Mia figlia Matilde, che
ha tre anni e mezzo, dice «toglio» invece di «tolgo», «fao»
invece di «faccio», «vuolo» o «vòlo» invece di «voglio».
Niente di strano: tutti i bambini che imparano a parlare commettono
errori di questo tipo, mostrando la naturale tendenza, per così
dire, a rendere regolari forme grammaticali che sono al contrario
irregolari. Per quanto comunissimo e diffuso in tutte le lingue del
mondo, questo fenomeno basta da solo a farci capire che alla domanda
forse più fondamentale della linguistica - come si apprende la
lingua materna? - non si può rispondere facilmente prendendo a
prestito modelli che descrivono altri generi di apprendimento. Già
Darwin, nell'Origine dell'uomo, aveva messo in luce il
dilemma: il linguaggio, sebbene non sia un vero istinto, in quanto
deve essere sempre appreso, «differisce profondamente dalle altre
abilità, perché l'uomo ha una tendenza istintiva a parlare, come
vediamo già nella lallazione dei bambini piccoli».
Da una parte, dobbiamo
senz'altro escludere che l'acquisizione di una lingua sia l'esito di
un processo determinato unicamente su base biologica, o addirittura
genetica: ogni bambino può imparare a parlare qualsiasi lingua,
indipendentemente - è ovvio - dalle lingue parlate dai suoi
genitori. Dall'altra, non sembrano applicabili nemmeno modelli di
apprendimento secondo i quali le lingue si acquisiscono, su un
substrato neurofisiologico del tutto equiparabile a una tabula rasa,
soltanto per tentativi e errori regolati dall'esperienza, cioè
principalmente per imitazione: se così fosse, infatti, ci dovremmo
aspettare, nel novero virtualmente infinito di forme foneticamente
possibili, errori che di fatto i bambini non commettono mai, e di
conseguenza saremmo portati a ipotizzare tempi di apprendimento molto
più lunghi. Non esistono risposte unanimemente condivise dalla
comunità scientifica, né tantomeno risposte semplici, al problema
del linguaggio umano.
Il primo grande merito di
questo brillante saggio (I confini di Babele - Il cervello e il
mistero delle lingue impossibili, Longanesi) di Andrea Moro,
professore di linguistica generale all'Università «Vita-Salute»
San Raffaele di Milano, sta nel non aggirare o edulcorare le
difficoltà del problema, ma nel delineare un percorso attraverso le
difficoltà che permetta anche al lettore non specialista di farsi
un'idea delle frontiere della ricerca. Il secondo grande merito sta
nell'esemplare rigore metodologico con il quale è strutturata
l'esposizione: l'autore prende le mosse da un ben preciso quadro
teorico (la grammatica generativa di Noam Chomsky), delineato con
dovizia di esempi nella prima parte del volume, passa quindi a
descrivere due ingegnosi esperimenti (da lui stesso ideati e
realizzati) i cui risultati non sono in contrasto con gli assunti
teorici (e dunque li corroborano) e conclude avanzando alcune
affascinanti ipotesi sulle grammatiche possibili.
Mettendo insieme
acquisizioni teoriche e sperimentali appartenenti a ambiti
disciplinari disparati e sviluppando argomentazioni sottili ma
stringenti, Moro mostra che l'unificazione di linguistica e
neuroscienze, pur se ancora distante, è quantomeno concepibile: «Le
teorie linguistiche, basate sulla comparazione di regolarità
grammaticali tra lingue diverse, risultano compatibili, se non
addirittura convergenti, con i risultati di tipo neurobiologico». In
particolare, gli esperimenti effettuati sottoponendo ai soggetti
frasi composte da parole inventate con errori fonologici o con errori
sintattici (o morfosintattici) paiono indicare che alcune
caratteristiche del linguaggio sono biologicamente determinate e che
un'area specifica del cervello (l'area di Broca) si attiva in modo
selettivo nell'elaborazione di tipo sintattico. In relazione al
problema dell'acquisizione del linguaggio, si potrebbe illustrare lo
schema di soluzione verso cui sembra puntare la ricerca attuale
servendoci di un evocativo paragone suggerito da Chomsky: come un
ragno non impara a costruire una ragnatela perché gliel'ha insegnato
un altro ragno, così un bambino non apprende la lingua materna
soltanto perché qualcuno gliel'ha insegnata, ma in primis perché ha
il cervello di un essere umano.
L'idea secondo la quale
si possa considerare la grammatica un software e il cervello un
hardware, che la supporta in modo neutrale come un circuito
elettronico supporta un programma, appare erronea. Al contrario,
sostiene Moro, «la sintassi delle lingue umane (e forse, in
generale, i processi cognitivi che caratterizzano la mente dell'uomo)
sembra essere l'unico software che questo hardware, il cervello
dell'uomo, può esprimere». Accettata questa prospettiva, appare
ragionevole supporre che, fra tutte le grammatiche concepibili, siano
realizzate - tante nelle lingue esistenti, quanto in quelle estinte e
in quelle che in futuro nasceranno - soltanto le grammatiche
compatibili con la struttura neurobiologica della quale si trova
dotato, dalla nascita, ogni individuo della specie Homo sapiens
sapiens. In particolare, il cervello di un bambino sarebbe
sensibile unicamente a una classe ristretta di sintassi possibili,
che non è escluso - ipotizza Moro - si possano caratterizzare in
termini di criteri formali relativamente semplici. Come ha scritto il
linguista C.D. Yang, «gli errori che un bambino può compiere
nell'apprendere la propria lingua non sono altro che forme possibili
in altre lingue»: lingue forse ancora da inventare.
“La Stampa -Tuttolibri”
3 giugno 2006
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