché è necessario: quando Spinoza compone l’Etica, capolavoro senza tempo pubblicato postumo nel 1677, scrive in fondo un trattato sul pericolo della siccità. No, non è una forzatura ma un’analisi laterale della tesi del «Deus sive natura»: l’idea fondamentale secondo cui Dio possa essere identificato con la stessa natura. Natura, cosa complessa e bifida: l’insieme di tutte le cose ma anche il loro corso «normale», privo di alterazioni («l’ordine naturale delle cose»). Diciamo che se Dio è la natura allora ovunque, ovvero in ogni cosa, c’è traccia di Dio; continuiamo dicendo, scienza dalla nostra parte, che se la natura è possibile solo attraverso l’acqua che la nutre, ma questa viene a mancare, allora ancora giocando con i sillogismi anche Dio si ritrae: un mondo di siccità è un mondo senza Dio.

Da studenti liceali ci si chiede sempre perché Talete di Mileto identifichi come principio di tutte le cose proprio l’acqua, ma poi magari si scopre cos’era, o meglio dov’era Mileto, e il mistero si fa meno fitto: un promontorio meraviglioso non lontano dalla foce del fiume Meandro dove l’orizzonte coincide con il mare.
L’acqua, onnipresente sulle coste della Turchia su cui è nato lo stesso pensiero occidentale durante la dominazione greca, è da sempre un elemento preponderante della filosofia; lo stesso, non troppo lontano, era per la Sicilia di Empedocle per cui l’idea di matrice parmenidea che tutto sia in divenire è profondamente legata al mare di Agrigento e ai suoi templi perché la filosofia, come sosterrà Hegel, è sempre in qualche modo una forma elaborata di autobiografia.

Paradossi contemporanei: la siccità della Sicilia, un paradosso molto complesso. Circondata dall’acqua, ovunque lo sguardo si volga, eppure in costante emergenza per la sua mancanza: ciò che è visibile agli occhi può diventare impossibile all’uso. È colpa nostra, ed è ancora Spinoza: Dio è detto causa libera dell’universo, i danni o effetti collaterali sono merito o demerito dei mortali. La natura delle cose, almeno questa volta, non c’entra.

Un attimo ancora su Talete di Mileto, secondo Aristotele definibile come il primo vero filosofo d’occidente, il che fornisce il curioso elemento per cui la filosofia nasca proprio come pensiero sull’acqua: potremmo osare un terzo sillogismo che fornisca la conclusione che la siccità sia anche assenza di filosofia? Forse, si vedrà.
Pare che a Talete piacesse osservare il cielo fino a esserne ossessionato, in una specie di meteorologia ante litteram, e osservando i mutamenti di forma assunti dall’acqua pensò che anche lo stato solido e gassoso, vista la pioggia e l’evaporazione delle acque oltre che le nuvole e i venti, fossero derivabili da questa sua teoria del principio assoluto.
Spinoza, molti anni dopo, legherà ogni cosa a una natura poi non troppo diversa da quella di Talete e infine, l’ecologia contemporanea (che no, non è l’ambientalismo), oggi è ripartita proprio dalle relazioni naturali e dalle loro possibilità.
Siccità, dunque, come antitesi di un movimento che guida tanto le condizioni per la vita che quelle per il pensiero: il danno è più grave del previsto perché non riguarda solo l’oggetto, bensì anche il concetto. Talete era un filosofo speranzoso, come tanti prima dell’era del pensiero scientifico, perché poteva permettersi di credere che l’acqua fosse una risorsa illimitata dato che l’universo, tesi bislacca ma datata ventisei secoli, ne sarebbe interamente circondato (un’intuizione poi recuperata per metafora: la Terra, letteralmente, «galleggia»).
La filosofia di oggi, priva del lusso della speranza, sa invece che una delle matrici di tutte le cose è anche un bene finito: se tutto quadra l’emergenza allora è totale. Con l’acqua non si beve o ci si nutre, con l’acqua, ovvero attraverso di essa, si esiste: dai battesimi alle aspersioni lo spazio del simbolico è essenzialmente imo spazio liquido, umido, viscoso. Questo chiama a sé il problema, ne abusiamo perché ne sentiamo la necessità. Le donne del mito sono sirene, creature sospese tra l’acqua e la terra: cosa resterebbe di loro se la siccità trionfasse? I miti non possono morire. Il simbolismo si gira dunque al contrario e l’acqua diventa morte, non più vita: naufragi, annegamenti, Scilla e Cariddi, mostri marini e avvelenamenti.

Non solo deus, ma Infernum sive Natura. Ecco dunque una breve filosofia della siccità: l’acqua non va solo contemplata, ma conservata, talvolta addirittura trasformata. Succede, aprendo e chiudendo con rapidità una difficile parentesi, all’acqua quello che con Marx è successo alla filosofia. La siccità, che spesso è ciclica come le stagioni, torna sempre più prepotente a ricordarci la teoria antica e maestosa di Talete e quella moderna e romantica di Spinoza: occhio, mortali, arriverà l’inverno ma non per sempre. Anche l’alternanza delle cose, quello che chiamiamo «ciclo», va guadagnato. «Siccità», avrebbe detto il filologo, come tutte le parole contiene già gli effetti dell’oggetto che denota: dal latino «siccitas», descrive ciò che è secco.

È l’aridità, ancora una volta tanto materiale che intellettuale, tanto fisica che metafisica, che torna e ritorna: bisogna centellinare l’acqua, come sarebbe necessario farlo con le azioni, onestamente addirittura con i pensieri. Siccità, per finire con questa nostra storia metaforica (forse), come invito alla parsimonia e alla semplificazione: se con «solo» l’acqua, qui il sogno di Talete, si è fatto il mondo, come si può dubitare del fatto che «il più» si faccia solo attraverso «il meno»? Oggi, rimaniamo icastici, si «cercano» i responsabili della siccità in un gioco delle parti (che sarebbe ridicolo se non fosse tragico) come se non fosse evidente che a giocare con l’assoluto prima o poi si annega; si parla di «stato di emergenza» un po’ ovunque, fingendo di non sapere come si è creato il disastro, mentre invece andrebbe chiamato col nome che gli spetta e che potrebbe usare Giorgio Agamben: «stato di eccezione».
Saltata la norma, che adesso sappiamo essere la norma di Dio, della vita, ma soprattutto del pensiero, allora tutto sarà concesso agli umani mortali che la teologia di Spinoza lascia liberi di sbagliare: si troveranno nuovi modi per non pensare, nuove strategie per evitare la conservazione affrontando le cause, si continueranno a ignorare gli effetti secondari della nostra impronta perché quell’acqua è comune e i viventi che soffrono, purtroppo, non sono solo quelli a due zampe.
Di imparare dall’acqua, come voleva Talete, ancora non se ne parla: ma potrebbe essere lei a imparare da noi e allora attenti. Verrà la siccità e avrà i tuoi occhi.


“il manifesto”, 30 luglio 2017

Nessun commento:

statistiche