Senza acqua. Se è vero
che l’acqua è vita, allora il sillogismo è presto fatto: senza
vita. La siccità è la condizione tale per cui non solo l’acqua ma
appunto la vita viene a mancare, l’inizio (dati storici alla mano)
di guerre, carestie, diminuzione della biodiversità,
desertificazione e migrazioni di massa. Ma facciamo un tentativo,
quello della filosofia: dove la vita trema ed è in crisi, stenta a
fiorire, allora gli ecosistemi cedono insieme alla loro essenziale
produzione primaria. Sono i prolegomeni della tragedia dei viventi,
una tragedia che esprime un abisso.
Salto indietro, perché è
necessario: quando Spinoza compone l’Etica, capolavoro senza
tempo pubblicato postumo nel 1677, scrive in fondo un trattato sul
pericolo della siccità. No, non è una forzatura ma un’analisi
laterale della tesi del «Deus sive natura»: l’idea fondamentale
secondo cui Dio possa essere identificato con la stessa natura.
Natura, cosa complessa e bifida: l’insieme di tutte le cose ma
anche il loro corso «normale», privo di alterazioni («l’ordine
naturale delle cose»). Diciamo che se Dio è la natura allora
ovunque, ovvero in ogni cosa, c’è traccia di Dio; continuiamo
dicendo, scienza dalla nostra parte, che se la natura è possibile
solo attraverso l’acqua che la nutre, ma questa viene a mancare,
allora ancora giocando con i sillogismi anche Dio si ritrae: un mondo
di siccità è un mondo senza Dio.
Da studenti liceali
ci si chiede sempre perché Talete di Mileto identifichi come
principio di tutte le cose proprio l’acqua, ma poi magari si scopre
cos’era, o meglio dov’era Mileto, e il mistero si fa meno fitto:
un promontorio meraviglioso non lontano dalla foce del fiume Meandro
dove l’orizzonte coincide con il mare.
L’acqua, onnipresente
sulle coste della Turchia su cui è nato lo stesso pensiero
occidentale durante la dominazione greca, è da sempre un elemento
preponderante della filosofia; lo stesso, non troppo lontano, era per
la Sicilia di Empedocle per cui l’idea di matrice parmenidea che
tutto sia in divenire è profondamente legata al mare di Agrigento e
ai suoi templi perché la filosofia, come sosterrà Hegel, è sempre
in qualche modo una forma elaborata di autobiografia.
Paradossi
contemporanei: la siccità della Sicilia, un paradosso molto
complesso. Circondata dall’acqua, ovunque lo sguardo si volga,
eppure in costante emergenza per la sua mancanza: ciò che è
visibile agli occhi può diventare impossibile all’uso. È colpa
nostra, ed è ancora Spinoza: Dio è detto causa libera
dell’universo, i danni o effetti collaterali sono merito o demerito
dei mortali. La natura delle cose, almeno questa volta, non c’entra.
Un attimo ancora
su Talete di Mileto, secondo Aristotele definibile come il primo vero
filosofo d’occidente, il che fornisce il curioso elemento per cui
la filosofia nasca proprio come pensiero sull’acqua: potremmo osare
un terzo sillogismo che fornisca la conclusione che la siccità sia
anche assenza di filosofia? Forse, si vedrà.
Pare che a Talete
piacesse osservare il cielo fino a esserne ossessionato, in una
specie di meteorologia ante litteram, e osservando i mutamenti
di forma assunti dall’acqua pensò che anche lo stato solido e
gassoso, vista la pioggia e l’evaporazione delle acque oltre che le
nuvole e i venti, fossero derivabili da questa sua teoria del
principio assoluto.
Spinoza, molti anni dopo,
legherà ogni cosa a una natura poi non troppo diversa da quella di
Talete e infine, l’ecologia contemporanea (che no, non è
l’ambientalismo), oggi è ripartita proprio dalle relazioni
naturali e dalle loro possibilità.
