Ottant’anni fa, il 26
aprile 1937, tra le 16.15 e le 19.30, gli aerei della Legione Condor
tedesca, appoggiati dall’Aviazione legionaria italiana, bombardano
a tappeto Guernica, centro della Biscaglia che fa parte dei Paesi
Baschi. Alla fine la città è in fiamme, distrutta per metà. Si
contano tra 400 e 800 morti e molti feriti. Perché questa azione
spietata?
Da poco più di nove mesi
in Spagna è in corso una guerra civile iniziata il 17 luglio 1936
con l’insurrezione di una parte dell’esercito guidata dal
generale Francisco Franco, appoggiato dalle destre, contro la
Repubblica governata dalle sinistre. Nel settembre 1936, nei Paesi
Baschi i rivoltosi nazionalisti conquistano Irún e San Sebastián.
Ma l’obiettivo prioritario è Madrid. La capitale, attaccata tra
novembre e dicembre 1936, non cade nemmeno con le successive
sanguinose battaglie del Jarama e di Guadalajara. Allora i
nazionalisti attaccano la Biscaglia, ricca di industrie e risorse
minerarie: pur essendo cattolica e conservatrice, si è schierata con
la Repubblica. Il 31 marzo 1937 comincia l’offensiva del generale
Emilio Mola, uno dei capi della rivolta, che annuncia: «Se la resa
non sarà immediata raderò al suolo tutta la Biscaglia». E il 26
aprile tocca a Guernica.
Fin da gennaio la
Repubblica spagnola aveva deciso di partecipare all’Exposition
Internationale di Parigi: un gruppo di intellettuali spagnoli
incontra Pablo Picasso a Parigi e lo convince a realizzare una grande
opera di propaganda per il padiglione progettato da Sert e Lacasa,
decorato con interventi di Sánchez, Renau, Miró e Calder. Alla fine
di aprile Guernica diverrà il tema del quadro.
Siamo all’inizio di
quella stagione tragica dell’arte del XX secolo che culminerà il
18 e il 19 luglio 1937 con la doppia inaugurazione, a Monaco, della
Grosse Deutsche Kunstausstellung – la mostra dell’arte ufficiale
nazista – e dell’esposizione dell’Entartete Kunst, la
cosiddetta arte degenerata, che raggruppa senza distinzioni, in una
sorta di abiura o di rogo simbolico, tutte le produzioni
dell’avanguardia nei primi decenni del secolo. Dal 25 maggio al 25
novembre, all’Exposition Internationale des Arts et Techniques di
Parigi si affronteranno, lungo i due lati del Champ de Mars, il
padiglione tedesco di Albert Speer e il padiglione sovietico di Boris
Iofan con le figure ciclopiche in acciaio de L’operaio e la
kolchoziana modellate da Vera Mukhina.
Sconvolto dai reportage
da Guernica e dalle prime immagini delle sue rovine sul quotidiano
comunista «Ce Soir», Picasso sviluppa in forma completamente nuova
alcuni spunti delle incisioni satiriche Sogno e menzogna di
Franco, che assumono ora un valore di ben più stringente
attualità. Da questi primi disegni – rinunciando simbolicamente al
colore – nasce la grande composizione di Guernica, appuntata su una
tela di 349 × 777 centimetri e poi sviluppata in un crescendo di
brutale sintesi delle forme e di distillazione del suo contenuto
drammatico tra l’11 maggio e il 4 giugno. Dora Maar, compagna di
Picasso in quegli anni, ne ha fissato in una serie di scatti
fotografici l’evoluzione inarrestabile e violenta da un insieme
descrittivo ancora leggibile a icona che travalica ogni aspetto
retorico e ogni simbolo attraverso l’implacabile tragicità dello
stile. In un rapido centone di fonti visive – che corrono da
Raffaello a David, fino a Goya – Picasso delinea quattro figure
femminili ploranti e il corpo di un guerriero caduto, sotto gli occhi
allucinati di due enigmatici animali simbolici: il toro e il cavallo
straziato, che rappresentano al tempo stesso la forza del popolo
spagnolo e la violenza bestiale della guerra, la sofferenza e il
furore apocalittico del bombardamento nazista.
Il braccio del caduto,
col pugno levato verso il cielo nelle prime prove, giace a terra
abbandonato nell’opera finita; nell’altra mano è stretto il
moncone di una spada spezzata. L’inaudito dramma urbano delle
pareti divelte e delle case sventrate, impudicamente aperte sulla
strada, è reso attraverso lo slittamento incoerente tra spazio
esterno e spazio domestico: il sole, ancora presente nei primi stati
del quadro, diventa infine una lampada elettrica. Una madre grida di
dolore sul cadavere del suo bambino, un’altra donna si piega e
corre fra le rovine, una terza leva al cielo le braccia nella casa
incendiata. Su tutti si protende il gesto dell’ultima figura che
illumina sconsolata la scena, consegnandola alla verità della
storia.
Renato Guttuso ricorderà
nel 1981 la rivelazione e il perdurante valore di questo «segno
magico che univa impegno civile e ragione poetica (…). Guernica
arrivò su una rivista che sfogliai nello studio di Malaparte. Poi su
una cartolina inviatami da Cesare Brandi da New York, e che portai
addosso per anni. Infine potei vedere il grande dipinto tra le rovine
della Sala delle Cariatidi, nel Palazzo Reale di Milano». Dopo
Parigi Guernica parte nel 1938 per una tournée in Scandinavia e in
Gran Bretagna, quindi nell’aprile 1939 si sposta negli Usa per
raccogliere denaro per i rifugiati spagnoli. Il 15 novembre 1939
giunge al Museum of Modern Art (Moma) di New York, dove rimarrà fino
al 1953, trasformandosi in icona dell’arte moderna.
Nell’autunno del 1953 a
Milano si prepara una importante mostra di Picasso. Nel comitato
organizzatore c’è anche il pittore Attilio Rossi, che conosce bene
l’artista spagnolo perché nel 1939 Picasso, Neruda e lui avevano
collaborato per salvare gli intellettuali spagnoli dopo il crollo
della Repubblica. Nel comitato inizia un serrato dibattito perché
Rossi sostiene che Guernica deve assolutamente esserci alla mostra di
Milano. Nonostante lo scetticismo degli altri, si reca da Picasso a
Vallauris e lo convince al prestito, mostrandogli le fotografie della
drammatica Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, devastata dai
bombardamenti del 1943, e spiegandogli che Guernica sarà esposto
proprio lì. Dopo 14 anni il quadro lascia il Moma per l’Europa e
viene esposto per la prima e unica volta in Italia negli ultimi mesi
del 1953. Da Milano Guernica va in Brasile, poi torna in Europa. Nel
1957 rientra al Moma e solo nel 1981 raggiunge Madrid, dove lo si può
ammirare al Museo Reina Sofia.
“La Lettura Corriere
della Sera”, 19 marzo 2017
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