Trenta ottobre 1974, ore
4 del mattino locali per esigenze televisive. Rumble in the
jungle: Terremoto nella giungla. Il 25enne George Foreman,
violentissimo e favoritissimo, difese il titolo contro Muhammad Alì.
L’incontro si svolse a Kinshasa nell’allora Zaire, denominazione
che Mobutu aveva voluto per l’attuale Repubblica Democratica del
Congo. Foreman proveniva dalla macellazione di due campioni, Joe
Frazier c Ken Norton. George non picchiava: demoliva. Più volte
Frazier fu letteralmente sollevato da terra. Muhammad Ali, all’apice
della perfezione agonistica, scontò una squalifica di 3 anni e mezzo
per il rifiuto di combattere in Vietnam.
Quando tornò a fine ’70
sul ring, non era più veloce come una farfalla e non pungeva più
come un’ape. Nel ‘71 aveva perso con Frazier, di lì a poco
tritato da Foreman. Perse poi con Norton, pure lui spazzato via da
Foreman. Alcuni giornalisti, come l’improponibile Howard Cosell,
garantirono che Ali avrebbe vissuto una gogna tale da ritirarsi il
giorno successivo. Molti chiesero a Foreman di “non uccidere Alì”
sul ring. Il clima era quello e il capolavoro When we were kings
lo racconta bene. L’incontro fu organizzato da Don King, che
cominciò allora la sua carriera da avvoltoio. Conscio di non essere
più veloce come un tempo, il 32enne (e mezzo) Muhammad Ali fece due
cose. La prima fu inculcare su Foreman ogni dubbio possibile.
Istrione e smargiasso come nessuno, Ali tratteggiò Foreman come un
gorillone lento e mezzo scemo, mentre lui - The Greatest - era
condannato alla supponenza perché “non puoi essere umile se sei
come me”.
Nessuno ha generato
spettacolo come Muhammad Ali, non solo sul ring, ma anche nelle
interviste. Nel frattempo Foreman sbagliava tutto. Appena atterrato a
Kinshasa si presentò con due pastori tedeschi, che per gli abitanti
costituivano il simbolo dell’occupazione colonialista francese.
Rispondeva a monosillabi, rifiutava anche solo l’ipotesi di
perdere. Gli zairesi arrivarono a odiarlo così tanto da gridare di
continuo “Ali boumaye!”: “Alì uccidilo!”. Foreman era più
nero di Ali, ma Alì lo fece sembrare quasi un membro del Ku Klux
Klan. L’altra mossa, smisuratamente geniale e nichilista, fu ideare
una tattica folle. Ali partì forte, sperando di sorprendere il
campione, ma poco dopo si trasformò in punching-ball. Si appoggiò
all’angolo (“rope-a-dopo”) e semplicemente le prese. Foreman,
il potentissimo e di 7 anni più giovane Foreman, gli scaricò per
almeno quattro ring una pioggia di cazzotti al corpo tali da
abbattere chiunque. Chiunque tranne Ali: se ne stava lì, esibendo il
busto e guardando il cielo con i guantoni a proteggere il viso, come
se si sporgesse dalla terrazza di casa per sbirciare il davanzale al
piano superiore. E intanto insultava Foreman. Lo provocava di
continuo: “Tutto qui, George?”, “Mi deludi, George”, “Mia
madre me le dava più forte”.
I film di Rocky non hanno
inventato nulla: è stato Muhammad Ali mk a inventare tutto. Di
fronte al pugile più devastante del mondo si scopriva incassatore
sublime, lui che prima della squalifica schivava anche il vento.
Perché tutto questo? Perché era un pazzo. E perché, nel frattempo,
Foreman perdeva le forze: al sesto round non stava quasi più in
piedi. All’ottava ripresa Ali lo mandò al tappeto e vinse.
Impensabile. Dopo la sconfitta Foreman entrò in crisi, si mise a
fare sesso con chiunque e a collezionare animali esotici. Tre anni
dopo perse ai punti con Jimmy Young e si ritirò. Di lì apoco visse
un’esperienza di pre-morte, vide la luce e si scoprì Predicatore.
Tornò sul ring nel 1987, a 38 anni, e fu ancora campione del mondo
dei massimi a 46. Alì proseguì la sua carriera da dolente Re Lear,
visse una frollatura perfino maggiore (e comunque vincente) con
Frazier nel ’76 a Manila e smise con almeno cinque anni di ritardo.
Fu terribile vederlo divelto dall’ex sparring partner Larry Holmes.
Ma è stato bellissimo viverlo e vederlo. Fino alla fine. Finché ce
n’è stato.
"Il fatto quotidiano", 5 giugno 2016
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