Siccità, dunque, come
antitesi di un movimento che guida tanto le condizioni per la vita
che quelle per il pensiero: il danno è più grave del previsto
perché non riguarda solo l’oggetto, bensì anche il concetto.
Talete era un filosofo speranzoso, come tanti prima dell’era del
pensiero scientifico, perché poteva permettersi di credere che
l’acqua fosse una risorsa illimitata dato che l’universo, tesi
bislacca ma datata ventisei secoli, ne sarebbe interamente circondato
(un’intuizione poi recuperata per metafora: la Terra,
letteralmente, «galleggia»).
La filosofia di oggi,
priva del lusso della speranza, sa invece che una delle matrici di
tutte le cose è anche un bene finito: se tutto quadra l’emergenza
allora è totale. Con l’acqua non si beve o ci si nutre, con
l’acqua, ovvero attraverso di essa, si esiste: dai battesimi alle
aspersioni lo spazio del simbolico è essenzialmente imo spazio
liquido, umido, viscoso. Questo chiama a sé il problema, ne abusiamo
perché ne sentiamo la necessità. Le donne del mito sono sirene,
creature sospese tra l’acqua e la terra: cosa resterebbe di loro se
la siccità trionfasse? I miti non possono morire. Il simbolismo si
gira dunque al contrario e l’acqua diventa morte, non più vita:
naufragi, annegamenti, Scilla e Cariddi, mostri marini e
avvelenamenti.
Non solo deus,
ma Infernum sive Natura. Ecco dunque una
breve filosofia della siccità: l’acqua non va solo contemplata, ma
conservata, talvolta addirittura trasformata. Succede, aprendo e
chiudendo con rapidità una difficile parentesi, all’acqua quello
che con Marx è successo alla filosofia. La siccità, che spesso è
ciclica come le stagioni, torna sempre più prepotente a ricordarci
la teoria antica e maestosa di Talete e quella moderna e romantica di
Spinoza: occhio, mortali, arriverà l’inverno ma non per sempre.
Anche l’alternanza delle cose, quello che chiamiamo «ciclo», va
guadagnato. «Siccità», avrebbe detto il filologo, come tutte le
parole contiene già gli effetti dell’oggetto che denota: dal
latino «siccitas», descrive ciò che è secco.
È l’aridità,
ancora una volta tanto materiale che intellettuale, tanto fisica che
metafisica, che torna e ritorna: bisogna centellinare l’acqua, come
sarebbe necessario farlo con le azioni, onestamente addirittura con i
pensieri. Siccità, per finire con questa nostra storia metaforica
(forse), come invito alla parsimonia e alla semplificazione: se con
«solo» l’acqua, qui il sogno di Talete, si è fatto il mondo,
come si può dubitare del fatto che «il più» si faccia solo
attraverso «il meno»? Oggi, rimaniamo icastici, si «cercano» i
responsabili della siccità in un gioco delle parti (che sarebbe
ridicolo se non fosse tragico) come se non fosse evidente che a
giocare con l’assoluto prima o poi si annega; si parla di «stato
di emergenza» un po’ ovunque, fingendo di non sapere come si è
creato il disastro, mentre invece andrebbe chiamato col nome che gli
spetta e che potrebbe usare Giorgio Agamben: «stato di eccezione».
Saltata la norma, che
adesso sappiamo essere la norma di Dio, della vita, ma soprattutto
del pensiero, allora tutto sarà concesso agli umani mortali che la
teologia di Spinoza lascia liberi di sbagliare: si troveranno nuovi
modi per non pensare, nuove strategie per evitare la conservazione
affrontando le cause, si continueranno a ignorare gli effetti
secondari della nostra impronta perché quell’acqua è comune e i
viventi che soffrono, purtroppo, non sono solo quelli a due zampe.
Di imparare dall’acqua,
come voleva Talete, ancora non se ne parla: ma potrebbe essere lei a
imparare da noi e allora attenti. Verrà la siccità e avrà i tuoi
occhi.
“il manifesto”, 30
luglio 2017
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