È morto a metà luglio
Pino Pelosi, detto “la rana”, il ragazzo che andò con Pasolini
la notte della sua uccisione e che di essa accusò soltanto se
stesso, sopportando per questo qualche anno di reclusione. La morte
ha suscitato – com'era inevitabile – qualche ritorno di fiamma
sulla morte del poeta, anche perché il Pelosi, due anni fa, a
quarant'anni da quella tragica notte dei Morti, aveva rivelato di
aver fatto solo da esca e che altri erano gli assassini.
Una polemica s'è
sviluppata sulle colonne del “Piccolo”, il quotidiano di Trieste,
ove il 22 luglio ha pubblicato un suo articolo lo scrittore
Ferdinando Camon. Non è reperibile in rete e non mi è stato
possibile leggerlo per intero, ma dalla foto pubblicata nel sito “Il
primo amore” e che qui riprendo, come dalle citazioni che ne fa chi
polemizza con lui, mi pare che ribadisca le tesi espresse due anni
fa, in occasione delle rivelazioni di Pelosi, in un articolo per i
“Quotidiani del Triveneto” (che ho recuperato dal sito dello
scrittore). Il 24 luglio il giornale ha diffuso una puntuale replica
di Carla Benedetti, che ho ripreso come le foto dal sito “Il primo
amore”. (S.L.L.)
Caso chiuso e
chiaro (Ferdinando Camon)
Le nuove, fastidiose
rivelazioni su com'è morto Pasolini, acutizzano nella nostra mente e
nella nostra coscienza un dolore che non s'è mai placato. Tutti
abbiamo dei sensi di colpa per quella morte. Democristiani e
comunisti, cattolici e atei, omosessuali ed eterosessuali, scrittori
e lettori. L'assassino di Pasolini, che all'epoca era minorenne, e
che ha ormai scontato tutta la pena, è apparso in tv sabato scorso e
ha capovolto la prima versione dei fatti. Allora, trent'anni fa,
disse che Pasolini l'aveva aggredito e che lui s'è difeso, nella
lotta il poeta-scrittore-regista è stramazzato a terra e lui,
rubandogli l'Alfa Romeo 1750, è passato con due ruote sul corpo
steso a terra e gli ha spaccato due costole, le costole sono entrate
nel cuore, e la vita di Pasolini s'è fermata. Le corti che han
giudicato l'assassinio non hanno mai dubitato della colpevolezza del
ragazzo Pino Pelosi. Hanno però pensato, specialmente quella di
primo grado, che ci fossero anche altri, con lui. Che sia stato un
pestaggio collettivo. Un gruppetto di neofascisti avrebbe organizzato
e attuato, sul poeta comunista (ma io direi cattolico-comunista
incompreso dai cattolici e dai comunisti), una spedizione assassina.
Le sentenze successive hanno sempre più velato la presenza dei
complici. Se ci furono, non han lasciato tracce. E siamo all'oggi:
oggi il ragazzo condannato per l'assassinio viene a dire che lui non
è l'assassino, non ha ucciso Pier Paolo: era stato caricato in auto
da Pier Paolo alla stazione Termini, sul lato di via Marsala, era
stato portato a un ristorantino (Pier Paolo non mangiò ma pagò con
un assegno, per anni il ristoratore esibiva l'assegno a chi voleva
vederlo, adesso non più, perché un cliente gliel'ha rubato), da lì
sulla radura spelacchiata e sporca di Ostia, e lì era avvenuto quel
che Pasolini, onestamente, aveva chiesto fin dall'inizio: un rapporto
sessuale orale, al prezzo di ventimila lire. Fin qui tutto bene,
dicono le cronache. Ma non è vero. Usare il corpo di un minorenne
solo perché si è in grado di pagarlo è un crimine sessuale e
sociale. Pasolini è la vittima di quella notte, stiamo scrivendo di
questo. Ma aveva già fatto una sua vittima. E non lo dico da etero:
se avesse preso e comprato una bambina minorenne, direi le stesse
cose. Secondo la versione di trent'anni fa, consumato il rapporto,
Pasolini insisté con un gioco che al ragazzo non piacque: e cioè
(così mi raccontò Moravia) urtò il ragazzo sul coccige con la
punta di un bastone. Il ragazzo s'infuriò. E cominciò la lotta.
Secondo la versione di sabato scorso, invece, Pasolini si comportò
"come un gentiluomo", ma finito tutto balzò fuori dal buio
un branco di fascisti: uno picchiò e immobilizzò il Pelosi, altri
due si buttarono su Pasolini pestandolo e fracassandolo con grida di
"fetuso" e "sporco comunista". Pasolini urlava,
Pelosi anche, gli assassini erano scatenati. Quando il poeta cadde,
gli assassini scapparono, ma prima lanciarono al Pelosi l'ordine di
non parlare, se no avrebbero ammazzato anche lui e i suoi genitori. E
così Pelosi non fiatò per trent'anni. Parla oggi, perché i suoi
genitori sono morti, e pensa che gli assassini siano morti anche
loro, o siano stravecchi. Dunque, Pasolini morto per antifascismo,
non per omosessualità. Ucciso dallo Stato. Dai servizi segreti.
