Giornalista, attore,
sceneggiatore, insomma intellettuale poliedrico ed “irregolare”,
sempre fuori dagli schemi. Il suo volto è sicuramente più noto del
suo nome. Se diciamo Vincenzo Talarico è molto facile che in molti
rispondano: e chi è? Ma se diciamo: ti ricordi l’avvocato
monarchico nel film Il Vigile con Alberto Sordi oppure
l’avvocato difensore in Un giorno in pretura diretto da
Steno? Sicuramente avremo una risposta di questo tipo: ah sì, quello
che faceva anche l’onorevole Borgiani in Un americano a Roma”
e l’avvocato di Francesco Dominici in Non c’è pace tra gli
ulivi! Ecco, proprio lui, l’avvocato per antonomasia, con quel
suo occhio sinistro strabico, che abbiamo apprezzato nei più celebri
film neorealisti e comici del dopoguerra.
Sarebbe però un
oltraggio alla sua memoria se lo ricordassimo soltanto in questa
veste, perché Vincenzo Talarico, nella sua vita non proprio lunga, è
stato molto altro ancora. Non solo attore comico e caratterista.
Nato ad Acri (Cosenza)
nel 1909, intorno alla metà degli anni trenta approda nella
capitale, dove inizia la sua brillante carriera di giornalista. Sono
anni densi di lavoro e di soddisfazioni, in cui Talarico alterna i
ruoli di redattore, critico teatrale, inviato speciale, presso i
principali quotidiani italiani, da “Il Resto del Carlino” a “Il
Messaggero”, da “La Stampa” a “Momento Sera”.
Negli anni le sue
collaborazioni con quotidiani e riviste divennero sempre più
numerose e qualificate, spaziando dalle rubriche su “L’Europeo”
a quelle su “Epoca” e “Vie Nuove”, la rivista di cultura e
società fondata da Luigi Longo nel 1946, la stessa che ospitò i più
noti “dialoghi” con i lettori di Pier Paolo Pasolini, poi
raccolti nel libro Le Belle bandiere.
Da annoverare tra gli
intellettuali “irregolari” e geniali che ruotavano intorno alla
figura di Leo Longanesi, Talarico fu anche scrittore raffinato e
tagliente. Suoi sono i romanzi Vita romanzata di mio nonno,
Pasquino insanguinato, Mussolini in pantofole, Claretta
fiore del mio giardino, Le escursioni degli intellettuali.
Tra i suoi libri però merita una citazione a parte Otto
settembre. Letterati in fuga, edito da Canesi nel 1965
(Rubbettino, 2003). Un racconto di rara bellezza sui fatti che
seguirono alla data dell’Armistizio, narrati attraverso
l’esperienza tragicomica e rocambolesca di intellettuali come lo
stesso Longanesi, Patti, De Feo, Calcagno, Steno, Soldati, Cianca. In
esso l’autore sfoggia una capacità davvero magistrale nel trattare
sul filo sottile dell’ironia i lati dolorosi, e anche farseschi,
di una vicenda che ha segnato in profondità l’animo di un popolo.
A ben vedere la “fuga” in questo lavoro è forse intesa anche
autoironicamente, e metaforicamente, come passaggio camaleontico di
una certa intellighenzia italiana dal fascismo all’antifascismo,
dopo la caduta rovinosa del regime.
Nel cinema il suo esordio
fu come sceneggiatore, con il film Senza cielo del 1940, diretto da
Alfredo Guarini. Poi una lunga lista di pellicole, ventisette in
tutto, da Il Brigante Musolino a Pane amore e gelosia, passando per
Il Moralista, Gli anni ruggenti, Il medico dei pazzi e Totò cerca
casa, solo per citare quelli più noti al grande pubblico, che,
indiscutibilmente, hanno fatto la storia del cinema italiano.
Nel 2008 è uscita, a
cura di Antonio Panzarella e Santino Salerno una sua biografia,
Vincenzo Talarico, un calabrese a Roma, edito da Rubbettino.
Un volume in cui sono condensate testimonianze scritte e foto, ma
soprattutto i ricordi di tanti intellettuali e artisti, tra cui Aldo
Giuffrè, Franca Rame, Dario Fo e Aroldo Tieri, che l’hanno
conosciuto o con lui hanno lavorato.
Il personaggio è
presente anche nei racconti di un altro libro, che più di ogni altro
fa rivivere l’atmosfera briosa, scanzonata, che regnava in certi
ambienti intellettuali romani negli anni cinquanta: “Con Flaiano e
Fellini a via Veneto: dalla “Dolce vita” alla Roma di oggi”, di
Giovanni Russo, altro grande intellettuale meridionale, giornalista e
romanziere, edito nel 2005 da Rubbettino.
Bello un passaggio del
Russo in questo volume, quando, a proposito dei suoi incontri a
Piazza del Popolo con altre figure straordinarie del cinema, della
letteratura e dell’arte di quegli anni, parla di “uomini del
cinema, e grandi malelingue, come Vincenzo Talarico”, a
sottolineare il carattere irriverente, un po’ guascone, del nostro.
Quel carattere che costituirà la cifra del suo impegno civile, come
intellettuale poliedrico e fuori dal coro, mai prono alle convenienze
del momento. Non è un caso che il suo nome venga di sovente
associato, insieme a quello di Longanesi, al termine “libertarismo”,
in una sua accezione de-ideologizzata e de-storicizzata. Libertarismo
inteso come individualismo assoluto, rifiuto delle etichette e dei
compromessi morali, vitalismo anarcoide. In fondo i temi che
ritroviamo, più prosaicamente, in termini per così dire “leggeri”,
alla base di celeberrimi film come I vitelloni e La Dolce
vita, pellicole indimenticabili sulla ritrovata voglia di vivere
nell’Italia della ricostruzione e del boom economico, ma anche
specchio di quell’Italia che ad Ennio Flaiano fece dire: “La
nostra generazione l’ha preso in culo. I preti da una parte, i
comunisti dall’altra”.
E allora Longanesi,
Flaiano, Soldati, Steno, Maccari, Talarico, ecc. Ma potremmo
aggiungere Montanelli, per certi versi Vittorini, poi Pasolini, tutti
quegli intellettuali che hanno fatto della libertà, dell’autonomia,
dell’irriverenza verso il potere e la morale consolidata, la cifra
della loro esistenza. Regalandoci nondimeno pagine e fotogrammi di
vita nazionale esemplari nella loro forza evocativa e nel loro valore
letterario.
Il 16 agosto scorso è
ricorso il quarantesimo anniversario della morte di Vincenzo
Talarico. Forse non si è detto e scritto abbastanza sulla vita
straordinaria di questo calabrese, eccetto le lodevoli iniziative
della Fondazione Vincenzo Padula di Acri, presso la quale è stato
costituito un apposito fondo a lui dedicato.
“Calabria on web”, 23
gennaio 2013
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