Con Shakespeare in
scena, edito da Nottetempo, escono riunite in un volume le
traduzioni di quattro play a firma di Patrizia Cavalli, che lo
presenterà stasera al Festivaletteratura di Mantova e il 16 a
Pordenonelegge. Sono La tempesta, Sogno di una notte
d'estate, Otello e La dodicesima notte. Mentre
leggiamo il libro, Shakespeare ci cammina accanto. È un amico a noi
contemporaneo che racconta il potere, l'eros, l'amicizia, la morte,
la famiglia la guerra, i tradimenti. Lavorando sulla lingua, la
Cavalli costruisce un italiano che comunica umanità profonda e
pienezza di esperienze. Comunicare in questo modo significa
praticamente tutto. Patrizia lo sa. Di volta in volta ha fatto queste
traduzioni per committenze teatrali. Le ha viste interpretate da
artisti come Carlo Cecchi. Le ha sentite applaudire dal pubblico con
entusiasmo. "Traducendo Shakespeare, a parte alcuni tagli decisi
dal regista, in Otello per esempio", premette la poetessa
accomodata nella sua casa di Roma, vicina a Campo de' Fiori, "sono
rimasta più che fedele al testo, ma cercando di cogliere davvero la
lingua shakespeariana nelle sue sonorità e sfumature. Shakespeare è
sempre pieno di riferimenti e sottotesti che vanno compresi per poi
trovare una lingua ricca e trasparente".
Semplice, ma non
semplificata.
"Proprio così.
Shakespeare vive nel teatro e il pubblico anche popolare che lo
andava a sentire capiva tutto. Però ha una lingua che non è di
adesso, e chi traduce tende a imitare quella antica, a farne qualcosa
di macchinoso e improbabile. Va riportato a una lingua viva. Per
questo le traduzioni invecchiano facilmente. In realtà tradurre,
soprattutto Shakespeare, è una fatica spaventosa: bisogna
attraversare l'inferno dell'artificio per conquistare l'apparenza
della naturalezza. C'è anche da considerare il suono, che è sempre
fondamentale nel suo rapporto col significato, visto che Shakespeare
scrive in versi. Conta che si senta il ritmo nell'andamento della
voce dell'attore. Un muoversi negli accenti che renda il verso
diretto e necessario. Anche chi traduce ha bisogno di questa
ginnastica quasi fisica per trovare i toni vocali dei personaggi,
tanto che traducendo mi succedeva di spostarmi nelle stanze, magari
trovando una soluzione quando raggiungevo la cucina. Otello ha la
magniloquenza tipica degli epilettici, che contiene l'anticipazione
della catastrofe; Iago ha la bassezza approssimativa di certi
romaneschi che fanno intendere di saperla lunga".
Nel suo appartamento che
va su e giù nei livelli, tra scale e pavimenti ondosi, Patrizia
parla di Shakespeare con un abbandono privo di saccenza. Ha il capo
fasciato da un cappuccio azzurro che cela gli effetti della
chemioterapia. A un tratto per il caldo se lo toglie, scoprendo una
bella testa perfettamente tonda. Di giorni ariosi o affannati, di
piccole meraviglie dell'amore, di fisicità impudenti, di dettagli
comuni, si nutrono le poesie della Cavalli, autrice di varie raccolte
pubblicate da Einaudi, da Le mie poesie non cambieranno il mondo
(1974) fino a Datura (2013). Forse è stata la sua semplicità
senz'artificio, la sua nobiltà nell'ordinarietà, il suo senso
centrale del corpo, a farle cogliere il respiro vitalissimo di
Shakespeare.
Di corpo è piena la
sua poesia, Patrizia Cavalli. E qualche tempo fa il suo corpo si è
ammalato.
"Ogni sua particella
sono io. Ogni cellula si rivela, si manifesta. Il mio fisico non è
mai stato separato dalla mente. L'ho ascoltato costantemente. Per
questo sono stata sempre ipocondriaca, sentendo in me qualcosa di
segreto e di estremo. Poi, quando si è manifestato il male vero,
l'ipocondria è passata: l'immaginazione non aveva più un luogo in
cui andare. Il terrore legato all'ipocondria veniva dal vuoto
corporale. Il cancro ha riempito il panico. E mentre gli amici mi
dicevano: hai una gran forza d'animo, la verità è che scoprendo la
malattia io non ero più depressa".
Ha sofferto di
depressione?
"Fin da
giovanissima, al liceo. Poi si è ripresentata in periodi diversi. Mi
abbandonavo a me stessa e fissavo il vuoto. Nella poesia l'ho
descritta. Uno stato di separazione. Passaggi visionari, quasi
schizoidi. Ciò che è solo se stesso e non si muove è terribile,
che sia una parete o un soffitto. Uno psichiatra sostiene che una mia
poesia è la migliore definizione della depressione che abbia mai
sentito e l'ha portata a un convegno: "Persino il sonno adesso
mi dispiace / perché il sonno produce il mio risveglio"".
Non ha mai tentato una
psicoanalisi?
"Una volta ci ho
provato, ma ho lasciato perdere abbastanza presto. La simpatica poeta
milanese Vivian Lamarque era così dispiaciuta per la mia depressione
che mi spinse a provare. Le ho detto: vado, però trovami una
psicoanalista bella, antipatica, elegantissima e sprezzante. Voglio
essere dominata. Invece mi manda da una signora buonissima. Quando
entro nel suo studio si aggiusta il golfetto. Mi chiede: perché
viene da me? Rispondo: perché lei è obbligata ad ascoltarmi per 45
minuti senza ribellarsi. I miei amici non ne possono più".
Era un groviglio di amori infelici?
"Gli amori infelici sono sempre anche felici, altrimenti non potrebbero essere infelici. C'è stato un lunghissimo amore che mi ha fatto scrivere molto. Poi la musa è scomparsa".
Era un groviglio di amori infelici?
"Gli amori infelici sono sempre anche felici, altrimenti non potrebbero essere infelici. C'è stato un lunghissimo amore che mi ha fatto scrivere molto. Poi la musa è scomparsa".
Pensa spesso alla
morte?
"Se le circostanze
sono concrete ti attacchi al dettaglio senza pensare più in
prospettiva. Rimuovi. Eppure rimuovere non è nella mia natura: sono
stata sempre pronta ad affrontare pensieri orrendi. Credo che sia una
forma di arroganza. Ho avuto il tempo d'immaginare la morte. Il
massimo del terrore è l'idea di finire in una zona dove non ho
controllo".
Le sue poesie
trasmettono un'infinita libertà. Come nascono?
"Quelle di pochi
versi arrivano da sole, bussano alla porta e io apro. Cammino, mi
parlo nella mente, scrivo un paio di versi e correggo. Nelle poesie
lunghe, come La patria, c'è un intero sistema di pensiero. Nelle
brevi la concentrazione è immediata".
Quando una poesia è
riuscita?
"Quando si muove.
Deve attraversare un territorio. Può anche sembrare bella, ma se
resta ferma nel suo tempo e nella sua idea, senza un prima e un dopo,
è mezza morta. Che siano tre versi o 300, bisogna che accada
qualcosa. Dev'esserci una sorpresa del pensiero. Un eros nella
parola".
Lei dà sostanza
poetica a parole comuni, quotidiane.
"Non ci sono parole
belle o brutte. Tutte sono stupende. Purché siano reali e
pertinenti. Spesso le parole sono usate in modo orribile, e alcune
vengono logorate dall'uso. Perciò bisogna aspettare che ritrovino
un'innocenza".
“la Repubblica”, 7
settembre 2016
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