Dalla DC. Forse da Andreotti, che infatti dichiarò: "Se l'è
cercata".
La polemica è feroce
perché è feroce, implacabile questa esigenza: di mondare Pasolini
dalla morte per omosessualità e consegnarlo alla storia come morto
per antifascismo. La morte per antifascismo risponde a un bisogno
degli amici di Pasolini, e non riesco a capire perché. Pasolini è
stato tre volte mio padre (prefatore del mio primo romanzo, delle mie
prime poesie, dedicò un saggio critico al mio primo libro di
critica): gli voglio molto bene, ma non sento il bisogno di mondare
la sua morte. E' morto come tante volte aveva rischiato di morire. La
nuova versione di Pino Pelosi è enormemente inattendibile per tante,
troppe ragioni, tutte gravi, determinanti, decisive. Fuggendo con
l'auto, Pelosi passò sul corpo del poeta: ma per passarci sopra
dovette deviare, una sterzata a sinistra, premerlo con due ruote, e
poi sterzare nuovamente a destra, per imboccare la strada.
Interrogato, si confonde: "Non lo so, ho sterzato, non ho
sterzato, non lo so". In realtà con quella sterzata lui ha
"deciso" la morte, e questa decisione non può non
ricordarla. Chi ha ucciso, sa bene quando l'ha voluto, e come. La
lotta sul corpo di Pasolini ebbe varie fasi e si svolse in vari
posti, accanto all'auto, a trenta metri, a settanta metri. Nel primo
posto fu trovato un anello di Pelosi. Lui lo riconosce. Con la prima
versione, gli è stato sfilato nella colluttazione. Con la seconda
versione, non riesce a dire perché gli sia caduto lì. Nel secondo
posto Pasolini si fermò, si sfilò una maglietta, si asciugò il
sangue. Una pausa. Negli scontri a due (i duelli) una pausa c'è
spesso. Nelle guerre di branco, mai. E poi, prima si diceva che un
branco di fascisti, in moto, seguì l'Alfa Romeo di Pasolini fino al
campetto, per massacrarlo. Ma il benzinaro che faceva il turno di
notte, su quella strada, non vide passare nessuna moto: la tesi del
branco inseguitore non ha fondamento. Adesso salta fuori la tesi del
branco già sul posto, in agguato, con Pelosi che faceva da esca: ma
Pelosi non sapeva dove Pasolini l'avrebbe condotto, come avrebbe
potuto informarne gli amici? E poi, che amici, se neanche li
conosceva? In tv continuano a parlare di "bastone" usato da
Pelosi, ma quello che è agli atti è una clava: con quella clava, la
testa di un uomo si può maciullare, e maciullata era la testa di
Pasolini, che in tv han mostrato all'una di notte. Chi sente il
bisogno di far morire Pasolini per antifascismo sente il bisogno di
trovare un colpevole per quella morte, un colpevole esterno, la
polizia segreta, il partito della Chiesa, il governo, la Destra.
Anch'io credo che la morte di Pasolini sia una morte per colpa.
Anzitutto sua: non si gira di notte in auto per comprare minorenni.
Ma anche nostra: è colpa di tutti se uno, perché omosessuale, deve
consumare la sua sessualità così, di nascosto, in fuga, a
pagamento, tra minacce continue (altre volte gli avevano spaccato il
naso), in Italia e nel Terzo Mondo. Pasolini è stato utile a tutti
noi, ha denunciato molti nostri problemi, politici, morali, sociali,
ha condotto analisi, esposto denunce per noi. Noi non abbiamo fatto
niente per lui. Noi cattolici, noi democratici, noi comunisti, noi
moralisti, noi italiani l'abbiamo lasciato sprofondare nella
vergogna. Il PCI l'ha espulso per indegnità, invece di capire che
anche gli omosessuali sono vittime della società borghese. La Chiesa
l'ha maledetto, mettendo l'omosessualità tra "i peccati che
gridano vendetta al cospetto di Dio". Il padre si vergognava di
lui (ma ritagliava tutti i suoi articoli; a Casarsa, Pasolini è
sepolto insieme con la madre, in una tomba doppia, una tomba
matrimoniale; il padre sta da solo, distante). La psicanalisi non
l'ha aiutato (è andato in analisi da Cesare Musatti, ma dopo
sette-otto sedute s'è ritirato). Queste sono le nostre colpe. Non
l'abbiamo capito. Cerchiamo di capirlo adesso, e accettiamolo per
quel che è stato. La sua scrittura grande era e grande resta. La sua
vita è finita com'è finita. Pace.
