17.9.17

Imparare a parlare (Claudio Bartocci)

Mia figlia Matilde, che ha tre anni e mezzo, dice «toglio» invece di «tolgo», «fao» invece di «faccio», «vuolo» o «vòlo» invece di «voglio». Niente di strano: tutti i bambini che imparano a parlare commettono errori di questo tipo, mostrando la naturale tendenza, per così dire, a rendere regolari forme grammaticali che sono al contrario irregolari. Per quanto comunissimo e diffuso in tutte le lingue del mondo, questo fenomeno basta da solo a farci capire che alla domanda forse più fondamentale della linguistica - come si apprende la lingua materna? - non si può rispondere facilmente prendendo a prestito modelli che descrivono altri generi di apprendimento. Già Darwin, nell'Origine dell'uomo, aveva messo in luce il dilemma: il linguaggio, sebbene non sia un vero istinto, in quanto deve essere sempre appreso, «differisce profondamente dalle altre abilità, perché l'uomo ha una tendenza istintiva a parlare, come vediamo già nella lallazione dei bambini piccoli».
Da una parte, dobbiamo senz'altro escludere che l'acquisizione di una lingua sia l'esito di un processo determinato unicamente su base biologica, o addirittura genetica: ogni bambino può imparare a parlare qualsiasi lingua, indipendentemente - è ovvio - dalle lingue parlate dai suoi genitori. Dall'altra, non sembrano applicabili nemmeno modelli di apprendimento secondo i quali le lingue si acquisiscono, su un substrato neurofisiologico del tutto equiparabile a una tabula rasa, soltanto per tentativi e errori regolati dall'esperienza, cioè principalmente per imitazione: se così fosse, infatti, ci dovremmo aspettare, nel novero virtualmente infinito di forme foneticamente possibili, errori che di fatto i bambini non commettono mai, e di conseguenza saremmo portati a ipotizzare tempi di apprendimento molto più lunghi. Non esistono risposte unanimemente condivise dalla comunità scientifica, né tantomeno risposte semplici, al problema del linguaggio umano.
Il primo grande merito di questo brillante saggio (I confini di Babele - Il cervello e il mistero delle lingue impossibili, Longanesi) di Andrea Moro, professore di linguistica generale all'Università «Vita-Salute» San Raffaele di Milano, sta nel non aggirare o edulcorare le difficoltà del problema, ma nel delineare un percorso attraverso le difficoltà che permetta anche al lettore non specialista di farsi un'idea delle frontiere della ricerca. Il secondo grande merito sta nell'esemplare rigore metodologico con il quale è strutturata l'esposizione: l'autore prende le mosse da un ben preciso quadro teorico (la grammatica generativa di Noam Chomsky), delineato con dovizia di esempi nella prima parte del volume, passa quindi a descrivere due ingegnosi esperimenti (da lui stesso ideati e realizzati) i cui risultati non sono in contrasto con gli assunti teorici (e dunque li corroborano) e conclude avanzando alcune affascinanti ipotesi sulle grammatiche possibili.
Mettendo insieme acquisizioni teoriche e sperimentali appartenenti a ambiti disciplinari disparati e sviluppando argomentazioni sottili ma stringenti, Moro mostra che l'unificazione di linguistica e neuroscienze, pur se ancora distante, è quantomeno concepibile: «Le teorie linguistiche, basate sulla comparazione di regolarità grammaticali tra lingue diverse, risultano compatibili, se non addirittura convergenti, con i risultati di tipo neurobiologico». In particolare, gli esperimenti effettuati sottoponendo ai soggetti frasi composte da parole inventate con errori fonologici o con errori sintattici (o morfosintattici) paiono indicare che alcune caratteristiche del linguaggio sono biologicamente determinate e che un'area specifica del cervello (l'area di Broca) si attiva in modo selettivo nell'elaborazione di tipo sintattico. In relazione al problema dell'acquisizione del linguaggio, si potrebbe illustrare lo schema di soluzione verso cui sembra puntare la ricerca attuale servendoci di un evocativo paragone suggerito da Chomsky: come un ragno non impara a costruire una ragnatela perché gliel'ha insegnato un altro ragno, così un bambino non apprende la lingua materna soltanto perché qualcuno gliel'ha insegnata, ma in primis perché ha il cervello di un essere umano.
L'idea secondo la quale si possa considerare la grammatica un software e il cervello un hardware, che la supporta in modo neutrale come un circuito elettronico supporta un programma, appare erronea. Al contrario, sostiene Moro, «la sintassi delle lingue umane (e forse, in generale, i processi cognitivi che caratterizzano la mente dell'uomo) sembra essere l'unico software che questo hardware, il cervello dell'uomo, può esprimere». Accettata questa prospettiva, appare ragionevole supporre che, fra tutte le grammatiche concepibili, siano realizzate - tante nelle lingue esistenti, quanto in quelle estinte e in quelle che in futuro nasceranno - soltanto le grammatiche compatibili con la struttura neurobiologica della quale si trova dotato, dalla nascita, ogni individuo della specie Homo sapiens sapiens. In particolare, il cervello di un bambino sarebbe sensibile unicamente a una classe ristretta di sintassi possibili, che non è escluso - ipotizza Moro - si possano caratterizzare in termini di criteri formali relativamente semplici. Come ha scritto il linguista C.D. Yang, «gli errori che un bambino può compiere nell'apprendere la propria lingua non sono altro che forme possibili in altre lingue»: lingue forse ancora da inventare.


“La Stampa -Tuttolibri” 3 giugno 2006

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