Quotidiani delle Venezie,
10 maggio 2005
La “verità” su
Pasolini è solo una sceneggiata (Carla Benedetti)
Leggendo l’articolo di
Ferdinando Camon uscito su Il Piccolo di Trieste del 22 luglio,
“Chiaro e chiuso il caso Pasolini”, un brivido di indignazione mi
ha colta. E subito dopo una grande pena per Pier Paolo Pasolini. Non
solo massacrato di colpi e infine schiacciato dall’auto dopo
un’agonia terribile, ma nemmeno mai risarcito nell’unico modo in
cui si può risarcire una vittima: facendo luce sul delitto e
condannando i colpevoli. Infatti la verità su quell’omicidio non è
ancora emersa, dopo quarant’anni. E i colpevoli, esecutori e
mandanti, non hanno ancora pagato per quel crimine. Ma Camon dice che
il caso Pasolini è chiaro. E si stupisce che ci sia qualcuno che
invece lo considera aperto.
L’offesa però non
finisce qui. Povero Pasolini due volte! Non solo vittima senza
risarcimento di giustizia né di verità, ma persino inchiodato a una
morte infamante (ucciso mentre tentava di violentare un minorenne),
come vuole la versione ufficiale che per decenni è stata data
dell’omicidio. Noi oggi sappiamo che è falsa, che non era altro
che una sceneggiata costruita a tavolino dai mandanti per coprire un
altro tipo di delitto. Ma per tanto, troppo tempo ci hanno creduto in
tanti in Italia. Tanti uomini di cultura, tanti giornalisti, tanti
scrittori, tanti politici, che si sono così resi complici,
inconsapevolmente o meno, di un depistaggio durato quarant’anni.
Questa sceneggiata viene oggi ri-raccontata da Camon ai lettori di
questo giornale come se fosse certa (tra l’altro chiamando a
testimone Moravia, che invece, come è noto da tante sue
dichiarazioni, non ci ha mai creduto) e ce la ripropone persino con i
particolari scabrosi con cui all’epoca fu condita per renderla più
efficace: “Mentre il ragazzo si tirava su i jeans, Pasolini
raccolse da terra un bastone e con la punta del bastone urtò il
ragazzo sul coccige. Il ragazzo s’infuriò”. Povero Pasolini,
massacrato per ordine di mandanti ancora ignoti e ancora oggi
infamato, e da un collega, da un uomo di cultura, che avrebbe quanto
meno il dovere di informarsi sul caso di cui scrive, prima di fare
certe affermazioni. Camon pare persino ignorare che di recente si
sono svolte nuove indagini, che hanno rilevato sugli abiti di
Pasolini il DNA di cinque individui diversi oltre a quello di Pelosi.
E ignora tanti altri fatti e testimonianze, ormai resi pubblici, che
smentiscono quella versione, da lui posta come un dogma. Eccone
qualcuno:
1. Pasolini già
frequentava Pelosi da alcuni mesi. Glielo aveva presentato Nico
Naldini. La loro relazione era nota agli amici. La versione ufficiale
lascia invece credere che Pasolini lo abbia rimorchiato per caso
quella notte alla Stazione Termini.
2. La notte dell’omicidio
Pasolini non andava a rimorchiare ragazzi ma a incontrare un
ricattatore da cui si aspettava di avere indietro le bobine del film
Salò che gli erano state rubate, portando i soldi per il riscatto
sotto il tappetino dell’auto.
3. Sul luogo del delitto
c’erano altre auto oltre a quella di Pasolini, una moto e diverse
persone di cui oggi si conosce l’identità: i fratelli Borsellino,
Antonio Pinna e, probabilmente, Johnny Lo Zingaro (il criminale evaso
qualche settimana fa).
4. Nel 2005 Pelosi, dopo
aver scontato la pena, ha ritrattato la sua prima confessione,
sostenendo di essersi accusato dell’omicidio perché sotto
minaccia.
Pino Pelosi non ha ucciso
Pasolini, ma si è macchiato ugualmente di un crimine terribile. Ha
testimoniato il falso. Si è autoaccusato di un omicidio che non
aveva commesso, probabilmente sotto minaccia di morte, per lui e per
i suoi familiari. E così ha reso credibile quella sceneggiata. La
quale però non avrebbe potuto reggere per tanti anni se non ci
fossero stati depistaggi nelle indagini, e senza le complicità,
compresa quella, inconsapevole o meno, di tanti uomini di cultura
italiani che l’hanno presa per buona senza alcuno scrupolo di
verità, e ci si sono affezionati ricamandoci su, facendo di questa
morte da “frocio che se l’è andata a cercare”, una “morte
sacrificale”, la “bella morte” del poeta omosessuale, “il suo
capolavoro”. Ed era solo una sceneggiata!
“Il Piccolo”, 24
luglio 2017
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